“Il lago del cuore”. Per il centenario di un capolavoro

Pangea - Monday, July 14, 2025

Festeggiamo i cento anni dalla prima edizione (Gobetti, 1925) di Ossi di seppia, un libro che qualcuno giudica il più bello tra quanti ne apparvero in Italia nel Novecento o che comunque, per tutti, rimane fra gli indispensabili a definire la fisionomia, non solo stilistica, di un’epoca. Nell’attesa di questa simbolica ricorrenza ho ripensato a quando (era l’inizio del decennio 1960), al di là di ogni confessabile desiderio, mi vidi assegnare come argomento della tesi di laurea la poesia di Eugenio Montale (sembra che fosse, nei nostri atenei, la prima volta). Come gran parte dei miei compagni di università, ritenevo Montale indiscutibilmente il maggiore tra i contemporanei. Ai suoi versi mi ero accostato durante la seconda liceo, leggendo (nell’edizione grigia di Einaudi dei primi anni ’40) gli Ossi e Le Occasioni, trovati in casa fra i libri di mio padre, che poi mi regalò per il mio diciassettesimo compleanno La bufera e altro (Neri Pozza, 1956), a completamento del trittico che promuoveva fra i nostri “immortali” il poeta del “male di vivere”.

Mi sono domandato se quell’impressione di compiutezza e pienezza che ci dava il libro del ’25 (quasi l’opposto del “sillabato” ungarettiano) e che, per dirla in sintesi, corrispondeva a un’aggiornata nozione di “classicità”, si sia trasmessa anche ai lettori delle generazioni successive. Avendo più volte, nell’arco di un quarantennio, preso Montale a oggetto dei miei corsi monografici, posso testimoniare che nessun’opera di poesia novecentesca ha mai ricevuto dall’uditorio un “consenso”, talora prossimo all’entusiasmo, paragonabile a quello suscitato dagli Ossi di seppia.

A noi fortunati studenti del 1960 non era toccato il mortale castigo della guerra inflitto ai nostri padri, il carico di uno zaino in cui mettere fra le cose necessarie anche un libro di poesia: che, a quanto si tramanda, per alcuni dei richiamati alle armi nel 1940 era stato Le occasioni, fresco allora di stampa. In tempo di pace, noi ci sentivamo meglio “interpretati” da Ossi di seppia, caparbia corsa a ostacoli del poeta davanti a un mondo che lo attrae ma che a ogni passo intralcia e frustra le sue speranze, che sono speranze di essere accolto e “giustificato” in quel meraviglioso e arcano congegno. Le parole e i ritmi di quel libro, estraneo alla cronaca e indifferente alla storia, li sentivamo efficaci a specchiare un disagio biologico, esistenziale, peraltro compatibile con l’insoddisfatta adolescenza che ci eravamo da poco lasciati alle spalle. Sobria e armoniosa nella rappresentazione di quel passaggio fra due età della vita, l’“opera prima” montaliana Montale ci traghettava al di là delle cupe ostinazioni e delle “oltranze” di alcuni protagonisti dell’eroica stagione vociana: Campana, Rebora, Sbarbaro, Jahier…, memorizzati in Lirica del Novecento, l’antologia di Anceschi e Antonielli. Ossi di seppia era un compatto documento nel quale non si captava il minimo impulso a una violazione dei canoni formali vigenti. Un libro per nulla protestatario o eversivo, che s’inseriva senza clamori nel composito solco della “tradizione”, rivelando senza sotterfugi le tracce e gli echi di testi altrui, in ispecie dannunziani. Ce ne sono, in Ossi di seppia, che col D’Annunzio quasi gareggiano in bravura nelle abbaglianti scenografie marine (d’altronde le acque liguri di Montale si mescolano a quelle del Tirreno di Alcyone) e addirittura sfidano l’artefice della Pioggia nel pineto nell’esercizio delle rime fitte ravvicinate. 

Nel 1917, su un quaderno (pubblicato postumo da Laura Barile come Quaderno genovese) Montale annotava le proprie letture e gli appuntamenti culturali a cui si recava, corredando il tutto di chiose rapide e acute. Variegati gli interessi di quel ventenne, che di settimana in settimana aspettava rassegnato la convocazione al distretto militare. Contigui alla letteratura, su un orizzonte europeo, vi primeggiano la pittura e il teatro; e molti sono i rinvii all’universo musicale, riferimento e sostegno, anche in séguito, all’ispirazione di Eugenio (che frattanto studiava da baritono). Prova di una curiosa propensione analogico-mimetica saranno gli Accordi, un gruppetto di liriche (poi, tranne un paio, escluse dal libro del ’25) intitolate ciascuna a uno strumento (Violini, Contrabbasso, Oboe…) e, nella finzione montaliana, rappresentative dei «sensi» e di «fantasmi» di una imprecisata «adolescente».   

Ma dunque, se Ossi di seppia si rivela tanto in regola con la “tradizione”, che cosa contiene di così coinvolgente e suggestivo da risultare un libro poco meno che “sacro” per tante generazioni di lettori? Nell’estate del ’25, a Giovanni Comisso, giudice benevolo degli Ossi, Montale confidava:

“Non so [quel] che valgono; ma sono un libro fisiologicamente mio (scritto coi nervi) e per questo mi ci ritrovo.” 

L’inconsueto avverbio sottolineato, fisiologicamente, unito all’esplicativo scritto coi nervi, ha prodotto sulla pagina una catena febbrile e sbalorditiva di frasi e formule che, una per una e nell’insieme, costruiscono un testo di straordinaria autorevolezza. I rimandi autobiografici e aneddotici diventano funzionali alle idee che il libro espone icasticamente e che ne costituiscono il telaio, la coraggiosa impalcatura. Ossi di seppia è insomma il libro dove le idee si fanno musica e canto ostinato, ininterrotto. 

Libro, nel nostro caso, è un vocabolo che non accetta sinonimi, perché quello del 1925 è davvero il libro più libro di quanti Montale ne abbia pubblicati. E fa tenerezza il ripensare che forse quel suo canto spiegato, quella sua intemerata pienezza obiettivamente un po’ compensavano e “consolavano” le quotidiane angosce di un giovane gratificato, sì, dall’esordio in poesia ma insicuro sul come e dove garantirsi un decoroso impiego nell’Italia di quello sciagurato dopoguerra su cui stava per piombare una dittatura.

In Ossi di seppia abbondano frasi e formule passate in proverbio, spesso isolate dalla critica quasi fossero gemme da citare con un riguardo speciale, che però fa torto alla ricchezza di sentenze e figure diffusa invece lungo l’intero libro. Dai “poeti laureati” de I limoni, alla “razza/ di chi rimane a terra” di Falsetto;  dallo “scordato strumento/ cuore” di Corno inglese, al “male di vivere” di uno dei brevi ossi anepigrafi; dal “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, clausola di un altro elemento della stessa serie, al “delirio (…) d’immobilità” di Arsenio, che (con altri capolavori come Incontro) entrerà nel libro a partire dalla seconda edizione (Torino, Ribet 1928) preannunciandovi il clima delle Occasioni (Torino, Einaudi 1939), dove spiccheranno battute non meno incisive: dall’“e io non so chi va e chi resta” de La casa dei doganieri, al “Ma è tardi, sempre più tardi” di Dora Markus… 

Davvero non si contano le frasi memorabili, segni di una energia icastica e di una affabulazione che risponde sempre a un’intima urgenza comunicativa, quale che ne sia la materia. Penso ad asserti del tipo “Ci muoviamo in un pulviscolo/ madreperlaceo…”, o “La più vera ragione è di chi tace…”, dove nessuno oserà lamentare astrazione concettuale e carenza di “immagini”. Quel che potrebbe sorprendere è il reiterato sollevarsi del lessico a una pronuncia solenne; cosicché – raffronto gradito a Montale – mentre le alzate di tono di un Gozzano sorgono su un piano scientemente “comico”, gli Ossi non si negano agli slanci enfatici, agli esclamativi non foderati di quella ironia ch’era invece nelle signorili abitudini di Guido (impareggiabile citazionista, meritevole di occupare un seggio nel ‘pantheon’ italiano). Montale non si nasconde e non esita, né sottovaluta la forza dei temi che lo appassionano e imperiosamente lo trascinano a farne materia di poesia. 

Un po’ ci emoziona il verificare con che insicurezza e modestia procedesse la fabbrica degli Ossi ; Montale ne scriveva ai corrispondenti più fidati (Solmi, Bazlen, Debenedetti…), non tacendo loro i proprii dubbi, chiedendo lumi e consigli d’ogni sorta, addirittura sollecitandoli a intervenire sul testo per apportarvi eventuali migliorie. L’edizione 1925 era zeppa di dediche, dopo quella complessiva a un poeta ligure coetaneo, Adriano Grande. Si delinea una costellazione di sodali, che comprende poeti, da Camillo Sbarbaro a Sergio Solmi e ad Angelo Barile, scultori come Francesco Messina e Attilio Perducca, scrittori e critici da Emilio Cecchi a Carlo Linati e a Giacomo Debenedetti, autori di teatro come Cesare Ludovici, e un consulente geniale, Bobi B.[azlen]. Si aggiunga la dedica di Falsetto a colei che l’ha ispirata, la nuotatrice Esterina (Rossi).

Nella trama del libro risaltano le simmetrie: su tutte, quella tra la lirica d’apertura (In limine) e Casa sul mare, dove, in vista dell’epilogo, si ripropone il tema nobile dell’io che, condannato a rimanere “di qua dall’erto muro”, si sacrifica per la salvezza di un’altra creatura, persona o fantasma femminile (la prima di una élite di ispiratrici che la poesia montaliana con amorosa dedizione accrediterà di virtù anche prodigiose) augurando e, in votis, additando, una “via di fuga”, un varco per l’oltre. È proprio Casa sul mare la vera conclusione del libro, sebbene l’ultimo componimento impaginato sia quel Riviere che poi l’autore, celiando feroce con sé medesimo, avrebbe bollato come una “trombonata giovanile” messa lì a sigillo ottimistico e retorico, in ossequio alla convenzione del “lieto fine”.

Dopo il componimento proemiale, I limoni e Corno inglese dicono già qualcosa del vano tormentarsi dello “sguardo” e della “mente” alla ricerca di una chiave che sappia cogliere un’eccezione, uno “sbaglio” nella misteriosa macchina del creato. E se fa da lieve intermezzo il dittico dedicato a Camillo Sbarbaro, “storico/ di cupidigie e i brividi” ma al contempo “estroso fanciullo”, più impegnativa suona l’impresa dei Sarcofaghi, dove l’arte della parola si misura con un’altra arte, la scultura. A vincere nel confronto sono le opere di Messina, classicista, in quanto forme di un mondo che, diversamente da quello degli uomini, non soggiace alla “vicenda di buio e di luce”. 

E siamo ormai al cuore del libro, alla sezione che gli dà il titolo: ventidue testi generalmente brevi, un trionfo della figurazione e della vocazione ragionativa che del figurato si nutre e gli si accompagna, in una serrata connessione al poemetto che segue, Mediterraneo. In nove tempi esso svolge il mito di una perduta simbiosi fra il perenne e il transeunte, fra l’eterno respiro del mare e l’inutile affanno dell’uomo, sgomento per aver scordato l’“ordine” trasmessogli, in un’epoca anteriore alla storia, da quel mare che è un “padre” legislatore e “antico”. A lui infine il poeta umilmente si arrenderà senza esser riuscito a rapirgli, come aveva sognato di fare, la “voce” inebriante (Giacomo Noventa scherzò, nel suo dialetto, su una simile pretesa, tipica a parer suo di un “poeta ermetico”; ma in Ossi di seppia di “ermetico” non c’era niente!). 

Nel libro prevalgono i paesaggi legati all’adolescenza e alla giovinezza di Montale, che trascorreva le estati a Monterosso, una delle Cinque Terre, nella casa di famiglia. Scenarî suggestivi che però non sono tanto spettacoli da ammirare quanto figure di un “sistema”, di un “cosmo” irto di ostacoli all’umana decifrazione. Arduo quindi, se non illecito, il porsi di fronte al paesaggio in un’attitudine meramente estetica, malgrado il fascino en plein air della serie Meriggi (dal 1928 accresciuta e riarticolata in Meriggi e ombre, dove però fra le “ombre” ci sarà Arsenio, acre proiezione autobiografica del poeta). Con i Meriggi il libro comincia la sua parabola calante, che pure include pezzi di grande effetto, come Fine dell’infanzia e il trittico de L’agave su lo scoglio.

È inevitabile, per qualsiasi lettore, estrarre da Ossi di seppia la costante etico-ambientale dell’arsura: vocabolo percezione concetto accertabile specialmente nella sezione eponima e in Mediterraneo. Ecco il “polveroso prato”, il “rovente muro d’orto”, la “caldura”, il “terreno bruciato dal salino”, la “foglia riarsa”… con  rimodulazioni in Mediterraneo: gli “aridi greppi”, il “paese dove il sole cuoce”… Frequente è il ricorso del poeta alla tecnica del “correlativo oggettivo”, cioè a ravvisare in obiectis quel “male di vivere” a cui come alternativa non si concede il “bene” ma solamente si mostrano gli aspetti della “divina Indifferenza”.

Eppure Ossi di seppia non si limita ad essere l’elegia di un (giovane) poeta che, accortosi di non poter capire il mondo, canta solo il proprio smarrimento, la pena di chi ha rinunciato (ma perché? e quando?) alla simbiosi con la Natura, al favoloso status di cui godette “nell’età d’oro florida, sulle sponde felici”. Ma, come deprecavo arbitrario il selezionare e isolare alcuni frammenti che all’interno del librosarebbero più esemplari di altri, così mi piace segnalare, anche nella serie eponima (per la quale il poeta aveva dapprima scelto un titolo di gusto vociano: Rottami), l’esistenza di varianti alla gravità assolata e assetata che più la caratterizza. Ci sono il “sorriso” dell’amico russo K., l’“aria di vetro” di un mattino di città, le “notti chiare” di Valmorbia in una pausa della guerra, la stanza luminosa dove l’amica si siede al piano, la grazia dell’upupa “ilare uccello calunniato/ dai poeti”…, e soprattutto c’è il valore positivo della “ignoranza”, “fuoco che non si smorza”, a suggerire che la dinamica del libro è più varia, meno schematica di quel che non si creda. 

Col medesimo intento indicherei a esempi virtuosi enunciati come quello, celeberrimo, che dice:

“Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.” 

Risuonano come verità inconfutabili, proclamate da chi tali passaggi di “stato”, da cose e corpi a colori, a musiche, le abbia non già apprese su trattati scientifici ma sperimentate sopra di sé. Il poeta ce le comunica come una sua esperienza indefettibile, su cui torna anche altrove, col sussidio di echi danteschi: 

“Ed ora sono spariti i circoli d’ansia
che discorrevano il lago del cuore
e quel friggere vasto della materia
che discolora e muore”.

(Tramontana)

Questo egli ci comunica, approdato alla fase “venturosa”, quella del corpo che, fattosi colore, si sublima poi in musica. In nessun libro meglio che in Ossi di seppia la materia sensibile “frigge”, “si scolora” e la sua morte è uno “svanire” per rigenerarsi essenza (vocabolo montaliano anch’esso).

Un momento privilegiato e, si suppone, transitorio al pari di altri, ma non senza facoltà di replicarsi. Se “non vedremo sorgere per via/ la libertà, il miracolo,/ il fatto che non era necessario!” (Crisalide), non pertanto il libro rinuncia a nominarli: eventi impossibili, autenticati però nella trama e nei ritmi di una poesia come quella di Ossi di seppia, che non dispera mai di sé, delle proprie risorse.

Silvio Ramat

**

Da Ossi di seppia

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a sé stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

*

Gloria del disteso mezzogiorno
quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.

Il sole, in alto, – e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l’ora più bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.

L’arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s’una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia più compita.

*

Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama. 

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.

*

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.

Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

*

La farandola dei fanciulli sul greto
era la vita che scoppia dall’arsura.
Cresceva tra rare canne e uno sterpeto
il cespo umano nell’aria pura.

Il passante sentiva come un supplizio
il suo distacco dalle antiche radici.
Nell’età d’oro florida sulle sponde felici
anche un nome, una veste, erano un vizio.

Eugenio Montale

*Si pubblica per gentile concessione l’articolo che apre l’ultimo numero di “Poesia” (N. 32, Luglio-Agosto 2025), la storica rivista di Crocetti

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