La poesia nasce in vetta – svettare è il metodo degli ispirati; è un modo di
voltare il collo, di rendere lo sguardo alle nevi.
…e il linguaggio torni ciò che è: neve, ululato di nubi, nebbie in gregge; il
fischio del rapace; i rami in amore marziale. Complica il linguaggio chi è
complice di questo infame semplificare. La parola non lega – scioglie,
sprigiona, libera.
Slega nodi – sega cordami. Ogni parola: giaguaro delle nevi.
In altura si inspira – a valle si espira, ci si esprime. L’altezza, a povertà
d’aria, non permette scrittura – si scrive soltanto a umana quota, da uomo a
uomo, di cose imparate e impari, di ciò che lassù si è visto.
*
La poesia giunge da Elicona, le “santissime vette”, i “vertici sommi”, in
Beozia, dove dimorano le Muse. Vetta di 1748 metri, montagna cucciola: la vera
altezza si misura in profondità.
Sull’Oreb – o Sinai che sia – Mosè incontra Dio. L’Oreb è “il monte di Dio”
(har-el helohim): poco più di un colle – l’attuale Har Karkom, misura 847 metri
–; Dio appare in forma di roveto che arde. La misura di Dio è diversa da quella
adottata dai geografi, agiografi delle rocce.
Mosè pascola capre e pecore; secoli dopo l’agnus dei, Cristo, accompagnerà i
discepoli – Pietro, Giacomo e Giovanni “suo fratello” – “su un alto monte” per
trasfigurarsi. Secondo la tradizione, il monte della trasfigurazione è il Tabor,
una collina che si eleva di cinquecento metri sul livello del mare. Ancora una
volta, altezza che si misura in profondità.
Grazie alla parola ottenuta da Dio sul monte, Mosè apre le acque.
Grazie alle parole scambiate con il Padre, il Figlio apre i cieli.
Grazie al logos succhiato dalle Muse, Orfeo scende negli inferi.
*
Il Ventoux asceso da Petrarca nel 1336 si trova a Vaucluse, in Provenza, misura
1910 metri. È un’ascesa laica, quella del poeta: eppure, ‘purgatoriale’. Giunto
in quota insieme al fratello, Petrarca apre a caso le Confessioni di Agostino, a
confinare il fato in provvidenza:
> “Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva
> capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che
> attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo
> chiamo con Dio e testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «E
> vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le
> ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e
> trascurano se stessi». Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che
> desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me
> stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da
> tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da
> ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di
> grande”.
Il monte non è Paradiso, ma Purgatorio: agisce come un battesimo, come acqua
battente. Suprema spoliazione – della mente, in scarsità di ossigeno; del corpo,
in ristrettezze d’energie – per gettarsi nel superiore.
Il monte: smontarsi di ogni aggettivo, lasciarsi sollevare.
Gettarsi, cioè: precipitare – spogliarsi, cioè: spezzarsi.
Il corpo va spezzato, l’opera va spezzata – così, per briciole, si cibano i
divezzi lettori.
*
Il canto di Orfeo dischiude gli Inferi: pur spalancati come un frutto, al poeta
non è permesso riportare in vita l’amata, Euridice. La vetta di Orfeo è il
canto: volgersi verso il monte Pangeo, per ammirare il sorgere di Apollo, lo
porta a morte. Dioniso, geloso, gli scaglia le sfreccianti Baccanti, le furiose,
che spezzano il corpo di Orfeo gettandolo nell’Evros. Il fiume, endecasillabo
del monte, suo azzurro poema. Soltanto fatta a pezzi la poesia s’invola, si
alza.
*
Non esiste poesia che non comporti ascesi: Rilke – il poeta orfico per
antonomasia – conclude la propria ascesi nel castelletto di Muzot, presso
Veyras, nel Canton Vallese, a poco più di 600 metri di altitudine. Dino Campana,
l’autore dei Canti Orfici, vagabondava per i monti, “giurando noi fede
all’azzurro” (così nella sezione che apre Immagini del viaggio e della
montagna):
> “Pare la donna che siede pallida giovine ancora
> Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
> Avanti a lei incerte si snodano le valli
> Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
> La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
> E il semplice cuore provato negli anni
> A le melodie della terra
> Ascolta quieto: le note
> Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
> Da selve oscure il torrente
> Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
> Lambe ed involge aereo cilestrino…
> E il cuculo cola più lento due note velate
> Nel silenzio azzurrino”.
*
Montagna: luoghi di monaci e di briganti, di rifugi, di transfughi, di divinità
di confine – di eresiarchi e di anarchici. Imperiale è l’impervio. Così i poeti,
eletti al brigantaggio del linguaggio, al bracconaggio del verbo, a parola che
cede in gravità – che ha misura nel sovrumano silenzio.
Gli sciamani costruivano il proprio tamburo, a orientarsi nel viaggio celeste,
con pelli di bestie d’alta quota, esseri capaci d’involarsi nell’abisso – quasi
angeli.
Così, ogni scalata è santa, ogni parola è stilita, sospesa tra terra e cielo, a
capofitto.
Ci si eleva per abbassarsi, ci si innalza per scoprire la propria altissima
debolezza. Il fuoco è verticale perché divora le cose del mondo, perché
incenerisce – così l’uomo consuma per involarsi: ma la sua è cenere infeconda,
l’effimera del frutto.
Dunque: farsi parola per espiazione – per esplosione.
Anselm Kiefer, Voglio vedere le mie montagne – für Giovanni Segantini
*
Secondo l’astronomo francese Jean Jacques Dortous de Mairan, vissuto nel XVIII
secolo, dall’Olimpo, il mitico monte degli dèi, si ammirava, all’epoca dei Greci
antichi, l’aurora boreale, il poema celeste. Epopea di guerre stellari.
Lo stesso astronomo ha scritto un importante studio sui ghiacci, il luogo in cui
si sublima la montagna. I ghiacciai: lente fenici dei monti.
Il libro: ghiacciaio che si scioglie sotto gli occhi del lettore, per riformarsi
altrove, in altre conche, in altre calotte. La montagna non va vinta, ma
invitata – chi scala sa che esiste l’attimo in cui le gambe danzano.
Cosce da arciere, cosce da rapace.
*
C’è chi cammina come avesse endecasillabi nei polpacci, con un ritmo di
singolare eleganza. E chi marcia in novenari – oppure uniformando il proprio
andare all’oceanico verso di Walt Whitman, il gran vagabondo.
Altra fermezza: camminare restando fermi, come sulla tolda di una barca. Il
rifugio, ben più che una casa, è un cielo, come i cieli nel Paradiso di Dante.
Sempre, chi va, va masticando un voto – “Bisogna cristallizzarsi, costringersi
nel ritmo giusto… Bisogna entrare in un voto, indossare un voto”, scrive
Scipione nel 1932, ricoverato ad Arco di Trento, rivelato a se stesso dal male,
letale.
> “Tutto è stato mantenuto, ma io non posso godere dell’adempimento: ho fatto
> del tutto perché questo non avvenisse. Mi sono adoperato per precipitare”.
Si sale a precipizio – si ascende per precipitare.
*
La vertigine è cosa diversa dalla vetta: la poesia di Georg Trakl scritta a
Grodek, in Galizia, è vertiginosa.
> “A sera risuonano i boschi autunnali
> di mortali armi, e le pianure d’oro
> e i laghi azzurri dove sprofonda
> un cupo sole; la notte abbraccia
> guerrieri agonizzanti, il pianto selvaggio
> di bocche fracassate”.
Per i Greci il punto di vertigine è il mare in cui Ulisse vaga in sapienziale
pellegrinaggio; è Delfi, seicento metri sul mare, ai piedi del Parnaso, dove la
Pizia ulula – Apollo-Lupo – e sibila – Pizia-Pitone – parole inaudite,
d’incomprensibile vello; per i cristiani è la Croce, conficcata sul “monte
Calvario”, il Golgota, fuori le mura di Gerusalemme: è quella la vera ‘salita’,
la ‘scalata’. Il cristiano, per fede, smuove le montagne.
*
In Estremo Oriente il monaco-poeta si spinge tra baratri e barbarie, in desolati
luoghi: non ha meta, il suo monito è perdersi. Spopolarsi, questo è il carisma
della poesia di tali erranti monaci. Nessuna cima li alletta, nessun record,
nessun Polo: chi perde in profondità, compensa in statistiche, accumula cifre e
vette, come se la montagna fosse una bestia da macello.
Del più noto di questi poeti, Hanshan, “Montagna fredda”, vissuto, forse, nel
VII secolo, non sappiamo nulla. Anonimato, anemia del sé, annientarsi è ciò che
tenta il vagabondo nel suo nottivago andare: essere il fiore sul ciglio,
abbagliare per riservatezza – e a tratti, ridere di se stessi.
> “Contento della via semplice che ho scelto,
> tra nebbie e rampicanti e grotte nella roccia,
> senso di libertà nella natura selvaggia,
> le nuvole bianche in ozio per compagne,
> c’è la strada ma non raggiunge il mondo,
> solo chi ha assopito i pensieri può arrivare qui,
> siedo a notte da solo sul letto di pietra,
> la luna piena sulla Montagna Fredda”.
Gli eremiti conficcati nelle grotte del Ladakh, al di là del linguaggio, fanno
dell’Himalaya la loro grande arpa:
> “Non aver paura di meditare da solo in una grotta.
> Non aver paura di meditare da solo in una grotta, con pochissimo cibo, né di
> ammalarti.
> Non aver paura di meditare da solo in una grotta né di morire lì.
> Non aver paura di meditare da solo in una grotta, né di morire lì senza che
> nessuno conosca neppure il tuo nome”.
*
René Daumal scrive il suo trattato di mistica dell’alpinismo, Il Monte Analogo,
per “il principiante”. L’esperto ha già esperito: ma a noi preme inoltrarci nel
principio, nostro premio – principiare il principio.
Di fronte alla montagna si è sempre al principio; ascendere: rientrare nel
ventre. Ascendere: sfigurare dio.
“Ognuno faceva il suo inventario, e di giorno in giorno ognuno si sentiva più
povero, non vedendo niente intorno o dentro di sé che gli appartenesse
realmente”. La pratica comincia dalla povertà.
Alla massa preferire la comunità degli affini; al lavoro meccanico la creatività
individuale; all’ambizione la dedizione; alla delazione la devozione; allo
sciaguattare dell’io, lo scempio dell’io; alla classifica il fuori legge; al
rancore e all’invidia – eccitazioni metropolitane – l’ira, energia dinamica;
all’ego l’epos, all’ethos l’eros; al poetico, la poesia.
*
Emily Dickinson amava i vulcani; nel giardino di Amherst, 88 metri sul livello
del mare, scorgeva un Everest.
“…Ritrosa Montagna!
Porpore di Ere – sostano per te –
Il Tramonto – passa in rassegna il suo Reggimento di Zaffiro –
Il Giorno – fa cadere su di te il suo Rosso Addio!
Immobile – Ricoperta dalla tua Maglia di ghiacci –
Coscia di Granito – e muscolo – d’Acciaio –
Incurante – in egual misura – di pompa – o commiato”.
A misura dell’altezza d’amare, Emily – poesia 452 del suo intrepido canzoniere –
indossa il Chimborazo, titanica vetta dell’Ecuador, scalata qualche decennio
prima da Alexander von Humboldt, “il punto più distante dal centro della Terra”,
i cancelli del cielo.
> “Amore – tu sei alto –
> Non posso scalarti –
> Ma, si fosse in Due –
> Chissà che noi –
> Alternandoci – al Chimborazo –
> Ducali – alla fine – non si arrivi a starti accanto –”
*
A simile altitudine è educato chi va per deserti, ancestrali montagne
sbriciolate, fatte sabbia. Duna, demonio del vento, mio indovino, indovinami.
Sahara, che un tempo fosti Everest…
*
In montagna: code di umani come al supermercato. Se la montagna
diventa accessibile, che ne è delle forze che la abitano, dell’eco che sconfigge
ogni tentativo di io, di mio?
“Ho la sensazione di aver conosciuto un miracolo, e forse non avrei potuto
vederlo questo miracolo se la sua scomparsa non ne facesse parte”, ha scritto il
poeta svizzero Maurice Chappaz. Ai suoi occhi, il Vallese era apparentato al
Tibet, “Si entra nell’Eternità senza accorgersene”. Ai suoi occhi, i morti “e il
loro infimo lampo azzurro”, sgattaiolavano dai ghiacciai: “i loro passi come
singhiozzi”.
Di questo attracco all’altro mondo, ora, cosa resta?
Via i morti, architravi del ghiacciaio, e tutto si smonta in palude.
*
Voglio vedere le mie montagne, sussurrava Segantini, morendo – le montagne, con
dote di dieci ali, già lo stavano sollevando. Altezza, in questo caso, è un modo
di accarezzare.
Svettare, cioè: abbassarsi per caricare in spalla chi ha libellule gambe.
*In copertina: Leonardo Roda, Il Cervino, parete Nord
L'articolo Svettare: per una poetica della montagna proviene da Pangea.
Tag - Orfeo
Orfeo e Davide, re d’Israele, sono figure cardinali, incardinate al potere della
parola. Leggerle in filigrana permette di discernere affinità e differenze tra
Atene e Gerusalemme. Di Orfeo, il poeta primordiale, si dice che sapeva
ammansire le belve feroci, far marciare gli alberi e “persuadere, incantando, le
rocce che lo seguissero” (Euripide). Riuscì, secondo il mito, a muovere a
compassione Ade, il re degli inferi – il suo è un movimento ctonio, di catabasi,
per adempiere la resurrezione al sole.
Anche Davide, quando arma il canto, mette in fuga il maligno: “Davide prendeva
in mano la cetra e suonava; Saul si placava, stava meglio, lo spirito cattivo si
ritirava da lui” (1 Sam 16, 23). A differenza di Davide – dal cui lignaggio
scaturisce il Verbo che annienta ogni verbo, Gesù –, Orfeo è figura originaria,
a cui afferiscono i riti orfici. I misteri di Orfeo riguardano pratiche di
purificazione che non prevedono olocausto; Orfeo insegna il ritorno all’unità,
la separazione tra anima e corpo, la trasmigrazione dell’anima. “È l’estasi e la
sua follia a far sorgere la poesia di Orfeo… L’esperienza indicibile dei
misteri, in quanto non può esprimersi direttamente, trova nella poesia di Orfeo
un’espressione sostitutiva, compensativa” (così Giorgio Colli in: La sapienza
greca I, Adelphi, 1977). Secondo Angelo Tonelli, Orfeo, che “con la sua voce
portò tutte le cose nella gioia” (Eschilo), è una figura sciamanica (in: Eleusis
e Orfismo, Feltrinelli, 2015). La poesia moderna nasce, per così dire,
dall’avvizzimento della parola magica: Orfeo non riesce a riportare in vita
l’amata Euridice, per un pallido gesto di pietà. La poesia, da allora, muove il
cuore, non muta le forme.
Davide, uomo ‘carnale’ quant’altri mai, non è un iniziatore: egli sistema la
liturgia biblica – è il mitico compositore dei Salmi – e porta l’Arca a
Gerusalemme. Davide, tuttavia, ha caratteri ‘dionisiaci’: giovane, bello,
‘erotico’ – le donne, da Mical a Betsabea, si piegano al suo carisma – assume il
genio fondamentale degli adepti di Dioniso, la danza. La strepitosa scena
biblica (2 Sam, 14 ss.) di Davide che “danzava con tutte le forze davanti al
Signore”, forsennato, tra grida e suoni di corno, semisvestito, irrita la
moglie, Mical: dopo aver rimproverato il re, non avrà più figli da lui, “fino al
giorno della sua morte”.
Secondo sacra tradizione, Davide ha potere sulle bestie feroci – il lupo, il
leone e l’orso –: la mirabile immagine “le mie mani sono un flauto/ le mie dita
una cetra” (testimoniata nel Salmo 151, liturgico per la Chiesa ortodossa),
ricorda quella forgiata da Rilke per Orfeo, quando dice della “lieve lira/
cresciuta alla sinistra come un cespo/ di rose in mezzo ai rami dell’ulivo”.
Orfeo e Davide manovrano lo strumento a corda, a cui deve accordarsi la voce; la
lira e il kinnor (l’ebraica cetra) provengono dall’arco – l’arte lirica richiede
mira, è incrostata di sangue.
A differenza di Orfeo – decapitato dalle Baccanti – Davide, il musico guerriero,
sa volgere la cetra in arma, in fionda: uccide il mostro, lo decolla, si
rispecchia in quel cranio pari a un palazzo, lo pretende a sé, insieme all’Arca
(“prese la testa del Filisteo e la portò a Gerusalemme”, 1 Sam, 17, 54).
L’energumeno Golia, sapiente nell’arte della guerra, è una sorta di Sfinge e di
Minotauro, fusi insieme. Diversamente degli Inni Orfici, il salterio è canto
‘pubblico’: in Davide – qui la grande distanza da Orfeo – la dimensione poetica
si fonde con quella politica, il sacerdote è il re. Il genio sciamanico
(diremmo, biblicamente, profetico) scema di fronte alla necessità del governo –
dunque, della lotta perenne. Allo stesso tempo, i Salmi sono incanto e
incitazione, libagione di inni e urlo di guerra, canto che sprofonda negli
abissi dell’uomo – il Salmo 51, ad esempio, in cui Davide chiede a Dio “rendimi
puro” – e preghiera ‘nazionale’. I Salmi congiungono a Dio, ne placano la fame.
Orfeo e Davide – cioè, Atene e Gerusalemme – sono i punti attorno a cui si
forgia la poesia occidentale. Poesia dell’io e del mondo, poesia che sa il
mormorio dell’erba, l’ungulato e il ronzio; che sa avvinghiarsi a Dio e
rivolgersi ai morti, che allontana il male.
Abraham Bosse, Davide con la testa di Golia, 1651
Già Gianfranco Ravasi – in: I Salmi, San Paolo, 2006 – ravvisava nel salterio il
grande codice della poesia (“Per entrare in sintonia piena coi Salmi è
indispensabile aprirsi all’intuizione libera e al rigore della poesia”): nel suo
commento, sono molteplici i riferimenti letterari, da Thomas S. Eliot a Paul
Celan (legato in particolare al Salmo 16, “ti manda un bagliore attorno/
all’angolo destro”). Eppure, a parte sporadiche, pur luminose, sortite (da David
Maria Turoldo a Guido Ceronetti, da Massimo Bontempelli a Mario Luzi e Salvatore
Quasimodo), i letterati restano timorosamente distanti dal testo sacro. Da qui,
l’idea del Salterio dei Poeti: trentatré poeti, noti e ignoti, italiani e
internazionali, cattolici o atei (tra gli altri citiamo, Mariangela Gualtieri e
Daniele Mencarelli, Roberto Mussapi e Giuseppe Conte, Alessandro Ceni e Flavio
Santi, Andrea Temporelli, Gian Ruggero Manzoni, Tiziana Cera Rosco e Susan
Stewart, John Kinsella e Jorge Aulicino, poeta argentino che ha volto nella sua
lingua la Divina Commedia e le poesie di Pasolini), hanno tradotto, a modo loro,
in ebbra libertà, un salmo. Ne è venuto fuori un libro arcangelico e arcano
(presente, in edizione speciale, fuori commercio, nei luoghi del Festival
Biblico e presentato al pubblico sabato 31 maggio, ore 21.30, nel Brolo del
Palazzo Vescovile di Vicenza, insieme a Cristiano Godano), una sorta di
breviario lirico, laico, anomalo, frutto di un’impresa mai tentata prima:
sondare i legami tra parola sacra e poesia contemporanea. Non si tratta di
‘riverginare’ la poesia né di proporre una traduzione ‘alternativa’: opera di
abbandono, questa, piuttosto. Di asciuttezza ascetica – finanche
pericolosa. Sobria ebrietas: orfismo biblico. A dirla come piace all’oggi: il
genio poetico contro l’intelligenza artificiale. Noi preferiamo altro: ascesi.
Cioè: decapitare l’idolo, deflagrare in Dio.
**
Salmo 6
Signore nella tua ira non avvolgermi
Signore nel tuo furore non abbattermi
abbi pietà di me, son tutte un tremito
le mie povere ossa, guariscimi,
ha troppo forti brividi la mia anima,
sino a quando Signore vorrai permetterlo?
Salva tu la mia vita, mio Dio, volgiti
verso di me, con la tua bontà soccorrimi
nessuno tra i morti di te è memore
nessuno canta le tue lodi agli Inferi.
I miei lamenti mi stremano
sono spossato dai miei gemiti
bagno ogni notte il mio letto di lacrime
i miei occhi di pianto si struggono
tra tante mie pene invecchiano.
Via da me voi coi pensieri malefici
Dio ascolta del mio pianto il fremito
il Signore ascolta la mia supplica
e sa le mie lacrime accogliere,
i miei nemici siano affranti e tremino
si voltino via all’istante e si vergognino.
Traduzione di Giuseppe Conte
Giovanni Battista Scultori, Davide tenta di staccare la testa di Golia, 1540
*
Salmo 72
Detto di Salomone
O dio, dona il tuo consiglio al re
e la tua giustezza al figlio del re
perché giudichi il tuo popolo con misura,
anche i mendicanti, con giudizio.
Le montagne innalzino pace al tuo popolo
e i colli si adagino nella giustizia.
Distinguerà i pitocchi tra la gente
e salverà i figli dei poveri e umilierà il sicofante
e sarà sole e luna per generazioni e generazioni
e scenderà come pioggia sull’erba
come le stille istillerà la terra.
Cresceranno nei giorni la sua giustezza
e l’abbondanza di pace
fino a quando non scomparirà la luna,
e dominerà da mare a mare
e dal fiume sino ai limiti della terra abitata.
Gli Etiopi si piegheranno a lui
e i suoi nemici leccheranno la polvere.
I re di Tarsis favolosa e le isole offriranno doni,
anche i re d’Arabia e Saba porteranno doni
e si inginocchieranno a lui tutti i re
e tutte le stirpi gli si faranno schiave.
Così saranno liberati il miserabile dalla mano violenta
e il povero al quale non giunge aiuto
e risparmierà il miserabile e il povero
e salverà le vite dei poveri
dall’usura e dall’ingiustizia,
pagherà il prezzo del riscatto delle loro anime
e sarà onorato il loro nome davanti a lui
e vivrà
e gli sarà dato oro d’Arabia
e pregheranno per lui continuamente,
l’intero giorno diranno bene di lui.
Nascerà il grano nella terra sulle cime dei monti
il suo frutto si eleverà sul Libano
e fiorirà nel paese come erba dei prati.
Sia il suo nome benedetto nei secoli
e davanti al sole resisterà
e siano benedette tutte le tribù della terra,
tutte le stirpi lo rendano felice
bene sia detto il dio potente, il dio di Israele
il solo che fa meraviglie
e bene sia detta la sua gloria per sempre
e nei secoli dei secoli
e tutta la terra sia riempita della sua gloria.
Così sia, così sia.
*
Il grande passaggio
Non sapevo nemmeno se fosse il Salmo 71 o il 72. «Forse ho sbagliato» mi
confessavo, «Ho scritto al Festival che avrei tradotto il 72, ma ora ho il
dubbio che si tratti invece del 71…». Poi ho scoperto che la numerazione non è
univoca: ce n’è una ebraica e una greco-latina. Il Salmo che ho scelto è il 72
secondo la numerazione ebraica, e il 71 secondo quella greca, riferita alla
Bibbia dei LXX. Non conosco l’universo dell’esegesi biblica, ma il greco sì,
perché è la lingua della mia adolescenza, del ginnasio e del liceo. Lingua del
grande passaggio, cioè della traduzione dalla mia vita da bambina a quella da
adulta, segnata da una traduzioneancora più profonda: dalla vita con mio padre a
quella senza di lui — morto suicida un giorno di ottobre durante la mia seconda
liceo. So come ho fatto a sopravvivere: mi sono accorta che dovevo concentrarmi.
E l’esercizio della traduzione, per esempio, era efficace e benefico. Un
continuo movimento dal latino o dal greco all’italiano e viceversa, e anche dal
latino al greco e viceversa. L’esercizio della traduzione mi ha traghettata, mi
ha tradotta in una nuova fase della vita. E io mi sono affidata a questo, mi
sono persa nelle lingue, ho camminato tra radici e radure, afferrandomi a legami
sintattici, cedendo all’incanto dei significanti, accendendo correspondences e
significati. Tradurre ha assorbito il mio dolore come una spugna un liquido.
Sono stati il greco, o il latino, ad avermi tradotta. Blandivano la mia
sofferenza in una perfetta misdirectionillusionistica capace di riorientarmi con
la magia bianca — come direbbe l’amico Davide Brullo — dell’etimologia, dove
tutto vive in un intrico di sentieri, immaginari o veri. Presa in ostaggio nel
bosco arbustivo dove rovi innumerabili impigliano gambe, ogni abito, finanche i
capelli, non mi resta che trovare la strada come chi è abbandonato, con pazienza
e intuizione e coraggio. Tra i cespugli indistinti, tutto al primo sguardo è
cupo e confuso. Provo una direzione, che ritorna su se stessa; ne tento un’altra
che finisce nel fitto impenetrabile. Poi, grazie al miracolo di un dettaglio, le
forme iniziano ad apparire: sono le briciole che conducono fuori.
Un esempio: quando ho incontrato il Salmo 72, ne sono stata intimorita. Mi sono
trovata sola davanti alle parole di Salomone, trasportata da una potenza immensa
in un luogo ancestrale, sollevata in volo, come fossi un granello di polvere
leggerissimo. Non conoscevo il Salmo, credo di non averne mai letto alcuno.
Prima di sceglierlo, ne ho passati in rassegna diversi, in lingua italiana, e ho
preferito il 72. Il motivo della scelta è ovviamente misterioso. Probabilmente
sono stata presa dalle montagne, dalle colline, dal deserto, dal grano e
dall’erba dei prati. E poi dalla giustezza, cioè la misura di dio, che se
accolta, fa accadere lo smisurato. Dal potere orfico della pace che fa muovere
la natura, dalla giustizia e dalla natura, che sono della stessa fatta. Dal
fatto che la giustizia è abbondanza di pace, e la pace avrà la natura
dell’abbondanza. Sì, tutto questo è luminoso e come la luce, scorre. Ma prima,
ho dovuto entrare in un luogo più oscuro, e quella misura di cui sopra, mi ha
guidata nel discernimento (τὸ κρίνειν) dello ptochós (πτωχός) dal pénes (πένης).
Eccolo qui il bosco fitto della traduzione. I due termini si confondevano l’uno
nell’altro nelle versioni che avevo esaminato. Ma se in tutto il Salmo
comparivano due termini differenti, anche io dovevo ben trovare la strada per
questo discernimento. Boscaglia massimamente spinosa: serviva rivolgersi
al Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots di Pierre
Chantraine, strumento esoterico. Qui inizia ad aprirsi la radura parlante. Qui
lo ptochós è il mendicante, l’indigente, l’accattone, il pitocco che vive
nello ptóa (πτόα) ovvero nello spavento o nel terrore, perché ptésso (πτήσσω) è
spaventare, far sbigottire, essere terrorizzato e terrorizzare, ma anche
acquattarsi, rannicchiarsi, appiattirsi per il terrore, detto di persone e di
animali. In questo fitto cespuglio di rovi troviamo anche una lepre — davvero! —
che si nasconde. «Lo ptochós è colui che non può che fuggire e chiedere aiuto»,
leggo nel Chantraine — e in effetti ptóx (πτώξ), variante di ptochós, è epiteto
della lepre, e poi è detto di piante che si schiacciano al suolo. Tuttavia nel
greco tardo, infine, assume solo il significato di povero. A me sarebbe piaciuto
tradurlo con pitocco, perché questo fa eco al suono del greco ptochós,
ma pitocco è parola forte, che avrebbe attratto tutto il Salmo, se fosse stata
ripetuta con l’insistenza con la quale lo è nel testo originale. Ho scelto
invece di frantumarlo in una costellazione formata
da pitocchi, mendicanti, miserabili, che inevitabilmente hanno indebolito il
suono esplosivo occlusivo pt in favore di quello nasale bilabiale m, e di quello
più fluido delle parole intere. Quanto al termine pénes, indicante il povero che
deve lavorare per vivere, e fare fatica quotidiana, è stato decisamente meno
complicato: povero non si impone acusticamente come pitocco e nella sua
neutralità significante, ho potuto ripeterlo lungo tutto il corso del Salmo.
Sempre seguendo il Chantraine, nella radura di pénes ci sono diverse radici ad
armare il terreno: c’è il grado forte pon presente in ponos (πόνος), che rimanda
al mondo della fatica, della lotta, della sofferenza fisica, affrontate nel
lavoro quotidiano. Bene anche il fatto che povero mantenga la labiale p e la
vocale o. E si sente anche solo lontanamente una minima risonanza
tra pénes e povero, soprattutto quando la parola greca è declinata al genitivo,
divendo trisillabica. Infine vorrei dire di quella piccola congiunzione e, in
greco kái (καί), che in tutto il Salmo viene ripetuta venticinque volte, e in
essa mi è sembrato di intravedere il filo di una collana lasciato visibile da
perle che si separano perché non sono fissate da nodi.
Con Walter Benjamin credo che la traduzione sia profondamente una connessione di
vita, Zusammenhang des Lebens, un esercizio di sopravvivenza dell’opera e di chi
ne opera il passaggio.
Traduzione e commento di Roberta Castoldi
Robert van Audenaerde, Davide con la testa di Golia, XVII sec.
*
Salmo 139
Dal tuo orizzonte lontanissimo mi scavi
e stasi o movimento che io sia, mi misuri
e incombi e pervadi e ogni strada
che nomino si svolge in te, sempre più in te.
Se sillaba aperta appena schiocca in questa bocca, tu sai – tu sei –
il discorso compiuto,
mano che pesa
presenza che urta – esame del volto – tu per sempre,
fatalmente, di fronte.
E non so quale sapere tu sia, che accadi
dentro i miei inferi, e nei paradisi. E se mai
una mano esista che mi afferri anche là, nei confini
che tocco con le ali dell’alba, è la tua, ancora.
E parlare desiderando che la notte mi ammanti
e si chiuda su di me ogni luce – ogni vita –
pur sapendo che in tutte le oscurità
per te splendono nascite
e collassi siderali e luci e giorni primordiali.
Lo sa bene, questa anima: accucciato nel ventre
della donna, tessendo le fibre le reni le ossa
nel segreto delle midolla della terra,
ero un grumo
e mi hai guardato, marchiando i giorni che saranno i miei.
Molteplice intero – la tua incalcolabilità.
Sommerso in pensieri cari, non sondabili, che sono
e si moltiplicano come sabbia se li raccolgo,
Io, giunto alla fine, uscito
dal Grande Sogno,
ancora in te mi ritrovo.
Un giorno, un lungo dolore colpirà chi sparge
il sangue innocente, e chi sparla di te
come tu fossi il dio
di un qualsiasi nulla, vanamente.
Odio chi ti odia, è vero, e non dovrei?
E lo odio con odio perfetto, fissandolo
come si fissa il nemico nella lotta.
Ma tu scrutami, Signore, e sfasciami il cuore,
esponimi alla tua prova e leggi i miei sentieri:
se è in me la via della vanità o quella luminosa
dell’eternità.
Ancora scavami. Conducimi.
Traduzione di Gabriel Del Sarto
*In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, XVII sec.
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