Orfeo e Davide, re d’Israele, sono figure cardinali, incardinate al potere della
parola. Leggerle in filigrana permette di discernere affinità e differenze tra
Atene e Gerusalemme. Di Orfeo, il poeta primordiale, si dice che sapeva
ammansire le belve feroci, far marciare gli alberi e “persuadere, incantando, le
rocce che lo seguissero” (Euripide). Riuscì, secondo il mito, a muovere a
compassione Ade, il re degli inferi – il suo è un movimento ctonio, di catabasi,
per adempiere la resurrezione al sole.
Anche Davide, quando arma il canto, mette in fuga il maligno: “Davide prendeva
in mano la cetra e suonava; Saul si placava, stava meglio, lo spirito cattivo si
ritirava da lui” (1 Sam 16, 23). A differenza di Davide – dal cui lignaggio
scaturisce il Verbo che annienta ogni verbo, Gesù –, Orfeo è figura originaria,
a cui afferiscono i riti orfici. I misteri di Orfeo riguardano pratiche di
purificazione che non prevedono olocausto; Orfeo insegna il ritorno all’unità,
la separazione tra anima e corpo, la trasmigrazione dell’anima. “È l’estasi e la
sua follia a far sorgere la poesia di Orfeo… L’esperienza indicibile dei
misteri, in quanto non può esprimersi direttamente, trova nella poesia di Orfeo
un’espressione sostitutiva, compensativa” (così Giorgio Colli in: La sapienza
greca I, Adelphi, 1977). Secondo Angelo Tonelli, Orfeo, che “con la sua voce
portò tutte le cose nella gioia” (Eschilo), è una figura sciamanica (in: Eleusis
e Orfismo, Feltrinelli, 2015). La poesia moderna nasce, per così dire,
dall’avvizzimento della parola magica: Orfeo non riesce a riportare in vita
l’amata Euridice, per un pallido gesto di pietà. La poesia, da allora, muove il
cuore, non muta le forme.
Davide, uomo ‘carnale’ quant’altri mai, non è un iniziatore: egli sistema la
liturgia biblica – è il mitico compositore dei Salmi – e porta l’Arca a
Gerusalemme. Davide, tuttavia, ha caratteri ‘dionisiaci’: giovane, bello,
‘erotico’ – le donne, da Mical a Betsabea, si piegano al suo carisma – assume il
genio fondamentale degli adepti di Dioniso, la danza. La strepitosa scena
biblica (2 Sam, 14 ss.) di Davide che “danzava con tutte le forze davanti al
Signore”, forsennato, tra grida e suoni di corno, semisvestito, irrita la
moglie, Mical: dopo aver rimproverato il re, non avrà più figli da lui, “fino al
giorno della sua morte”.
Secondo sacra tradizione, Davide ha potere sulle bestie feroci – il lupo, il
leone e l’orso –: la mirabile immagine “le mie mani sono un flauto/ le mie dita
una cetra” (testimoniata nel Salmo 151, liturgico per la Chiesa ortodossa),
ricorda quella forgiata da Rilke per Orfeo, quando dice della “lieve lira/
cresciuta alla sinistra come un cespo/ di rose in mezzo ai rami dell’ulivo”.
Orfeo e Davide manovrano lo strumento a corda, a cui deve accordarsi la voce; la
lira e il kinnor (l’ebraica cetra) provengono dall’arco – l’arte lirica richiede
mira, è incrostata di sangue.
A differenza di Orfeo – decapitato dalle Baccanti – Davide, il musico guerriero,
sa volgere la cetra in arma, in fionda: uccide il mostro, lo decolla, si
rispecchia in quel cranio pari a un palazzo, lo pretende a sé, insieme all’Arca
(“prese la testa del Filisteo e la portò a Gerusalemme”, 1 Sam, 17, 54).
L’energumeno Golia, sapiente nell’arte della guerra, è una sorta di Sfinge e di
Minotauro, fusi insieme. Diversamente degli Inni Orfici, il salterio è canto
‘pubblico’: in Davide – qui la grande distanza da Orfeo – la dimensione poetica
si fonde con quella politica, il sacerdote è il re. Il genio sciamanico
(diremmo, biblicamente, profetico) scema di fronte alla necessità del governo –
dunque, della lotta perenne. Allo stesso tempo, i Salmi sono incanto e
incitazione, libagione di inni e urlo di guerra, canto che sprofonda negli
abissi dell’uomo – il Salmo 51, ad esempio, in cui Davide chiede a Dio “rendimi
puro” – e preghiera ‘nazionale’. I Salmi congiungono a Dio, ne placano la fame.
Orfeo e Davide – cioè, Atene e Gerusalemme – sono i punti attorno a cui si
forgia la poesia occidentale. Poesia dell’io e del mondo, poesia che sa il
mormorio dell’erba, l’ungulato e il ronzio; che sa avvinghiarsi a Dio e
rivolgersi ai morti, che allontana il male.
Abraham Bosse, Davide con la testa di Golia, 1651
Già Gianfranco Ravasi – in: I Salmi, San Paolo, 2006 – ravvisava nel salterio il
grande codice della poesia (“Per entrare in sintonia piena coi Salmi è
indispensabile aprirsi all’intuizione libera e al rigore della poesia”): nel suo
commento, sono molteplici i riferimenti letterari, da Thomas S. Eliot a Paul
Celan (legato in particolare al Salmo 16, “ti manda un bagliore attorno/
all’angolo destro”). Eppure, a parte sporadiche, pur luminose, sortite (da David
Maria Turoldo a Guido Ceronetti, da Massimo Bontempelli a Mario Luzi e Salvatore
Quasimodo), i letterati restano timorosamente distanti dal testo sacro. Da qui,
l’idea del Salterio dei Poeti: trentatré poeti, noti e ignoti, italiani e
internazionali, cattolici o atei (tra gli altri citiamo, Mariangela Gualtieri e
Daniele Mencarelli, Roberto Mussapi e Giuseppe Conte, Alessandro Ceni e Flavio
Santi, Andrea Temporelli, Gian Ruggero Manzoni, Tiziana Cera Rosco e Susan
Stewart, John Kinsella e Jorge Aulicino, poeta argentino che ha volto nella sua
lingua la Divina Commedia e le poesie di Pasolini), hanno tradotto, a modo loro,
in ebbra libertà, un salmo. Ne è venuto fuori un libro arcangelico e arcano
(presente, in edizione speciale, fuori commercio, nei luoghi del Festival
Biblico e presentato al pubblico sabato 31 maggio, ore 21.30, nel Brolo del
Palazzo Vescovile di Vicenza, insieme a Cristiano Godano), una sorta di
breviario lirico, laico, anomalo, frutto di un’impresa mai tentata prima:
sondare i legami tra parola sacra e poesia contemporanea. Non si tratta di
‘riverginare’ la poesia né di proporre una traduzione ‘alternativa’: opera di
abbandono, questa, piuttosto. Di asciuttezza ascetica – finanche
pericolosa. Sobria ebrietas: orfismo biblico. A dirla come piace all’oggi: il
genio poetico contro l’intelligenza artificiale. Noi preferiamo altro: ascesi.
Cioè: decapitare l’idolo, deflagrare in Dio.
**
Salmo 6
Signore nella tua ira non avvolgermi
Signore nel tuo furore non abbattermi
abbi pietà di me, son tutte un tremito
le mie povere ossa, guariscimi,
ha troppo forti brividi la mia anima,
sino a quando Signore vorrai permetterlo?
Salva tu la mia vita, mio Dio, volgiti
verso di me, con la tua bontà soccorrimi
nessuno tra i morti di te è memore
nessuno canta le tue lodi agli Inferi.
I miei lamenti mi stremano
sono spossato dai miei gemiti
bagno ogni notte il mio letto di lacrime
i miei occhi di pianto si struggono
tra tante mie pene invecchiano.
Via da me voi coi pensieri malefici
Dio ascolta del mio pianto il fremito
il Signore ascolta la mia supplica
e sa le mie lacrime accogliere,
i miei nemici siano affranti e tremino
si voltino via all’istante e si vergognino.
Traduzione di Giuseppe Conte
Giovanni Battista Scultori, Davide tenta di staccare la testa di Golia, 1540
*
Salmo 72
Detto di Salomone
O dio, dona il tuo consiglio al re
e la tua giustezza al figlio del re
perché giudichi il tuo popolo con misura,
anche i mendicanti, con giudizio.
Le montagne innalzino pace al tuo popolo
e i colli si adagino nella giustizia.
Distinguerà i pitocchi tra la gente
e salverà i figli dei poveri e umilierà il sicofante
e sarà sole e luna per generazioni e generazioni
e scenderà come pioggia sull’erba
come le stille istillerà la terra.
Cresceranno nei giorni la sua giustezza
e l’abbondanza di pace
fino a quando non scomparirà la luna,
e dominerà da mare a mare
e dal fiume sino ai limiti della terra abitata.
Gli Etiopi si piegheranno a lui
e i suoi nemici leccheranno la polvere.
I re di Tarsis favolosa e le isole offriranno doni,
anche i re d’Arabia e Saba porteranno doni
e si inginocchieranno a lui tutti i re
e tutte le stirpi gli si faranno schiave.
Così saranno liberati il miserabile dalla mano violenta
e il povero al quale non giunge aiuto
e risparmierà il miserabile e il povero
e salverà le vite dei poveri
dall’usura e dall’ingiustizia,
pagherà il prezzo del riscatto delle loro anime
e sarà onorato il loro nome davanti a lui
e vivrà
e gli sarà dato oro d’Arabia
e pregheranno per lui continuamente,
l’intero giorno diranno bene di lui.
Nascerà il grano nella terra sulle cime dei monti
il suo frutto si eleverà sul Libano
e fiorirà nel paese come erba dei prati.
Sia il suo nome benedetto nei secoli
e davanti al sole resisterà
e siano benedette tutte le tribù della terra,
tutte le stirpi lo rendano felice
bene sia detto il dio potente, il dio di Israele
il solo che fa meraviglie
e bene sia detta la sua gloria per sempre
e nei secoli dei secoli
e tutta la terra sia riempita della sua gloria.
Così sia, così sia.
*
Il grande passaggio
Non sapevo nemmeno se fosse il Salmo 71 o il 72. «Forse ho sbagliato» mi
confessavo, «Ho scritto al Festival che avrei tradotto il 72, ma ora ho il
dubbio che si tratti invece del 71…». Poi ho scoperto che la numerazione non è
univoca: ce n’è una ebraica e una greco-latina. Il Salmo che ho scelto è il 72
secondo la numerazione ebraica, e il 71 secondo quella greca, riferita alla
Bibbia dei LXX. Non conosco l’universo dell’esegesi biblica, ma il greco sì,
perché è la lingua della mia adolescenza, del ginnasio e del liceo. Lingua del
grande passaggio, cioè della traduzione dalla mia vita da bambina a quella da
adulta, segnata da una traduzioneancora più profonda: dalla vita con mio padre a
quella senza di lui — morto suicida un giorno di ottobre durante la mia seconda
liceo. So come ho fatto a sopravvivere: mi sono accorta che dovevo concentrarmi.
E l’esercizio della traduzione, per esempio, era efficace e benefico. Un
continuo movimento dal latino o dal greco all’italiano e viceversa, e anche dal
latino al greco e viceversa. L’esercizio della traduzione mi ha traghettata, mi
ha tradotta in una nuova fase della vita. E io mi sono affidata a questo, mi
sono persa nelle lingue, ho camminato tra radici e radure, afferrandomi a legami
sintattici, cedendo all’incanto dei significanti, accendendo correspondences e
significati. Tradurre ha assorbito il mio dolore come una spugna un liquido.
Sono stati il greco, o il latino, ad avermi tradotta. Blandivano la mia
sofferenza in una perfetta misdirectionillusionistica capace di riorientarmi con
la magia bianca — come direbbe l’amico Davide Brullo — dell’etimologia, dove
tutto vive in un intrico di sentieri, immaginari o veri. Presa in ostaggio nel
bosco arbustivo dove rovi innumerabili impigliano gambe, ogni abito, finanche i
capelli, non mi resta che trovare la strada come chi è abbandonato, con pazienza
e intuizione e coraggio. Tra i cespugli indistinti, tutto al primo sguardo è
cupo e confuso. Provo una direzione, che ritorna su se stessa; ne tento un’altra
che finisce nel fitto impenetrabile. Poi, grazie al miracolo di un dettaglio, le
forme iniziano ad apparire: sono le briciole che conducono fuori.
Un esempio: quando ho incontrato il Salmo 72, ne sono stata intimorita. Mi sono
trovata sola davanti alle parole di Salomone, trasportata da una potenza immensa
in un luogo ancestrale, sollevata in volo, come fossi un granello di polvere
leggerissimo. Non conoscevo il Salmo, credo di non averne mai letto alcuno.
Prima di sceglierlo, ne ho passati in rassegna diversi, in lingua italiana, e ho
preferito il 72. Il motivo della scelta è ovviamente misterioso. Probabilmente
sono stata presa dalle montagne, dalle colline, dal deserto, dal grano e
dall’erba dei prati. E poi dalla giustezza, cioè la misura di dio, che se
accolta, fa accadere lo smisurato. Dal potere orfico della pace che fa muovere
la natura, dalla giustizia e dalla natura, che sono della stessa fatta. Dal
fatto che la giustizia è abbondanza di pace, e la pace avrà la natura
dell’abbondanza. Sì, tutto questo è luminoso e come la luce, scorre. Ma prima,
ho dovuto entrare in un luogo più oscuro, e quella misura di cui sopra, mi ha
guidata nel discernimento (τὸ κρίνειν) dello ptochós (πτωχός) dal pénes (πένης).
Eccolo qui il bosco fitto della traduzione. I due termini si confondevano l’uno
nell’altro nelle versioni che avevo esaminato. Ma se in tutto il Salmo
comparivano due termini differenti, anche io dovevo ben trovare la strada per
questo discernimento. Boscaglia massimamente spinosa: serviva rivolgersi
al Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots di Pierre
Chantraine, strumento esoterico. Qui inizia ad aprirsi la radura parlante. Qui
lo ptochós è il mendicante, l’indigente, l’accattone, il pitocco che vive
nello ptóa (πτόα) ovvero nello spavento o nel terrore, perché ptésso (πτήσσω) è
spaventare, far sbigottire, essere terrorizzato e terrorizzare, ma anche
acquattarsi, rannicchiarsi, appiattirsi per il terrore, detto di persone e di
animali. In questo fitto cespuglio di rovi troviamo anche una lepre — davvero! —
che si nasconde. «Lo ptochós è colui che non può che fuggire e chiedere aiuto»,
leggo nel Chantraine — e in effetti ptóx (πτώξ), variante di ptochós, è epiteto
della lepre, e poi è detto di piante che si schiacciano al suolo. Tuttavia nel
greco tardo, infine, assume solo il significato di povero. A me sarebbe piaciuto
tradurlo con pitocco, perché questo fa eco al suono del greco ptochós,
ma pitocco è parola forte, che avrebbe attratto tutto il Salmo, se fosse stata
ripetuta con l’insistenza con la quale lo è nel testo originale. Ho scelto
invece di frantumarlo in una costellazione formata
da pitocchi, mendicanti, miserabili, che inevitabilmente hanno indebolito il
suono esplosivo occlusivo pt in favore di quello nasale bilabiale m, e di quello
più fluido delle parole intere. Quanto al termine pénes, indicante il povero che
deve lavorare per vivere, e fare fatica quotidiana, è stato decisamente meno
complicato: povero non si impone acusticamente come pitocco e nella sua
neutralità significante, ho potuto ripeterlo lungo tutto il corso del Salmo.
Sempre seguendo il Chantraine, nella radura di pénes ci sono diverse radici ad
armare il terreno: c’è il grado forte pon presente in ponos (πόνος), che rimanda
al mondo della fatica, della lotta, della sofferenza fisica, affrontate nel
lavoro quotidiano. Bene anche il fatto che povero mantenga la labiale p e la
vocale o. E si sente anche solo lontanamente una minima risonanza
tra pénes e povero, soprattutto quando la parola greca è declinata al genitivo,
divendo trisillabica. Infine vorrei dire di quella piccola congiunzione e, in
greco kái (καί), che in tutto il Salmo viene ripetuta venticinque volte, e in
essa mi è sembrato di intravedere il filo di una collana lasciato visibile da
perle che si separano perché non sono fissate da nodi.
Con Walter Benjamin credo che la traduzione sia profondamente una connessione di
vita, Zusammenhang des Lebens, un esercizio di sopravvivenza dell’opera e di chi
ne opera il passaggio.
Traduzione e commento di Roberta Castoldi
Robert van Audenaerde, Davide con la testa di Golia, XVII sec.
*
Salmo 139
Dal tuo orizzonte lontanissimo mi scavi
e stasi o movimento che io sia, mi misuri
e incombi e pervadi e ogni strada
che nomino si svolge in te, sempre più in te.
Se sillaba aperta appena schiocca in questa bocca, tu sai – tu sei –
il discorso compiuto,
mano che pesa
presenza che urta – esame del volto – tu per sempre,
fatalmente, di fronte.
E non so quale sapere tu sia, che accadi
dentro i miei inferi, e nei paradisi. E se mai
una mano esista che mi afferri anche là, nei confini
che tocco con le ali dell’alba, è la tua, ancora.
E parlare desiderando che la notte mi ammanti
e si chiuda su di me ogni luce – ogni vita –
pur sapendo che in tutte le oscurità
per te splendono nascite
e collassi siderali e luci e giorni primordiali.
Lo sa bene, questa anima: accucciato nel ventre
della donna, tessendo le fibre le reni le ossa
nel segreto delle midolla della terra,
ero un grumo
e mi hai guardato, marchiando i giorni che saranno i miei.
Molteplice intero – la tua incalcolabilità.
Sommerso in pensieri cari, non sondabili, che sono
e si moltiplicano come sabbia se li raccolgo,
Io, giunto alla fine, uscito
dal Grande Sogno,
ancora in te mi ritrovo.
Un giorno, un lungo dolore colpirà chi sparge
il sangue innocente, e chi sparla di te
come tu fossi il dio
di un qualsiasi nulla, vanamente.
Odio chi ti odia, è vero, e non dovrei?
E lo odio con odio perfetto, fissandolo
come si fissa il nemico nella lotta.
Ma tu scrutami, Signore, e sfasciami il cuore,
esponimi alla tua prova e leggi i miei sentieri:
se è in me la via della vanità o quella luminosa
dell’eternità.
Ancora scavami. Conducimi.
Traduzione di Gabriel Del Sarto
*In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, XVII sec.
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Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in
miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze,
in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio
piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.
Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per
roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di
lampi.
I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro
Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro
insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del
bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?
Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera,
più vasta del sole.
Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide
dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può
correre, come una pecora.
*
Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo.
Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in
muratura.
Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La
chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici
dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A
cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è
sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno
sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un
drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi.
Bosco in lotta con l’angelo.
Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha
travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne
ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle
visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in
ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la
benedizione.
Glabri morti, grati morti.
*
Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo
inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.
Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha
inghiottito?
Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è
interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il
fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla
sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende
che ti inginocchi.
Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile.
Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i
morti.
Quando non si venerano i morti, si muore.
Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono,
case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di
felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della
cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al
significato della parola bianco.
Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una
trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti
– una visione, forse.
*
Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di
terribile spoliazione.
Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine,
il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare
che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con
l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive
all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.
Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato
forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato
chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel
gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o
atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione
inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi
riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi,
asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera,
altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria
ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non
incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui,
specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di
speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.
Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé,
a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo
extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta
australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in
giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e
là.
Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata
tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra
poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante,
l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di
Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai
tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari
momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli
di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton
nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine
così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia
contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande
codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa
il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.
*
Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che
del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono,
all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo:
> “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù
> sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del
> risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare
> la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo
> incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così
> vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo
> infinito di tutte le cose, non sono nulla”.
Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani
nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio –
mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e
tutto sia un Moby Dick.
*
Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala –
20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta
edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli
appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non
trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per
sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in
vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”;
anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via
tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del
corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso.
Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto.
Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la
donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione –
morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto:
identità non è l’identico.
Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.
Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.
**
Dal “Salterio dei Poeti”
Salmo 42
Lamento del Levita in esilio
Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah.
Cerva assetata l’anima mia
sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio.
L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita;
quando potrò tornare ed espormi al suo volto?
Mangio lacrime giorno e notte
mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio?
Ricordo questo, e in me l’anima esala:
emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio,
tra inni e grida di giubilo di una folla in festa.
Perché ti schianti, anima mia,
perché in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
L’anima mia è franta
poiché mi ricordo di te
dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar.
Abisso desta abisso
nel turbinio delle tue cascate,
i tuoi flutti e i tuoi frangenti
irrompono su di me.
Di giorno l’Eterno
accende il suo amore
di notte in me è il suo cantico,
supplica del Dio vivente.
Interpellerò Dio, mio baluardo:
Per quale ragione di me ti dimentichi?
Perché vago oppresso
dal giogo dei nemici?
Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini,
irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?
Perché ti schianti, anima mia,
e in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del
cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini
estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo
42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con
particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi
erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti
esperti, smaliziati al plagio della vocazione.
La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori
forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima
dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la
cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori
non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide,
avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che
rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida
pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà
con il fondo di bottiglia di un bambino.
Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia
scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a
quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati
anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e
scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio
d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita
sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di
lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il
coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il
tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna
anche in un tempo assurdo.
Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi
riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e
oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri
anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una
patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci
opprime.
La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza
mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole.
Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e
di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web
troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra
identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16).
Traduzione e commento di Andrea Temporelli
*
Salmo 51
Porta numero 51
Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio.
Spingimi la testa nel tuo amore
Spingila verso il mio petto
Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo
Per il quale non so baciare la dolcezza
Che hai inalterato nel mio cuore
Dunque spingimi verso la vicinanza violenta
Del tuo battito che sono tutta io
Tamburellami con la tua grazia
Col capo piegato su me stessa
Annegami
Fammi sbranare dal centro di questo petto
L’iniquità che mi protegge offendendoti
Flettimi, spezzami, raschiami
Scorzami da questa pelle
Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza
Smascherami, sì, sfigurami
Riportami riconoscibile a misura ripida
Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato
Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio
Perché contro te solo ho peccato
Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato
Riportami all’aria della tua bocca
Respirami profondamente
E vietami l’uso della disperazione
Perché non voglio coincidere col mio errore
Reincarnati in questo corpo flesso
Non farmi morire nel Nessuno
Appendimi denocciolata al tuo collo
Fammi ciondolare vicino al tuo calore
Ristabilisci la violenza non del sacrificio
Ma dell’abbandono
Abbandonami in te solo
Isolami in te solo
Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora
E torniamo alla neve
Rimarginiamo lo sfregio al bianco
Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo
Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason
Con il suono dell’impatto di un colpo genitale
Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora
Riconoscimi bianco, spezza ogni osso
Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me
Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato
Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla
Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato
Lasciami solo nel sonno, solo con te
Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio.
Non abbandonarmi, rimani in me.
Non guardare la banalità del mio peccato
Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti
E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi
Sciogli questo ghiaccio irrigidito
Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me
Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia
Non accatastarmi tra i pesci di una fossa
Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare.
Riossigenami
Spingimi la testa nel tuo polmone di neve
Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato
Si, scomparire.
Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve?
Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera
E noi sempre bianco davanti dietro di fianco
Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi
Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente
Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri
Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca
Sulla terra che vibra
Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte
Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini
E vedere appena la terra davanti a noi
Come un prato bianco immenso mietuto di fresco
Senza più corsa dei cani e voci degli abbai
Solo la linea di silenzio del ritorno a casa.
Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo
Fammi risalire Sion, Gerusalemme
Fino al cospetto della montagna orso
Fammi sgozzare l’orso
E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve
Non disprezzare quello che ho da offrirti
Non i sacrifici degli uomini
Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno
Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me.
Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto
Non affidarmi a questo buio.
Guardami, Mio Accecante, denudami
Mio Ipervedente, lavami
Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca
Lasciami respirare la pronuncia del mio nome
Schiacciami in te, incostolami, spingi
Non farmi rimanere mezza viva
E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore
Nessun prossimo apparente
Io sono qui tutta te
Riconoscimi dal punto più distante
Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa
E come un mattino, mio Boreale,
Sarò bianco, vedrai –
Sarò più affamato della neve.
Traduzione di Tiziana Cera Rosco
L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra
del tradurre proviene da Pangea.