Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale

Pangea - Wednesday, July 16, 2025

Viviamo nell’era del dio della Carta. La musica ne è soggetta proprio come tutto il resto. Se escludiamo il jazz o le orchestre di musica leggera, che hanno conservato i concetti di un tempo, abbandonati dalla musica classica, […] non c’è più una singola nota di un fugace arpeggio nella musica occidentale odierna – la nostra musica – che non sia stata precedentemente disegnata con un cerchio, una coda e piccoli uncini, né una singola sfumatura o inflessione che non sia stata segnalata, come un rallentamento in autostrada, da un piccolo disegno o da un segno ad hoc, su un foglio di cinque righi o suo equivalente, da quell’altra divinità mitica che è diventato il Compositore.

Jacques Chailley, La Musique et le Signe, Edition d’aujourd’hui, Plan-de-la-tour, France, 2004, p. 5 (trad. mia).

Che la grafia sia segno o lasci un segno è cosa nota e per lo più scontata. Lo scrivere, atto innaturale e volgare che infatti i re e le divinità concedevano a scribi e profeti, dopotutto è quella cosa lì, tracciare sulla cera, sulla carta, sul muro o sulle porte delle latrine le proprie bêtises.

Eppure, che a un certo punto la musica abbia sentito la necessità di dotarsi di una grafia, di un segno, di qualcosa che la rappresentasse, lascia interdetti. Benché questo segno non le sia congeniale e con essa non abbia alcuna contiguità, la musica ne ha voluto uno tutto per sé come la zitella che non vedeva l’ora di prendere marito.

Cosicché il suo mondo dirozzato dal segno grafico e dalla parola improvvisamente inciampa, diciamo così, nella grossolana ovvietà della grafia che, nel suo caso, diventa notazione. La musica, insomma, come un linguaggio qualsiasi, avverte l’inspiegabile necessità di dotarsi di un segno e infine lo ottiene, ma in un attimo perde la noblesse che il phàrmakon della scrittura proditoriamente le ha sottratto.

Musicisti e strimpelloni dovrebbero tenerne conto invece di scimunirsi con Études d’exécution transcendante e Gradus ad Parnassum. A costoro farebbe bene adottare un po’ di quell’intransigenza con la quale nel Fedroplatonico Thamus schivò le blandizie del dio Theuth che gli presentava le miracolose virtù della scrittura. Invece il loro grafismo isterico e il loro ottuso narcisismo trascurano la parte più importante della faccenda: la musica non ama l’insolenza del segno o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale con il quale impone le sue diaboliche leggi.

Con il nobile pretesto di tracciare una provvisoria e non esaustiva storia della Scuola pianistica a Napoli dall’Ottocento a oggi, Girolamo De Simone (Napoli, 1964) è tra i pochi musicisti contemporanei che si è posto il problema della grafia musicale concettualizzandolo. L’esito di questo lavoro è depositato nell’ultimo capitolo del suo nuovo saggio intitolato, appunto, Graffi e Grafie. Pianismi e pianisti a Napoli.

Non che per le sue composizioni De Simone abbia completamente abbandonato la tradizionale notazione musicale (già perlopiù deformata o adattata alla nuova frontiera della sua espressione artistica), ma ciò che qui si fa interessante e si impone per novità di pensiero è l’adozione e l’uso personalissimo del graph, del «segno mobile» che egli prende dalla lettura e dallo studio delle poche e quasi sconosciute opere di Aldo Braibanti (1922-2014), il libero pensatore piacentino che alla fine degli anni Sessanta subì un processo per plagio – credo unico in Italia – culminato con la sua condanna a quattro anni di carcere.

Il graph, afferma Girolamo De Simone, deve poter attestare e garantire la «totale mobilità formale» necessaria alla ricerca e alla nascita di nuovi linguaggi sonori. Perciò esso, più che segno vero e proprio, più che forma cristallizzata e stantia di notazione musicale, è l’idea stessa che incoraggia il cambiamento, è ciò che «trascorre al di là della dialettica», è il nome dato allo «sforzo di ricondurre lo strumento inorganico all’organo». Per tale motivo, il graph deve essere libero, deve potersi muovere, poter scorrere, scavare, solcare e ferire come il graffio con il quale condivide esiti e assonanze linguistiche.

Dunque, il graph di Braibanti nella ripresa concettuale che ne fa De Simone si accresce di senso fino al punto che la sua mobilità diventa sinonimo di passaggio generazionale, di attraversamento, di transito verso nuovi codici e nuovi stili. La stagnazione del pensiero che produce il tanfo mucido delle accademie è assolutamente ostile a Girolamo De Simone che in Graffi e Grafie si confronta con il pensiero acratico dell’“eretico” Braibanti. Sì, acratico è l’aggettivo che Braibanti preferiva al più comune anarchico. («Acrazia, e anticrazia come suo aspetto operativo, vogliono essere non tanto parole da sostituirsi alle classiche parole dell’anarchia storica, quanto indicazioni eloquenti della necessità di estendere l’indagine anarchica al di là delle sue accezioni strettamente politiche, cercandone l’origine e i fondamenti in uno spazio più comprensivo»: A. Braibanti, Impresa dei prolegomeni acratici).

È in questo sistema di libertà che opera il graph di Braibanti e muove la sua reinterpretazione in chiave storico-musicale Girolamo De Simone. Il graffio sfregiante che il musicista napoletano individua in origine nella scrittura rarefatta delle composizioni di Luciano Cilio (1950-1983) fino a quella concettuale e al limite del silenzio di Gabriele Montagano (1960) e poi nella musica di Enrico Renna (1952), di Lorenzo Pone (1991), per prolungarsi, in linea di continuità, con la propria produzione musicale, come nel recente Liturgie du souffle,sfruttando il trait d’union generazionale di Eugenio Fels (recentemente scomparso), conferma la lucidità della sua intuizione.

La mobilità acratica del graph che se ne sbatte del potere costituito e della tignosa supponenza delle élites accademiche è la radice comune della produzione artistica dei compositori che a Napoli, città ingrata come poche, hanno operato nella seconda metà del Novecento e che, con più difficoltà che altrove, continuano ancora oggi la loro ricerca sonora. Una ricerca che, per ora, è registrata in dettaglio e con pignoleria nell’agile saggio di Girolamo De Simone pubblicato da Konsequenz.

Vincenzo Liguori

*In copertina: Theodoor Rombouts, Il suonatore di liuto, 1620 ca.

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