
“Dio ha un suo modo di far crescere i fiori”. Madeleva Wolff, poetessa & badessa
Pangea - Tuesday, July 15, 2025Qualcuno ricordò che era “la badessa della poesia cattolica”; il “New York Times” che eccelleva nell’arte del ‘coccodrillo’ – ergo: rigore, esattezza, sana sobrietà, gusto per le sottigliezze – scrisse che “Sister Madeleva” era, nell’ordine, cattolica, insegnante, poetessa. Dei circa “settanta libri” che le sono ascritti, d’ogni sorta, quasi nessuno è stato più ripubblicato. “La sua reputazione come educatrice ha spesso offuscato la vasta produzione poetica”. “Sister Madeleva” morì nel luglio del 1964, a settantasette anni; eccelleva nell’inno, aveva studiato, con alto profitto, letteratura medioevale, specializzandosi in Chaucer. Nel 1942 era stata eletta presidente della “Catholic Poetry Society of America”.
Nata Mary Evaline Wolff a Cumberland, Wisconsin, nel 1887, da padre luterano e madre cattolica, diventò “Madeleva” nel 1905, dopo aver pronunciato i voti perpetui: scelse l’ordine delle Sisters of the Holy Cross. Aveva studiato al Saint Mary’s College di Notre Dame, Indiana, di cui diventò uno dei presidi più brillanti e audaci, dal 1934 al ’61. Ideò il primo corso di teologia aperto alle donne; “trasformò la piccola, severa, tradizionale scuola femminile in una istituzione moderna, che arrivò a contare oltre mille studentesse”. Quando accolse la prima allieva di colore, accerchiata dalle critiche, rispose a suo modo: “dite che diminuiranno le iscrizioni? Non vedo il problema: farò del Saint Mary’s College una scuola per donne nere”. Sapeva spiazzare, aveva il dono – apocalittico – delle frasi apodittiche; spesso diceva che “gli incidenti sono il modo in cui Dio si dimostra doppiamente buono con noi”.
Nella sua biblioteca privata, il “Beowulf” e William Langland dialogavano con Thomas S. Eliot, i versi del gesuita anarchico Daniel Berrigan erano al fianco dei mistici inglesi. Diceva che i libri della sua vita erano la Bibbia e un manuale di sementi. Da ragazza, Madeleva maneggiava pinze e martelli, amava il lavoro manuale, si arrampicava sugli alberi – sapeva pattinare sui laghi ghiacciati. Da adulta, si scriveva con R.H. Benson e Jacques Maritain, con Edith Warthon e John F. Kennedy. Dopo il dottorato a Berkeley, si perfezionò a Oxford: conobbe Tolkien, Martin D’Arcy e soprattutto C.S. Lewis.
“Quel semestre al Trinity College significò per me soprattutto C.S. Lewis. Dopo aver assistito alla prima lezione sulla poesia medioevale inglese, dissi ad alcuni compagni che avrei voluto lui Lewis come tutor. ‘Il Signor Lewis rifiuta di fare da tutor a una donna’, mi dissero. Risposi che non ciò non mutava minimamente la mia affermazione”.
Cominciarono un rapporto epistolare; Lewis apprezzava i versi di Madeleva – “ha dissotterrato le radici della poesia medioevale piantandola nelle nostre menti contemporanee, dove può fiorire a suo piacere” – ma restava schivo, fino all’ironia nera, di fronte agli entusiasmi di lei. Così le scrive nel 1934: “Se mai dovessi trovarmi dalle sue parti (il che è alquanto improbabile), sfiderò il ‘terrore dei conventi’ per accettare la vostra gentile offerta di ospitalità”. Si scrissero fino alla morte di lui, scambiandosi idee sui reciproci libri, su vertiginose questioni di fede.

Un tempo, l’autobiografia di Suor Madeleva, My First Seventy Years (pubblicata da Macmillan nel 1959) era considerato una specie di classico; in un recente repertorio uscito su “America. The Jesuit Review” Madeleva è detta Poet, feminist and nun. Le poche volte che la portavano in un centro commerciale era felice di ripetere quanto “è bello sapere che al mondo ci sono così tante cose che non desidero”. Thomas Merton, il poeta trappista, temeva il suo giudizio: era tra le rare persone a cui inviava i manoscritti prima della pubblicazione. Quanto alla sua poesia, Madeleva, più che altro, resta, con sapienza, nei rioni dell’innografia, perché dell’incanto biblico si nutre. L’edizione dei Collected Poems edita nel ’47 da Macmillan fu recensita da Marya Zaturenska, già premio Pulitzer ‘for Poetry’, sul “New York Times”; nell’articolo – “Music That Is Peace” – ne scaturisce un’analisi che vale ancora oggi.
“Suor Madeleva non è San Giovanni della Croce né Gerard Manley Hopkins; il suo talento è nella direzione delle poetesse del XIX secolo, che affollavano le antologie con verbi sinceri e pieni di pietà, non privi di fascino, eppure monocordi. Il suo dono è facile e felice, dotato di un’allegria disarmante, di una leggerezza rara in questi tempi. Suor Madeleva non vuole essere originale e i terrori dell’esperienza religiosa non la riguardano. Lo spirito che traspare da questi versi è così puro e genuino che in un’epoca brutale come la nostra, di uomini inariditi, non può che lenire e consolare. […] I più grandi poeti devozionali contemporanei, Thomas Merton e Robert Lowell, sembrano muoversi in una direzione più complessa, scrivono per un loro pubblico speciale, specializzato. I versi di Suor Madeleva, con cadenze prive di artifici, una compassione ortodossa, una naturale compostezza, attraggono devoti di ogni credo: il loro è un fascino popolare”.
Verrebbe da dire: esiste un’ispirazione che esige la falce, un’ispirazione rettilinea, che fa a meno degli illusionismi lirici. Un verbo d’erba, che non ha rivestimenti né finiture – la storia della letteratura, a questo punto, è poco interessante, ha scarsa presa.

***
Nei deserti luoghi
Dio ha un suo modo di far crescere
i fiori: è audace e diretto allo stesso tempo.
Se conoscessi i fiori
come me, non avresti dubbi.
Sceglie una pietra grigia, austera, impervia
per farne giardino; munge il sole
strema le intemperie – poi fende
il cielo con una penna, per metà
fiamma per metà piuma.
Negli impervi luoghi opera così:
dissotterra un piumaggio di petali
divina con sicurezza finché
un bocciolo, troppo fragile
per dargli nome, non esplode
furtivo.
Osa seminare nel deserto
ara le rocce. Sebbene Eden abbia
sperimentato il Suo potere e la Sua
bellezza, non sa come può
nascere il fiore del cactus.
*
Nel vento, uno spettro
Si vergognava, lo spettro:
uscì dalle ante del vento, trottava
all’alba e benché non potessi
vederlo né sentirlo, le sue labbra
mi sfiorarono la guancia, le sue
dita mi toccarono i capelli.
*
Ha modi semplici Dio:
preferisce la stalla
gli agnelli al pascolo
con i pastori. È così
umile che a mala pena
diresti che è un re.
Guardalo: fragile, puro
nella mangiatoia, sorride
in forma di bambino
mentre guarda la madre.
Non poi temere un Dio
dai modi così docili.
Eppure, ardono i cieli
e gli angeli urlano
scuotono i cembali. Davvero
egli è un Re e nella sua
semplicità ha i modi di un Dio.
*
Ultimatum
Lo sai: non puoi fermare la mia ricerca
non puoi esaudire il mio desiderio;
brucerei nel divino fuoco
il divino riposo mi empirebbe
per sollevarmi, viva, al vivo petto di Dio.
Non oso osare né aspirare tanto
non chiedo altro che il supremo amore:
il posseduto che di noi si impossessa.
Tu che sei tutto e non sei questo
resta il suo sogno, la sua dolce
e assoluta profezia che il risveglio
rende più vera e di te la più
audace malinconia; mie siano
le profondità dei tuoi occhi paghi
le pazienti mani, il bacio, silente.
*
Quieti umani
saggia gente che sa
i cieli e il loro amore
voi che ideate aerei e satelliti
con formule adatte a orientarvi
create per me la più grande stella.
Nella sua stiva mettete
ciò che vi dico – mettete
il truce verbo di un misero
locandiere, il letto di paglia
che sfida l’inverno
e il bastone del mandriano –
un tempo anche voi
eravate bambini: mettete
l’agnello, tre corone per tre
re e tutte le cose che chiamiamo
domestiche, i giocattoli per i bambini
del nostro misero mondo.
Non avete mai forgiato
una simile stella, ma null’altro
cercano gli umani. Voi che
conoscete i cieli e l’amore
impastate una stella
per il bene del Bimbo.
*
Considera i fiori del campo
il loro muto vestire
e sgargiante: ciascuno
ha una cella murata dal vento.
Pensa agli uccelli del cielo
alle cose illetterate e salvagge
alle cose che vivono nell’argento
del canto, libere, a cui basta
una briglia d’aria.
Considera la sapienza delle ali.
Ho visto la pace nei petali
l’ascesa feroce verso il sole.
Perché fiorire? Perché
intraprendere l’empireo?
So chi ha creato i rapaci
e i fiori: nelle sue mani
si schiude il bocciolo
e prende il volo ogni
alato essere.
*
Gorgoglio del corpo
la bocca balbetta di uno
splendore nuziale
in attesa dello Sposo.
Nulla può eguagliare l’innocente
rifugio che offro al Re. Beato
nulla, arredo per il mio Unico
una misera stanza:
il letto, la sedia, il tavolo
l’alone di una candela che lacera
l’oscurità. Dovrebbero esserci
fiori per allietare il Suo riposo
ma io dispongo di bianchi gigli
e dispiego il mio io su di Lui.
*
Perenne
L’ultimo canto selvaggio
della tua notte non può
essere scritto, l’ultima
parola non può essere
detta. Pastori troppo
fiacchi corrono da sempre
dietro gli angeli, di grotta
in grotta, seguaci della stella.
Sovrasti la schiavitù dei tempi
sei senza inizio né fine
e ti svegli tra le braccia
di una ragazza nell’infinita
notte. Parola di carne
puro sibilo, sei la nostra
accessibile luce.
Stanotte la notte è tua
e la costelli di canti.
Oltre la piana di Betlemme
i pastori attendono e dilaga
il gregge. Dio racconta ancora
la sua storia ai figli.
Madeleva Wolff
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