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“Le mie mani sono un flauto”. Orfeo e Davide: alle origini della poesia
Orfeo e Davide, re d’Israele, sono figure cardinali, incardinate al potere della parola. Leggerle in filigrana permette di discernere affinità e differenze tra Atene e Gerusalemme. Di Orfeo, il poeta primordiale, si dice che sapeva ammansire le belve feroci, far marciare gli alberi e “persuadere, incantando, le rocce che lo seguissero” (Euripide). Riuscì, secondo il mito, a muovere a compassione Ade, il re degli inferi – il suo è un movimento ctonio, di catabasi, per adempiere la resurrezione al sole.  Anche Davide, quando arma il canto, mette in fuga il maligno: “Davide prendeva in mano la cetra e suonava; Saul si placava, stava meglio, lo spirito cattivo si ritirava da lui” (1 Sam 16, 23). A differenza di Davide – dal cui lignaggio scaturisce il Verbo che annienta ogni verbo, Gesù –, Orfeo è figura originaria, a cui afferiscono i riti orfici. I misteri di Orfeo riguardano pratiche di purificazione che non prevedono olocausto; Orfeo insegna il ritorno all’unità, la separazione tra anima e corpo, la trasmigrazione dell’anima. “È l’estasi e la sua follia a far sorgere la poesia di Orfeo… L’esperienza indicibile dei misteri, in quanto non può esprimersi direttamente, trova nella poesia di Orfeo un’espressione sostitutiva, compensativa” (così Giorgio Colli in: La sapienza greca I, Adelphi, 1977). Secondo Angelo Tonelli, Orfeo, che “con la sua voce portò tutte le cose nella gioia” (Eschilo), è una figura sciamanica (in: Eleusis e Orfismo, Feltrinelli, 2015). La poesia moderna nasce, per così dire, dall’avvizzimento della parola magica: Orfeo non riesce a riportare in vita l’amata Euridice, per un pallido gesto di pietà. La poesia, da allora, muove il cuore, non muta le forme.  Davide, uomo ‘carnale’ quant’altri mai, non è un iniziatore: egli sistema la liturgia biblica – è il mitico compositore dei Salmi – e porta l’Arca a Gerusalemme. Davide, tuttavia, ha caratteri ‘dionisiaci’: giovane, bello, ‘erotico’ – le donne, da Mical a Betsabea, si piegano al suo carisma – assume il genio fondamentale degli adepti di Dioniso, la danza. La strepitosa scena biblica (2 Sam, 14 ss.) di Davide che “danzava con tutte le forze davanti al Signore”, forsennato, tra grida e suoni di corno, semisvestito, irrita la moglie, Mical: dopo aver rimproverato il re, non avrà più figli da lui, “fino al giorno della sua morte”.  Secondo sacra tradizione, Davide ha potere sulle bestie feroci – il lupo, il leone e l’orso –: la mirabile immagine “le mie mani sono un flauto/ le mie dita una cetra” (testimoniata nel Salmo 151, liturgico per la Chiesa ortodossa), ricorda quella forgiata da Rilke per Orfeo, quando dice della “lieve lira/ cresciuta alla sinistra come un cespo/ di rose in mezzo ai rami dell’ulivo”. Orfeo e Davide manovrano lo strumento a corda, a cui deve accordarsi la voce; la lira e il kinnor (l’ebraica cetra) provengono dall’arco – l’arte lirica richiede mira, è incrostata di sangue.  A differenza di Orfeo – decapitato dalle Baccanti – Davide, il musico guerriero, sa volgere la cetra in arma, in fionda: uccide il mostro, lo decolla, si rispecchia in quel cranio pari a un palazzo, lo pretende a sé, insieme all’Arca (“prese la testa del Filisteo e la portò a Gerusalemme”, 1 Sam, 17, 54). L’energumeno Golia, sapiente nell’arte della guerra, è una sorta di Sfinge e di Minotauro, fusi insieme. Diversamente degli Inni Orfici, il salterio è canto ‘pubblico’: in Davide – qui la grande distanza da Orfeo – la dimensione poetica si fonde con quella politica, il sacerdote è il re. Il genio sciamanico (diremmo, biblicamente, profetico) scema di fronte alla necessità del governo – dunque, della lotta perenne. Allo stesso tempo, i Salmi sono incanto e incitazione, libagione di inni e urlo di guerra, canto che sprofonda negli abissi dell’uomo – il Salmo 51, ad esempio, in cui Davide chiede a Dio “rendimi puro” – e preghiera ‘nazionale’. I Salmi congiungono a Dio, ne placano la fame.  Orfeo e Davide – cioè, Atene e Gerusalemme – sono i punti attorno a cui si forgia la poesia occidentale. Poesia dell’io e del mondo, poesia che sa il mormorio dell’erba, l’ungulato e il ronzio; che sa avvinghiarsi a Dio e rivolgersi ai morti, che allontana il male.  Abraham Bosse, Davide con la testa di Golia, 1651 Già Gianfranco Ravasi – in: I Salmi, San Paolo, 2006 – ravvisava nel salterio il grande codice della poesia (“Per entrare in sintonia piena coi Salmi è indispensabile aprirsi all’intuizione libera e al rigore della poesia”): nel suo commento, sono molteplici i riferimenti letterari, da Thomas S. Eliot a Paul Celan (legato in particolare al Salmo 16, “ti manda un bagliore attorno/ all’angolo destro”). Eppure, a parte sporadiche, pur luminose, sortite (da David Maria Turoldo a Guido Ceronetti, da Massimo Bontempelli a Mario Luzi e Salvatore Quasimodo), i letterati restano timorosamente distanti dal testo sacro. Da qui, l’idea del Salterio dei Poeti: trentatré poeti, noti e ignoti, italiani e internazionali, cattolici o atei (tra gli altri citiamo, Mariangela Gualtieri e Daniele Mencarelli, Roberto Mussapi e Giuseppe Conte, Alessandro Ceni e Flavio Santi, Andrea Temporelli, Gian Ruggero Manzoni, Tiziana Cera Rosco e Susan Stewart, John Kinsella e Jorge Aulicino, poeta argentino che ha volto nella sua lingua la Divina Commedia e le poesie di Pasolini), hanno tradotto, a modo loro, in ebbra libertà, un salmo. Ne è venuto fuori un libro arcangelico e arcano (presente, in edizione speciale, fuori commercio, nei luoghi del Festival Biblico e presentato al pubblico sabato 31 maggio, ore 21.30, nel Brolo del Palazzo Vescovile di Vicenza, insieme a Cristiano Godano), una sorta di breviario lirico, laico, anomalo, frutto di un’impresa mai tentata prima: sondare i legami tra parola sacra e poesia contemporanea. Non si tratta di ‘riverginare’ la poesia né di proporre una traduzione ‘alternativa’: opera di abbandono, questa, piuttosto. Di asciuttezza ascetica – finanche pericolosa. Sobria ebrietas: orfismo biblico. A dirla come piace all’oggi: il genio poetico contro l’intelligenza artificiale. Noi preferiamo altro: ascesi. Cioè: decapitare l’idolo, deflagrare in Dio.  ** Salmo 6 Signore nella tua ira non avvolgermi Signore nel tuo furore non abbattermi abbi pietà di me, son tutte un tremito le mie povere ossa, guariscimi, ha troppo forti brividi la mia anima,  sino a quando Signore vorrai permetterlo? Salva tu la mia vita, mio Dio, volgiti verso di me, con la tua bontà soccorrimi nessuno tra i morti di te è memore nessuno canta le tue lodi agli Inferi. I miei lamenti mi stremano sono spossato dai miei gemiti bagno ogni notte il mio letto di lacrime i miei occhi di pianto si struggono tra tante mie pene invecchiano. Via da me voi coi pensieri malefici Dio ascolta del mio pianto il fremito il Signore ascolta la mia supplica e sa le mie lacrime accogliere, i miei nemici siano affranti e tremino si voltino via all’istante e si vergognino.  Traduzione di Giuseppe Conte Giovanni Battista Scultori, Davide tenta di staccare la testa di Golia, 1540 * Salmo 72 Detto di Salomone O dio, dona il tuo consiglio al re  e la tua giustezza al figlio del re perché giudichi il tuo popolo con misura,  anche i mendicanti, con giudizio.  Le montagne innalzino pace al tuo popolo  e i colli si adagino nella giustizia. Distinguerà i pitocchi tra la gente  e salverà i figli dei poveri e umilierà il sicofante e sarà sole e luna per generazioni e generazioni  e scenderà come pioggia sull’erba come le stille istillerà la terra. Cresceranno nei giorni la sua giustezza e l’abbondanza di pace fino a quando non scomparirà la luna, e dominerà da mare a mare  e dal fiume sino ai limiti della terra abitata. Gli Etiopi si piegheranno a lui e i suoi nemici leccheranno la polvere. I re di Tarsis favolosa e le isole offriranno doni, anche i re d’Arabia e Saba porteranno doni e si inginocchieranno a lui tutti i re e tutte le stirpi gli si faranno schiave. Così saranno liberati il miserabile dalla mano violenta  e il povero al quale non giunge aiuto e risparmierà il miserabile e il povero  e salverà le vite dei poveri dall’usura e dall’ingiustizia,  pagherà il prezzo del riscatto delle loro anime  e sarà onorato il loro nome davanti a lui  e vivrà  e gli sarà dato oro d’Arabia  e pregheranno per lui continuamente, l’intero giorno diranno bene di lui. Nascerà il grano nella terra sulle cime dei monti il suo frutto si eleverà sul Libano e fiorirà nel paese come erba dei prati. Sia il suo nome benedetto nei secoli e davanti al sole resisterà  e siano benedette tutte le tribù della terra, tutte le stirpi lo rendano felice bene sia detto il dio potente, il dio di Israele  il solo che fa meraviglie e bene sia detta la sua gloria per sempre e nei secoli dei secoli  e tutta la terra sia riempita della sua gloria. Così sia, così sia. * Il grande passaggio Non sapevo nemmeno se fosse il Salmo 71 o il 72. «Forse ho sbagliato» mi confessavo, «Ho scritto al Festival che avrei tradotto il 72, ma ora ho il dubbio che si tratti invece del 71…». Poi ho scoperto che la numerazione non è univoca: ce n’è una ebraica e una greco-latina. Il Salmo che ho scelto è il 72 secondo la numerazione ebraica, e il 71 secondo quella greca, riferita alla Bibbia dei LXX. Non conosco l’universo dell’esegesi biblica, ma il greco sì, perché è la lingua della mia adolescenza, del ginnasio e del liceo. Lingua del grande passaggio, cioè della traduzione dalla mia vita da bambina a quella da adulta, segnata da una traduzioneancora più profonda: dalla vita con mio padre a quella senza di lui — morto suicida un giorno di ottobre durante la mia seconda liceo. So come ho fatto a sopravvivere: mi sono accorta che dovevo concentrarmi. E l’esercizio della traduzione, per esempio, era efficace e benefico. Un continuo movimento dal latino o dal greco all’italiano e viceversa, e anche dal latino al greco e viceversa. L’esercizio della traduzione mi ha traghettata, mi ha tradotta in una nuova fase della vita. E io mi sono affidata a questo, mi sono persa nelle lingue, ho camminato tra radici e radure, afferrandomi a legami sintattici, cedendo all’incanto dei significanti, accendendo correspondences e significati. Tradurre ha assorbito il mio dolore come una spugna un liquido. Sono stati il greco, o il latino, ad avermi tradotta. Blandivano la mia sofferenza in una perfetta misdirectionillusionistica capace di riorientarmi con la magia bianca — come direbbe l’amico Davide Brullo — dell’etimologia, dove tutto vive in un intrico di sentieri, immaginari o veri. Presa in ostaggio nel bosco arbustivo dove rovi innumerabili impigliano gambe, ogni abito, finanche i capelli, non mi resta che trovare la strada come chi è abbandonato, con pazienza e intuizione e coraggio. Tra i cespugli indistinti, tutto al primo sguardo è cupo e confuso. Provo una direzione, che ritorna su se stessa; ne tento un’altra che finisce nel fitto impenetrabile. Poi, grazie al miracolo di un dettaglio, le forme iniziano ad apparire: sono le briciole che conducono fuori.  Un esempio: quando ho incontrato il Salmo 72, ne sono stata intimorita. Mi sono trovata sola davanti alle parole di Salomone, trasportata da una potenza immensa in un luogo ancestrale, sollevata in volo, come fossi un granello di polvere leggerissimo. Non conoscevo il Salmo, credo di non averne mai letto alcuno. Prima di sceglierlo, ne ho passati in rassegna diversi, in lingua italiana, e ho preferito il 72. Il motivo della scelta è ovviamente misterioso. Probabilmente sono stata presa dalle montagne, dalle colline, dal deserto, dal grano e dall’erba dei prati. E poi dalla giustezza, cioè la misura di dio, che se accolta, fa accadere lo smisurato. Dal potere orfico della pace che fa muovere la natura, dalla giustizia e dalla natura, che sono della stessa fatta. Dal fatto che la giustizia è abbondanza di pace, e la pace avrà la natura dell’abbondanza. Sì, tutto questo è luminoso e come la luce, scorre. Ma prima, ho dovuto entrare in un luogo più oscuro, e quella misura di cui sopra, mi ha guidata nel discernimento (τὸ κρίνειν) dello ptochós (πτωχός) dal pénes (πένης). Eccolo qui il bosco fitto della traduzione. I due termini si confondevano l’uno nell’altro nelle versioni che avevo esaminato. Ma se in tutto il Salmo comparivano due termini differenti, anche io dovevo ben trovare la strada per questo discernimento. Boscaglia massimamente spinosa: serviva rivolgersi al Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots di Pierre Chantraine, strumento esoterico. Qui inizia ad aprirsi la radura parlante. Qui lo ptochós è il mendicante, l’indigente, l’accattone, il pitocco che vive nello ptóa (πτόα) ovvero nello spavento o nel terrore, perché ptésso (πτήσσω) è spaventare, far sbigottire, essere terrorizzato e terrorizzare, ma anche acquattarsi, rannicchiarsi, appiattirsi per il terrore, detto di persone e di animali. In questo fitto cespuglio di rovi troviamo anche una lepre — davvero! — che si nasconde. «Lo ptochós è colui che non può che fuggire e chiedere aiuto», leggo nel Chantraine — e in effetti ptóx (πτώξ), variante di ptochós, è epiteto della lepre, e poi è detto di piante che si schiacciano al suolo. Tuttavia nel greco tardo, infine, assume solo il significato di povero. A me sarebbe piaciuto tradurlo con pitocco, perché questo fa eco al suono del greco ptochós, ma pitocco è parola forte, che avrebbe attratto tutto il Salmo, se fosse stata ripetuta con l’insistenza con la quale lo è nel testo originale. Ho scelto invece di frantumarlo in una costellazione formata da pitocchi, mendicanti, miserabili, che inevitabilmente hanno indebolito il suono esplosivo occlusivo pt in favore di quello nasale bilabiale m, e di quello più fluido delle parole intere. Quanto al termine pénes, indicante il povero che deve lavorare per vivere, e fare fatica quotidiana, è stato decisamente meno complicato: povero non si impone acusticamente come pitocco e nella sua neutralità significante, ho potuto ripeterlo lungo tutto il corso del Salmo. Sempre seguendo il Chantraine, nella radura di pénes ci sono diverse radici ad armare il terreno: c’è il grado forte pon presente in ponos (πόνος), che rimanda al mondo della fatica, della lotta, della sofferenza fisica, affrontate nel lavoro quotidiano. Bene anche il fatto che povero mantenga la labiale p e la vocale o. E si sente anche solo lontanamente una minima risonanza tra pénes e povero, soprattutto quando la parola greca è declinata al genitivo, divendo trisillabica. Infine vorrei dire di quella piccola congiunzione e, in greco kái (καί), che in tutto il Salmo viene ripetuta venticinque volte, e in essa mi è sembrato di intravedere il filo di una collana lasciato visibile da perle che si separano perché non sono fissate da nodi.   Con Walter Benjamin credo che la traduzione sia profondamente una connessione di vita, Zusammenhang des Lebens, un esercizio di sopravvivenza dell’opera e di chi ne opera il passaggio. Traduzione e commento di Roberta Castoldi Robert van Audenaerde, Davide con la testa di Golia, XVII sec. * Salmo 139 Dal tuo orizzonte lontanissimo mi scavi e stasi o movimento che io sia, mi misuri e incombi e pervadi e ogni strada che nomino si svolge in te, sempre più in te. Se sillaba aperta appena schiocca in questa bocca, tu sai – tu sei –  il discorso compiuto,                                   mano che pesa presenza che urta – esame del volto – tu per sempre, fatalmente, di fronte. E non so quale sapere tu sia, che accadi  dentro i miei inferi, e nei paradisi. E se mai  una mano esista che mi afferri anche là, nei confini che tocco con le ali dell’alba, è la tua, ancora. E parlare desiderando che la notte mi ammanti e si chiuda su di me ogni luce – ogni vita –  pur sapendo che in tutte le oscurità                    per te splendono nascite  e collassi siderali e luci e giorni primordiali. Lo sa bene, questa anima: accucciato nel ventre della donna, tessendo le fibre le reni le ossa nel segreto delle midolla della terra,                                                     ero un grumo e mi hai guardato, marchiando i giorni che saranno i miei. Molteplice intero – la tua incalcolabilità.  Sommerso in pensieri cari, non sondabili, che sono  e si moltiplicano come sabbia se li raccolgo,  Io, giunto alla fine, uscito                                     dal Grande Sogno, ancora in te mi ritrovo. Un giorno, un lungo dolore colpirà chi sparge  il sangue innocente, e chi sparla di te  come tu fossi il dio di un qualsiasi nulla, vanamente.                                     Odio chi ti odia, è vero, e non dovrei? E lo odio con odio perfetto, fissandolo  come si fissa il nemico nella lotta. Ma tu scrutami, Signore, e sfasciami il cuore, esponimi alla tua prova e leggi i miei sentieri: se è in me la via della vanità o quella luminosa dell’eternità.                 Ancora scavami. Conducimi.  Traduzione di Gabriel Del Sarto *In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, XVII sec. L'articolo “Le mie mani sono un flauto”. Orfeo e Davide: alle origini della poesia proviene da Pangea.
May 30, 2025 / Pangea
“Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra del tradurre
Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze, in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.  Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di lampi.  I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?  Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera, più vasta del sole.  Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può correre, come una pecora. * Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo. Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in muratura.  Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi. Bosco in lotta con l’angelo.  Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la benedizione.  Glabri morti, grati morti. * Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.  Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha inghiottito? Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende che ti inginocchi.  Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile. Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i morti.  Quando non si venerano i morti, si muore.  Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono, case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al significato della parola bianco.    Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti – una visione, forse.  * Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di terribile spoliazione.  Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine, il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.  Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi, asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera, altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui, specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.  Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé, a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e là.  Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante, l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.   * Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono, all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo: > “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù > sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del > risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare > la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo > incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così > vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo > infinito di tutte le cose, non sono nulla”. Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio – mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e tutto sia un Moby Dick.  * Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala – 20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”; anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso. Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto. Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione – morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto: identità non è l’identico.  Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.  Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.  ** Dal “Salterio dei Poeti” Salmo 42 Lamento del Levita in esilio Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah. Cerva assetata l’anima mia sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio. L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita; quando potrò tornare ed espormi al suo volto?  Mangio lacrime giorno e notte mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio? Ricordo questo, e in me l’anima esala: emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio, tra inni e grida di giubilo di una folla in festa. Perché ti schianti, anima mia, perché in me bramisci? Confida in Dio: ancora potrò celebrarlo, archivio delle mie fattezze, mio Creatore. L’anima mia è franta poiché mi ricordo di te dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar. Abisso desta abisso  nel turbinio delle tue cascate, i tuoi flutti e i tuoi frangenti irrompono su di me. Di giorno l’Eterno accende il suo amore di notte in me è il suo cantico, supplica del Dio vivente. Interpellerò Dio, mio baluardo: Per quale ragione di me ti dimentichi? Perché vago oppresso dal giogo dei nemici? Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini, irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio? Perché ti schianti, anima mia, e in me bramisci? Confida in Dio: ancora potrò celebrarlo, archivio delle mie fattezze, mio Creatore. Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo 42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti esperti, smaliziati al plagio della vocazione. La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide, avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà con il fondo di bottiglia di un bambino. Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna anche in un tempo assurdo. Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci opprime. La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole. Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16). Traduzione e commento di Andrea Temporelli * Salmo 51  Porta numero 51 Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio. Spingimi la testa nel tuo amore Spingila verso il mio petto Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo  Per il quale non so baciare la dolcezza  Che hai inalterato nel mio cuore Dunque spingimi verso la vicinanza violenta  Del tuo battito che sono tutta io Tamburellami con la tua grazia Col capo piegato su me stessa Annegami Fammi sbranare dal centro di questo petto  L’iniquità che mi protegge offendendoti Flettimi, spezzami, raschiami Scorzami da questa pelle Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza Smascherami, sì, sfigurami Riportami riconoscibile a misura ripida Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio Perché contro te solo ho peccato Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato Riportami all’aria della tua bocca Respirami profondamente E vietami l’uso della disperazione  Perché non voglio coincidere col mio errore Reincarnati in questo corpo flesso Non farmi morire nel Nessuno Appendimi denocciolata al tuo collo Fammi ciondolare vicino al tuo calore Ristabilisci la violenza non del sacrificio Ma dell’abbandono Abbandonami in te solo Isolami in te solo Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora E torniamo alla neve Rimarginiamo lo sfregio al bianco Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo  Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason Con il suono dell’impatto di un colpo genitale Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora Riconoscimi bianco, spezza ogni osso  Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato Lasciami solo nel sonno, solo con te Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio. Non abbandonarmi, rimani in me. Non guardare la banalità del mio peccato  Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi Sciogli questo ghiaccio irrigidito  Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia Non accatastarmi tra i pesci di una fossa Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare. Riossigenami Spingimi la testa nel tuo polmone di neve Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato Si, scomparire. Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve? Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera E noi sempre bianco davanti dietro di fianco Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca Sulla terra che vibra Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini E vedere appena la terra davanti a noi  Come un prato bianco immenso mietuto di fresco  Senza più corsa dei cani e voci degli abbai Solo la linea di silenzio del ritorno a casa. Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo Fammi risalire Sion, Gerusalemme  Fino al cospetto della montagna orso Fammi sgozzare l’orso E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve Non disprezzare quello che ho da offrirti Non i sacrifici degli uomini Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me. Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto Non affidarmi a questo buio. Guardami, Mio Accecante, denudami  Mio Ipervedente, lavami  Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca Lasciami respirare la pronuncia del mio nome Schiacciami in te, incostolami, spingi Non farmi rimanere mezza viva E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore Nessun prossimo apparente Io sono qui tutta te Riconoscimi dal punto più distante Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa E come un mattino, mio Boreale,  Sarò bianco, vedrai – Sarò più affamato della neve. Traduzione di Tiziana Cera Rosco L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra del tradurre proviene da Pangea.
April 26, 2025 / Pangea