Festeggiamo i cento anni dalla prima edizione (Gobetti, 1925) di Ossi di seppia,
un libro che qualcuno giudica il più bello tra quanti ne apparvero in Italia nel
Novecento o che comunque, per tutti, rimane fra gli indispensabili a definire la
fisionomia, non solo stilistica, di un’epoca. Nell’attesa di questa simbolica
ricorrenza ho ripensato a quando (era l’inizio del decennio 1960), al di là di
ogni confessabile desiderio, mi vidi assegnare come argomento della tesi di
laurea la poesia di Eugenio Montale (sembra che fosse, nei nostri atenei, la
prima volta). Come gran parte dei miei compagni di università, ritenevo Montale
indiscutibilmente il maggiore tra i contemporanei. Ai suoi versi mi ero
accostato durante la seconda liceo, leggendo (nell’edizione grigia di Einaudi
dei primi anni ’40) gli Ossi e Le Occasioni, trovati in casa fra i libri di mio
padre, che poi mi regalò per il mio diciassettesimo compleanno La bufera e
altro (Neri Pozza, 1956), a completamento del trittico che promuoveva fra i
nostri “immortali” il poeta del “male di vivere”.
Mi sono domandato se quell’impressione di compiutezza e pienezza che ci dava il
libro del ’25 (quasi l’opposto del “sillabato” ungarettiano) e che, per dirla in
sintesi, corrispondeva a un’aggiornata nozione di “classicità”, si sia trasmessa
anche ai lettori delle generazioni successive. Avendo più volte, nell’arco di un
quarantennio, preso Montale a oggetto dei miei corsi monografici, posso
testimoniare che nessun’opera di poesia novecentesca ha mai ricevuto
dall’uditorio un “consenso”, talora prossimo all’entusiasmo, paragonabile a
quello suscitato dagli Ossi di seppia.
A noi fortunati studenti del 1960 non era toccato il mortale castigo della
guerra inflitto ai nostri padri, il carico di uno zaino in cui mettere fra le
cose necessarie anche un libro di poesia: che, a quanto si tramanda, per alcuni
dei richiamati alle armi nel 1940 era stato Le occasioni, fresco allora di
stampa. In tempo di pace, noi ci sentivamo meglio “interpretati” da Ossi di
seppia, caparbia corsa a ostacoli del poeta davanti a un mondo che lo attrae ma
che a ogni passo intralcia e frustra le sue speranze, che sono speranze di
essere accolto e “giustificato” in quel meraviglioso e arcano congegno. Le
parole e i ritmi di quel libro, estraneo alla cronaca e indifferente alla
storia, li sentivamo efficaci a specchiare un disagio biologico, esistenziale,
peraltro compatibile con l’insoddisfatta adolescenza che ci eravamo da poco
lasciati alle spalle. Sobria e armoniosa nella rappresentazione di quel
passaggio fra due età della vita, l’“opera prima” montaliana Montale ci
traghettava al di là delle cupe ostinazioni e delle “oltranze” di alcuni
protagonisti dell’eroica stagione vociana: Campana, Rebora, Sbarbaro, Jahier…,
memorizzati in Lirica del Novecento, l’antologia di Anceschi e Antonielli. Ossi
di seppia era un compatto documento nel quale non si captava il minimo impulso a
una violazione dei canoni formali vigenti. Un libro per nulla protestatario o
eversivo, che s’inseriva senza clamori nel composito solco della “tradizione”,
rivelando senza sotterfugi le tracce e gli echi di testi altrui, in ispecie
dannunziani. Ce ne sono, in Ossi di seppia, che col D’Annunzio quasi gareggiano
in bravura nelle abbaglianti scenografie marine (d’altronde le acque liguri di
Montale si mescolano a quelle del Tirreno di Alcyone) e addirittura sfidano
l’artefice della Pioggia nel pineto nell’esercizio delle rime fitte
ravvicinate.
Nel 1917, su un quaderno (pubblicato postumo da Laura Barile come Quaderno
genovese) Montale annotava le proprie letture e gli appuntamenti culturali a cui
si recava, corredando il tutto di chiose rapide e acute. Variegati gli interessi
di quel ventenne, che di settimana in settimana aspettava rassegnato la
convocazione al distretto militare. Contigui alla letteratura, su un orizzonte
europeo, vi primeggiano la pittura e il teatro; e molti sono i rinvii
all’universo musicale, riferimento e sostegno, anche in séguito, all’ispirazione
di Eugenio (che frattanto studiava da baritono). Prova di una curiosa
propensione analogico-mimetica saranno gli Accordi, un gruppetto di liriche
(poi, tranne un paio, escluse dal libro del ’25) intitolate ciascuna a uno
strumento (Violini, Contrabbasso, Oboe…) e, nella finzione montaliana,
rappresentative dei «sensi» e di «fantasmi» di una imprecisata «adolescente».
Ma dunque, se Ossi di seppia si rivela tanto in regola con la “tradizione”, che
cosa contiene di così coinvolgente e suggestivo da risultare un libro poco meno
che “sacro” per tante generazioni di lettori? Nell’estate del ’25, a Giovanni
Comisso, giudice benevolo degli Ossi, Montale confidava:
> “Non so [quel] che valgono; ma sono un libro fisiologicamente mio (scritto coi
> nervi) e per questo mi ci ritrovo.”
L’inconsueto avverbio sottolineato, fisiologicamente, unito
all’esplicativo scritto coi nervi, ha prodotto sulla pagina una catena febbrile
e sbalorditiva di frasi e formule che, una per una e nell’insieme, costruiscono
un testo di straordinaria autorevolezza. I rimandi autobiografici e aneddotici
diventano funzionali alle idee che il libro espone icasticamente e che ne
costituiscono il telaio, la coraggiosa impalcatura. Ossi di seppia è insomma il
libro dove le idee si fanno musica e canto ostinato, ininterrotto.
Libro, nel nostro caso, è un vocabolo che non accetta sinonimi, perché quello
del 1925 è davvero il libro più libro di quanti Montale ne abbia pubblicati. E
fa tenerezza il ripensare che forse quel suo canto spiegato, quella sua
intemerata pienezza obiettivamente un po’ compensavano e “consolavano” le
quotidiane angosce di un giovane gratificato, sì, dall’esordio in poesia ma
insicuro sul come e dove garantirsi un decoroso impiego nell’Italia di quello
sciagurato dopoguerra su cui stava per piombare una dittatura.
In Ossi di seppia abbondano frasi e formule passate in proverbio, spesso isolate
dalla critica quasi fossero gemme da citare con un riguardo speciale, che però
fa torto alla ricchezza di sentenze e figure diffusa invece lungo l’intero
libro. Dai “poeti laureati” de I limoni, alla “razza/ di chi rimane a terra”
di Falsetto; dallo “scordato strumento/ cuore” di Corno inglese, al “male di
vivere” di uno dei brevi ossi anepigrafi; dal “ciò che non siamo, ciò
che non vogliamo”, clausola di un altro elemento della stessa serie, al “delirio
(…) d’immobilità” di Arsenio, che (con altri capolavori come Incontro) entrerà
nel libro a partire dalla seconda edizione (Torino, Ribet 1928) preannunciandovi
il clima delle Occasioni (Torino, Einaudi 1939), dove spiccheranno battute non
meno incisive: dall’“e io non so chi va e chi resta” de La casa dei doganieri,
al “Ma è tardi, sempre più tardi” di Dora Markus…
Davvero non si contano le frasi memorabili, segni di una energia icastica e di
una affabulazione che risponde sempre a un’intima urgenza comunicativa, quale
che ne sia la materia. Penso ad asserti del tipo “Ci muoviamo in un pulviscolo/
madreperlaceo…”, o “La più vera ragione è di chi tace…”, dove nessuno oserà
lamentare astrazione concettuale e carenza di “immagini”. Quel che potrebbe
sorprendere è il reiterato sollevarsi del lessico a una pronuncia solenne;
cosicché – raffronto gradito a Montale – mentre le alzate di tono di un Gozzano
sorgono su un piano scientemente “comico”, gli Ossi non si negano agli slanci
enfatici, agli esclamativi non foderati di quella ironia ch’era invece nelle
signorili abitudini di Guido (impareggiabile citazionista, meritevole di
occupare un seggio nel ‘pantheon’ italiano). Montale non si nasconde e non
esita, né sottovaluta la forza dei temi che lo appassionano e imperiosamente lo
trascinano a farne materia di poesia.
Un po’ ci emoziona il verificare con che insicurezza e modestia procedesse la
fabbrica degli Ossi ; Montale ne scriveva ai corrispondenti più fidati (Solmi,
Bazlen, Debenedetti…), non tacendo loro i proprii dubbi, chiedendo lumi e
consigli d’ogni sorta, addirittura sollecitandoli a intervenire sul testo per
apportarvi eventuali migliorie. L’edizione 1925 era zeppa di dediche, dopo
quella complessiva a un poeta ligure coetaneo, Adriano Grande. Si delinea una
costellazione di sodali, che comprende poeti, da Camillo Sbarbaro a Sergio Solmi
e ad Angelo Barile, scultori come Francesco Messina e Attilio Perducca,
scrittori e critici da Emilio Cecchi a Carlo Linati e a Giacomo Debenedetti,
autori di teatro come Cesare Ludovici, e un consulente geniale, Bobi B.[azlen].
Si aggiunga la dedica di Falsetto a colei che l’ha ispirata, la nuotatrice
Esterina (Rossi).
Nella trama del libro risaltano le simmetrie: su tutte, quella tra la lirica
d’apertura (In limine) e Casa sul mare, dove, in vista dell’epilogo, si
ripropone il tema nobile dell’io che, condannato a rimanere “di qua dall’erto
muro”, si sacrifica per la salvezza di un’altra creatura, persona o fantasma
femminile (la prima di una élite di ispiratrici che la poesia montaliana con
amorosa dedizione accrediterà di virtù anche prodigiose) augurando e, in votis,
additando, una “via di fuga”, un varco per l’oltre. È proprio Casa sul mare la
vera conclusione del libro, sebbene l’ultimo componimento impaginato sia
quel Riviere che poi l’autore, celiando feroce con sé medesimo, avrebbe bollato
come una “trombonata giovanile” messa lì a sigillo ottimistico e retorico, in
ossequio alla convenzione del “lieto fine”.
Dopo il componimento proemiale, I limoni e Corno inglese dicono già qualcosa del
vano tormentarsi dello “sguardo” e della “mente” alla ricerca di una chiave che
sappia cogliere un’eccezione, uno “sbaglio” nella misteriosa macchina del
creato. E se fa da lieve intermezzo il dittico dedicato a Camillo Sbarbaro,
“storico/ di cupidigie e i brividi” ma al contempo “estroso fanciullo”, più
impegnativa suona l’impresa dei Sarcofaghi, dove l’arte della parola si misura
con un’altra arte, la scultura. A vincere nel confronto sono le opere di
Messina, classicista, in quanto forme di un mondo che, diversamente da quello
degli uomini, non soggiace alla “vicenda di buio e di luce”.
E siamo ormai al cuore del libro, alla sezione che gli dà il titolo: ventidue
testi generalmente brevi, un trionfo della figurazione e della vocazione
ragionativa che del figurato si nutre e gli si accompagna, in una serrata
connessione al poemetto che segue, Mediterraneo. In nove tempi esso svolge il
mito di una perduta simbiosi fra il perenne e il transeunte, fra l’eterno
respiro del mare e l’inutile affanno dell’uomo, sgomento per aver scordato
l’“ordine” trasmessogli, in un’epoca anteriore alla storia, da quel mare che è
un “padre” legislatore e “antico”. A lui infine il poeta umilmente si arrenderà
senza esser riuscito a rapirgli, come aveva sognato di fare, la “voce”
inebriante (Giacomo Noventa scherzò, nel suo dialetto, su una simile pretesa,
tipica a parer suo di un “poeta ermetico”; ma in Ossi di seppia di “ermetico”
non c’era niente!).
Nel libro prevalgono i paesaggi legati all’adolescenza e alla giovinezza di
Montale, che trascorreva le estati a Monterosso, una delle Cinque Terre, nella
casa di famiglia. Scenarî suggestivi che però non sono tanto spettacoli da
ammirare quanto figure di un “sistema”, di un “cosmo” irto di ostacoli all’umana
decifrazione. Arduo quindi, se non illecito, il porsi di fronte al paesaggio in
un’attitudine meramente estetica, malgrado il fascino en plein air della
serie Meriggi (dal 1928 accresciuta e riarticolata in Meriggi e ombre, dove però
fra le “ombre” ci sarà Arsenio, acre proiezione autobiografica del poeta). Con
i Meriggi il libro comincia la sua parabola calante, che pure include pezzi di
grande effetto, come Fine dell’infanzia e il trittico de L’agave su lo scoglio.
È inevitabile, per qualsiasi lettore, estrarre da Ossi di seppia la costante
etico-ambientale dell’arsura: vocabolo percezione concetto accertabile
specialmente nella sezione eponima e in Mediterraneo. Ecco il “polveroso prato”,
il “rovente muro d’orto”, la “caldura”, il “terreno bruciato dal salino”, la
“foglia riarsa”… con rimodulazioni in Mediterraneo: gli “aridi greppi”, il
“paese dove il sole cuoce”… Frequente è il ricorso del poeta alla tecnica del
“correlativo oggettivo”, cioè a ravvisare in obiectis quel “male di vivere” a
cui come alternativa non si concede il “bene” ma solamente si mostrano gli
aspetti della “divina Indifferenza”.
Eppure Ossi di seppia non si limita ad essere l’elegia di un (giovane) poeta
che, accortosi di non poter capire il mondo, canta solo il proprio smarrimento,
la pena di chi ha rinunciato (ma perché? e quando?) alla simbiosi con la Natura,
al favoloso status di cui godette “nell’età d’oro florida, sulle sponde
felici”. Ma, come deprecavo arbitrario il selezionare e isolare alcuni frammenti
che all’interno del librosarebbero più esemplari di altri, così mi piace
segnalare, anche nella serie eponima (per la quale il poeta aveva dapprima
scelto un titolo di gusto vociano: Rottami), l’esistenza di varianti alla
gravità assolata e assetata che più la caratterizza. Ci sono il “sorriso”
dell’amico russo K., l’“aria di vetro” di un mattino di città, le “notti chiare”
di Valmorbia in una pausa della guerra, la stanza luminosa dove l’amica si siede
al piano, la grazia dell’upupa “ilare uccello calunniato/ dai poeti”…, e
soprattutto c’è il valore positivo della “ignoranza”, “fuoco che non si smorza”,
a suggerire che la dinamica del libro è più varia, meno schematica di quel che
non si creda.
Col medesimo intento indicherei a esempi virtuosi enunciati come quello,
celeberrimo, che dice:
> “Tendono alla chiarità le cose oscure,
> si esauriscono i corpi in un fluire
> di tinte: queste in musiche. Svanire
> è dunque la ventura delle venture.”
Risuonano come verità inconfutabili, proclamate da chi tali passaggi di “stato”,
da cose e corpi a colori, a musiche, le abbia non già apprese su trattati
scientifici ma sperimentate sopra di sé. Il poeta ce le comunica come una sua
esperienza indefettibile, su cui torna anche altrove, col sussidio di echi
danteschi:
> “Ed ora sono spariti i circoli d’ansia
> che discorrevano il lago del cuore
> e quel friggere vasto della materia
> che discolora e muore”.
>
> (Tramontana)
Questo egli ci comunica, approdato alla fase “venturosa”, quella del corpo che,
fattosi colore, si sublima poi in musica. In nessun libro meglio che in Ossi di
seppia la materia sensibile “frigge”, “si scolora” e la sua morte è uno
“svanire” per rigenerarsi essenza (vocabolo montaliano anch’esso).
Un momento privilegiato e, si suppone, transitorio al pari di altri, ma non
senza facoltà di replicarsi. Se “non vedremo sorgere per via/ la libertà, il
miracolo,/ il fatto che non era necessario!” (Crisalide), non pertanto il libro
rinuncia a nominarli: eventi impossibili, autenticati però nella trama e nei
ritmi di una poesia come quella di Ossi di seppia, che non dispera mai di sé,
delle proprie risorse.
Silvio Ramat
**
Da Ossi di seppia
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a sé stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
*
Gloria del disteso mezzogiorno
quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.
Il sole, in alto, – e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l’ora più bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.
L’arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s’una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia più compita.
*
Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.
*
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.
Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
*
La farandola dei fanciulli sul greto
era la vita che scoppia dall’arsura.
Cresceva tra rare canne e uno sterpeto
il cespo umano nell’aria pura.
Il passante sentiva come un supplizio
il suo distacco dalle antiche radici.
Nell’età d’oro florida sulle sponde felici
anche un nome, una veste, erano un vizio.
Eugenio Montale
*Si pubblica per gentile concessione l’articolo che apre l’ultimo numero di
“Poesia” (N. 32, Luglio-Agosto 2025), la storica rivista di Crocetti
L'articolo “Il lago del cuore”. Per il centenario di un capolavoro proviene da
Pangea.