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“Non sopporto i professionisti dell’impegno, gli scrittori che firmano appelli. L’odio? Un sentimento nobile e proficuo”. Dialogo con Alessandro Piperno
> “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre > all’eccellenza.” > > John Cheever Con il suo ultimo libro – Ogni maledetta mattina. Cinque lezioni sul vizio dello scrivere (Mondadori, 2025) – Alessandro Piperno, romanziere, direttore dei ‘Meridiani’, docente di francesistica e saggista, realizza una immersione nelle ragioni e nei moventi dell’attività letteraria. Tramite un saggio che indaga con uno stile chiaro ed elegante quel ‘brivido’ che accompagna il rito e la prassi della scrittura, alternando spunti autobiografici e l’analisi critica delle sismografie letterarie grazie al confronto con i grandi del passato. Cinque lezioni (“Ambizione”, “Odio”, “Responsabilità”, “Piacere” e “Conoscenza”) sui motivi dello scrivere che danno così vita a un racconto corale che va da Proust e Kafka a Céline e Primo Levi, passando per Flaubert, Balzac e tanti altri,capace di delineare una galleria di ritratti e studi d’autore ricca di dettagli e fascino. Ne emerge, soprattutto, un testo che quando parla dell’attività letteraria più che prescrivere vuole mostrare, più che spiegare vuole osservare e capire, senza giudicare. Piperno, infatti, privo di retoriche militanti o di misticismi autocompiacenti, realizza un’opera capace di rivelare della scrittura le verità concrete e l’intrinseca magia. Portando il lettore nelle botteghe, nelle quinte e nei cantieri delle parole, in modo da mostrare i tanti volti di quel “vizio assurdo” che porta a impugnare una penna o ad armare una tastiera ogni maledetta mattina. Prof. Piperno come è nato Ogni maledetta domenica. Cinque lezioni sul vizio dello scrivere? La genesi di questo libro è più semplice di quanto non sembri. Da un lato un contratto da onorare con il mio editore per un’opera saggistica, dall’altro l’esigenza di decantare e di fare il punto. Una necessità, quest’ultima, che mi prende ogni volta che finito un romanzo mi preparo a scriverne un altro. Forse volevo verificare il modo in cui con il passare degli anni è cambiato il mio approccio alla scrittura. Ciò che da giovane mi sembrava una fatica superiore alle mie forze oggi è un piacere quotidiano e ineludibile, un vizio. Da qui la domanda: come lo si contrae? Come lo si gestisce? Ecco, per rispondere a queste domande ho interrogato gli scrittori che amo e che frequento da sempre. Di me (a petto di questi giganti, una nullità trascurabile) ho parlato lo stretto indispensabile.  E che cos’è, secondo lei, il vizio dello scrivere? Per dirla con Cioran, tutto inizia con un estenuante esercizio di ammirazione. Sei un adolescente pieno di passioni e di inutili idee in testa. Leggi Stendhal, Tolstoj, Broch e ti dici: che bello sarebbe potersi esprimere in modo altrettanto netto, essenziale ed elegante. Sei fregato. Quello è il momento in cui passi dall’ammirazione all’emulazione. Una battaglia persa in partenza. Per quanto tu possa provarci, infatti, non riesci a scrivere niente che non ti sembri scadente, riciclato, di terz’ordine. Le confesso che per me non è stato facile togliermi dalle spalle il peso di modelli così irraggiungibili. Certe volte credo che ad avermi reso uno scrittore sia stata una certa dimestichezza con il fallimento.  Il paradosso è che il mio primo romanzo fu un successo, almeno da un punto di vista commerciale. A me invece non piaceva quasi per niente. Lo avevo scritto spinto dalla rabbia e dal risentimento. Lo avevo scritto senza esercitare il dovuto controllo. Poi grazie al cielo le cose sono cambiate.  Cosa è cambiato? D’un tratto ho capito che il tormento è come la nevrosi: fa male ma non serve a niente.Anzi, peggio, ti danneggia limitandoti. Ho capito che la scrittura non è pura ispirazione, o non solo, ma soprattutto disciplina, indagine, riflessione. Oggi mi sento molto diverso da allora.  Quale fu il libro della svolta nel suo rapporto con la scrittura? Fu il mio romanzo più sfortunato: Dove la storia finisce (2016). Più mi ci immergevo piùpercepivo il cambiamento in atto: il tormento si faceva spontaneità, l’ansia  cedeva il passo all’abbandono, ogni seduta era un po’ più piacevole. Da allora il lavoro è diventato naturale, proficuo e meno ansiogeno. Cosa ha determinato questo cambiamento? Messe da parte tutte le pompose ambizioni di grandezza e di gloria, ho preso atto che lo scrittore è un tizio che ogni mattina (almeno per me) affronta una serie di problemi e cerca di risolverli. Solo così un libro prende forma. In un attimo sono svanite le ubbie con cui mi ero sempre tormentato. Dopo la pubblicazione, si rilegge? Mai. Un libro pubblicato per me è un libro morto. Tanto sono ossessivo nella stesura infliggendomi mesi e mesi di riletture, tanto sono leggero e infedele nella fase successiva alla pubblicazione. Per questo mi costa così tanto promuoverlo. È giusto che un libro faccia la sua strada senza di me. Le rare volte in cui durante una presentazione qualcuno legge un passo di un mio libro in pubblico avverto un profondo imbarazzo. Con ciò non intendo dire che non provi affetto per i libri pubblicati. Ne provo eccome, soprattutto per i più “sfortunati”.  Me lo lasci ripetere: per me Dove la storia finiscerappresenta una cesura virtuosa. Parliamo del suo ultimo testo narrativo: Aria di famiglia. Un romanzo che mostra epoche e contesti senza pretese storiografiche o ideologiche, offrendo uno sguardo critico sul presente. Specie su quella  sorta di maccartismo (trasversale e bigotto) che stiamo vivendo… Giudicare un’opera attraverso la vita o le idee dell’autore è un atto critico capzioso, moralmente disonesto ed esteticamente aberrante. Non c’è esercizio più esecrabile.  Quando nella valutazione di un manufatto artistico il giudizio morale sostituisce quello formale l’arte muore. Ecco, ho il sospetto che oggi molti concepiscano la letteratura come un concorso di bellezza morale. Temo che alcuni vogliano trasformare lo spazio letterario in un tribunale speciale in cui all’autore spetta il ruolo dell’imputato. Proprio così, certa critica vuole tramutare la storia della letteratura in una specie di Norimberga permanente. Del resto, sarebbe sciocco considerare il politically correct o il settarismo puritano un male dei nostri tempi. Per certi versi è sempre stato così. Anche Flaubert,anche Baudelaire, anche Stendhal incorsero nella scomunica dei puritani, degli ipocriti, dei filistei.  La cosa davvero preoccupante oggi è come certe idee aberranti seducano anche chi dovrebbe detestarle: parlo degli scrittori e degli accademici, soprattutto in ambito anglosassone. Li ha visti no? Non vedono l’ora di denunciare, marciare, boicottare, firmare appelli e petizioni. Un po’ imbonitori, un po’ ciarlatani, se ne stanno lì sul loro scranno a distribuire patenti morali. Non credo che Flaubert lo avrebbe fatto. A lui la letteratura offriva uno spazio privilegiato di libertà e di osservazione. Nel libro parla anche di responsabilità e impegno. Sì, distinguo l’impegno virtuoso da quello frivolo e mondano. Distinguo gli scrittori che hanno rischiato la pelle da quelli che hanno ottenuto un invito in talk show.  Prenda Primo Levi. Lui per me incarna un modello irraggiungibile. È come se avesse trovato un equilibrio perfetto tra responsabilità e stile. Un altro impegno virtuoso è quello prestato da Zola alla causa di Dreyfus. A non piacermi sono gli epigoni di Sartre, quelli che potremmo chiamare i “professionisti dell’impegno”. Non c’è causa per cui non si mobilitino o non si espongano e di solito lo fanno nel modo più conformista lisciando il pelo al mainstream. Io non ho mai firmato petizioni né partecipato a manifestazioni: il mio mestiere è un altro. Non ho autorità per esprimermi su niente se non sulle due o tre cose che conosco. A chi mi chiede del clima, dell’atomica, dell’Ucraina rispondo come Parise: “Non lo so, non me ne intendo”. Il confronto con il “male” quanto è centrale per uno scrittore? Devo confessarglielo. Faccio fatica a prendere sul serio certe categorie oracolari: il “bene”, il “male”, il “giusto”, l’“Ingiusto”. Ciò non significa che eluda il problema. So che il male è l’argomento letterario per antonomasia e ritengo che il solo modo onesto di affrontarlo è provare a comprenderlo. Ricordo che André Glucksmann nel suo libro L’undicesimo comandamento diceva che al Decalogo biblico mancava un ulteriore, ma fondamentale, comandamento: “Conosci il male”.  Conoscere il male, per gli scrittori che amo ha significato farsene carico, affrontarlo, non sanzionarlo. Penso a scrittori per molti versi antitetici come Proust e Céline. La moralità di un romanzo, come diceva Milan Kundera, non risiede, infatti, nel giudizio, ma nella sospensione del giudizio. È questa la sfida della letteratura: mostrare la complessità dell’umano senza ridurla a virtù o colpa. Nulla di grande è stato scritto con ipocrite pretese moraliste. Adolphe, Guerra e pace, L’età dell’innocenza, Madame Bovary, la “Recherche”. Sono romanzi in cui trionfa l’ambiguità. Per questo immaginare una letteratura orientata solo dalla virtù è semplicemente folle.  La quinta lezione del suo libro si chiama “Conoscenza”: parlando di questo tema lei accosta Proust e Kafka. Perché? Il paragone tra i due non è mio. Il primo ad averlo formulato è stato Elias Canetti. Naturalmente Proust e Kafka sono scrittori diversissimi, ma profondamente sintonici e complementari. Entrambi, infatti, hanno trasformato la vita in scrittura. Entrambi hanno intrattenuto un rapporto simbiotico con la scrittura.  Mi commuove l’idea che siano morti con il grosso della loro opera ancora inedito. Mi pare un ottimo monito per quel genere di scrittori a cui scappa sempre di pubblicare. Lei dedica una lezione anche all’“Odio”. Quanto l’odio è importante in letteratura? Nel libro distinguo tra risentimento e odio. Il primo è gretto e inutile, il secondo è nobile e proficuo. Pensiamo all’odio di Flaubert per la stupidità, o a quello di Ibsen per le convenzioni borghesi. Osservare il mondo con ironia critica, provare indiginazione creativa: senza questo sguardo, non si può davvero scrivere. Io non ci riuscirei.  Cosa odia in maniera “nobile” Alessandro Piperno? La malafede, l’ipocrisia dei Tartuffi e degli imbonitori dei social, tutto ciò che è melenso e pletorico. Detesto le dietrologie, chi vede il marcio ovunque, le cospirazioni, i piagnistei, ma anche le grandi adunate di piazza, le frasi in libertà, le mozioni degli affetti. E dal disgusto per questa roba che spesso ho tratto la materia per i miei testi.  Un aspetto centrale nella sua opera è la complessa ambiguità dei personaggi. In questo senso in Aria di famiglia essi sono spesso contraddittori o mai completamente virtuosi. Nei suoi diari Tolstoj (il migliore di tutti) parla spesso di come rendere vivo un personaggio. Per lui è necessario farne una creatura contraddittoria, in bilico tra passioni oneste e piccole malvagità. Il caso più emblematico è quello del Dolochov di Guerra e Pace. Se da un lato è un dissoluto, un libertino, un attaccabrighe, dall’altro coltiva commoventi sentimenti filiali. Così si costruisce un personaggio, mescolando la miseria alla grandezza, la malvagità all’altruismo. In Aria di famiglia ho cercato di seguire questo insegnamento: la famiglia Sacerdoti è composta da persone contraddittorie, in cui si intrecciano generosità e durezza, meschinità e candore. La verità dei personaggi si manifesta attraverso queste tensioni e sfumature: solo così possono apparire vivi, credibili, umani.  Più che un romanzo “a tesi”, il suo è allora un romanzo “ad antitesi”. È un modo di contraddire e capire le cose? Philip Roth affermava di non avere idee quasi su niente.  A questo gli serviva scrivere: per capirci qualcosa. Io sono d’accordo con lui. Credo che in realtà la scrittura, se trattata con la giusta grazia e la dovuta abnegazione, riesce a rivelare qualcosa che prima ti era sconosciuto. La scrittura non deve dimostrare alcunché. Deve limitarsi a scandagliare. Tu non scrivi perché hai capito come funziona il mondo ma perché non sei ancora riuscito a capirlo.  In questo quadro centrale più che il messaggio nei suoi testi vince il romanzesco… È una mia debolezza, lo so, ma sono fatto così: mi piace il romanzesco.  E in effetti inAria di famiglia mi sono divertito a disseminare un mucchio di robaccia romanzesca: vendette, orfani, eredità contese, tutori malintenzionati. Insomma ho esibito il classico armamentario dei vittoriani che amo: Dickens e George Eliot su tutti. La narrativa, come hanno insegnato questi autori, usa la finzione e l’esagerazione per giungere alla verità. Il prossimo libro? Si chiamerà In trappola. Lo sto scrivendo con alacrità da quasi un anno. È l’ultimo capitolo della trilogia iniziata con Di chi è la colpa e Aria di famiglia. Però sarà molto diverso dai precedenti, per via di una caratteristica che preferisco non confessarle.    Francesco Subiaco L'articolo “Non sopporto i professionisti dell’impegno, gli scrittori che firmano appelli. L’odio? Un sentimento nobile e proficuo”. Dialogo con Alessandro Piperno proviene da Pangea.
October 3, 2025 / Pangea
Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale
> Viviamo nell’era del dio della Carta. La musica ne è soggetta proprio come > tutto il resto. Se escludiamo il jazz o le orchestre di musica leggera, che > hanno conservato i concetti di un tempo, abbandonati dalla musica classica, > […] non c’è più una singola nota di un fugace arpeggio nella musica > occidentale odierna – la nostra musica – che non sia stata precedentemente > disegnata con un cerchio, una coda e piccoli uncini, né una singola sfumatura > o inflessione che non sia stata segnalata, come un rallentamento in > autostrada, da un piccolo disegno o da un segno ad hoc, su un foglio di cinque > righi o suo equivalente, da quell’altra divinità mitica che è diventato il > Compositore. > > Jacques Chailley, La Musique et le Signe, Edition d’aujourd’hui, > Plan-de-la-tour, France, 2004, p. 5 (trad. mia). Che la grafia sia segno o lasci un segno è cosa nota e per lo più scontata. Lo scrivere, atto innaturale e volgare che infatti i re e le divinità concedevano a scribi e profeti, dopotutto è quella cosa lì, tracciare sulla cera, sulla carta, sul muro o sulle porte delle latrine le proprie bêtises. Eppure, che a un certo punto la musica abbia sentito la necessità di dotarsi di una grafia, di un segno, di qualcosa che la rappresentasse, lascia interdetti. Benché questo segno non le sia congeniale e con essa non abbia alcuna contiguità, la musica ne ha voluto uno tutto per sé come la zitella che non vedeva l’ora di prendere marito. Cosicché il suo mondo dirozzato dal segno grafico e dalla parola improvvisamente inciampa, diciamo così, nella grossolana ovvietà della grafia che, nel suo caso, diventa notazione. La musica, insomma, come un linguaggio qualsiasi, avverte l’inspiegabile necessità di dotarsi di un segno e infine lo ottiene, ma in un attimo perde la noblesse che il phàrmakon della scrittura proditoriamente le ha sottratto. Musicisti e strimpelloni dovrebbero tenerne conto invece di scimunirsi con Études d’exécution transcendante e Gradus ad Parnassum. A costoro farebbe bene adottare un po’ di quell’intransigenza con la quale nel Fedroplatonico Thamus schivò le blandizie del dio Theuth che gli presentava le miracolose virtù della scrittura. Invece il loro grafismo isterico e il loro ottuso narcisismo trascurano la parte più importante della faccenda: la musica non ama l’insolenza del segno o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale con il quale impone le sue diaboliche leggi. Con il nobile pretesto di tracciare una provvisoria e non esaustiva storia della Scuola pianistica a Napoli dall’Ottocento a oggi, Girolamo De Simone (Napoli, 1964) è tra i pochi musicisti contemporanei che si è posto il problema della grafia musicale concettualizzandolo. L’esito di questo lavoro è depositato nell’ultimo capitolo del suo nuovo saggio intitolato, appunto, Graffi e Grafie. Pianismi e pianisti a Napoli. Non che per le sue composizioni De Simone abbia completamente abbandonato la tradizionale notazione musicale (già perlopiù deformata o adattata alla nuova frontiera della sua espressione artistica), ma ciò che qui si fa interessante e si impone per novità di pensiero è l’adozione e l’uso personalissimo del graph, del «segno mobile» che egli prende dalla lettura e dallo studio delle poche e quasi sconosciute opere di Aldo Braibanti (1922-2014), il libero pensatore piacentino che alla fine degli anni Sessanta subì un processo per plagio – credo unico in Italia – culminato con la sua condanna a quattro anni di carcere. Il graph, afferma Girolamo De Simone, deve poter attestare e garantire la «totale mobilità formale» necessaria alla ricerca e alla nascita di nuovi linguaggi sonori. Perciò esso, più che segno vero e proprio, più che forma cristallizzata e stantia di notazione musicale, è l’idea stessa che incoraggia il cambiamento, è ciò che «trascorre al di là della dialettica», è il nome dato allo «sforzo di ricondurre lo strumento inorganico all’organo». Per tale motivo, il graph deve essere libero, deve potersi muovere, poter scorrere, scavare, solcare e ferire come il graffio con il quale condivide esiti e assonanze linguistiche. Dunque, il graph di Braibanti nella ripresa concettuale che ne fa De Simone si accresce di senso fino al punto che la sua mobilità diventa sinonimo di passaggio generazionale, di attraversamento, di transito verso nuovi codici e nuovi stili. La stagnazione del pensiero che produce il tanfo mucido delle accademie è assolutamente ostile a Girolamo De Simone che in Graffi e Grafie si confronta con il pensiero acratico dell’“eretico” Braibanti. Sì, acratico è l’aggettivo che Braibanti preferiva al più comune anarchico. («Acrazia, e anticrazia come suo aspetto operativo, vogliono essere non tanto parole da sostituirsi alle classiche parole dell’anarchia storica, quanto indicazioni eloquenti della necessità di estendere l’indagine anarchica al di là delle sue accezioni strettamente politiche, cercandone l’origine e i fondamenti in uno spazio più comprensivo»: A. Braibanti, Impresa dei prolegomeni acratici). È in questo sistema di libertà che opera il graph di Braibanti e muove la sua reinterpretazione in chiave storico-musicale Girolamo De Simone. Il graffio sfregiante che il musicista napoletano individua in origine nella scrittura rarefatta delle composizioni di Luciano Cilio (1950-1983) fino a quella concettuale e al limite del silenzio di Gabriele Montagano (1960) e poi nella musica di Enrico Renna (1952), di Lorenzo Pone (1991), per prolungarsi, in linea di continuità, con la propria produzione musicale, come nel recente Liturgie du souffle,sfruttando il trait d’union generazionale di Eugenio Fels (recentemente scomparso), conferma la lucidità della sua intuizione. La mobilità acratica del graph che se ne sbatte del potere costituito e della tignosa supponenza delle élites accademiche è la radice comune della produzione artistica dei compositori che a Napoli, città ingrata come poche, hanno operato nella seconda metà del Novecento e che, con più difficoltà che altrove, continuano ancora oggi la loro ricerca sonora. Una ricerca che, per ora, è registrata in dettaglio e con pignoleria nell’agile saggio di Girolamo De Simone pubblicato da Konsequenz. Vincenzo Liguori *In copertina: Theodoor Rombouts, Il suonatore di liuto, 1620 ca. L'articolo Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale proviene da Pangea.
July 16, 2025 / Pangea
Il pellegrino della meraviglia. Omaggio a Elias Canetti
> È vero che tutto deve cominciare repentinamente, ma se poi non segue un > istante di raccoglimento la cosa si sgretola subito e va perduta. Repentinità > e raccoglimento si compenetrano perché una cosa risulti bella: il lampo > dell’occhio e la pazienza delle mani. > > E. Canetti, La rapidità dello spirito * Nelle folgoranti, indimenticabili pagine iniziali di Tolstoj e Dostoevskij, George Steiner sostiene che la critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito di amore.  > “In modi evidenti e tuttavia misteriosi una poesia o un dramma o un romanzo > afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo il libro non > siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo”. Scrivere qualcosa su Canetti, oggi, mi pare richieda proprio questo: il tentativo di saldare ciò che ancora resta in sospeso, a credito dell’autore bulgaro. Avevo previsto di cominciare con una disamina del volume di saggi La coscienza delle parole. Ma ben presto mi sono accorto che Canetti mi tirava per la giacchetta, trascinandomi altrove, irresistibilmente, verso altri suoi libri — e in particolare verso le pagine degli Appunti, che egli scrisse con meticolosa costanza dal 1942 fino a poco prima della morte. L’opera di Canetti è piena di amorose corrispondenze: echi di significato che si richiamano da un luogo all’altro del suo dettato, come stelle appartenenti alla medesima costellazione, disperse tra le vaste distanze delle galassie. Ecco perché quanto segue somiglierà più a ciò che, nella letteratura cinese, è noto come biji, o, nella tradizione giapponese, come zuihitsu: uno zibaldone di frammenti e lampeggiamenti, simili a colpi di pennello tremolanti appena tracciati su una tela. Non sembrerà poi così assurdo, allora, parlare di Kafka ed evocare, nello stesso respiro, la forza del mito e la leggerezza del taoismo. Da qualche parte – nei Campi Elisi degli scrittori – immagino già un timido sorriso illuminare il volto sobrio di Canetti. * Marina Nadotti, in una significativa chiosa a un’opera del compianto John Berger, usò un’espressione che mi colpì per la sua risonanza evocativa: “ospitalità del pensiero”. Con quell’immagine, Nadotti indicava una particolare disposizione della mente e del cuore: un’attitudine a lasciarsi attraversare, con curiosità e generosità, dalle multiformi esperienze della vita sensibile e di quella interiore. Tutto, nel dettato di Canetti, sembra chiedere proprio questo: di essere accolto, abbracciato, riconosciuto – con una smisurata empatia emozionale. In questo senso, Canetti appare come l’ultimo degli umanisti: un instancabile alchimista del sapere, intento a ibridare ambiti solo apparentemente distinti come l’antropologia, la storia, la letteratura, la critica. Ma, a differenza della baldanza fiduciosa del faber rinascimentale, la sua aspirazione alla conoscenza è costantemente attraversata da una minaccia incombente: il terribile volto della storia. Colpisce, in Canetti, la vastità dell’argomentazione, sostenuta da un’erudizione mai fine a sé stessa, ma sempre animata da un profondo senso di responsabilità etica. Una responsabilità che si esercita, in prima istanza, nei confronti della lingua e delle parole che la compongono. Basti pensare al titolo del primo volume del trittico autobiografico: La lingua salvata. La biografia canettiana è segnata, fin dagli esordi, da una convivenza fitta e inquieta di lingue e culture, che l’autore sente il dovere di proteggere dalla deriva babelica, dalla cannibalesca supremazia dell’una sull’altra. Da qui nascono la sua fiducia nelle parole “non travestite”, capaci di restituire barlumi di autenticità, e un sentimento di vibrante commozione verso l’atto stesso del nominare il mondo: come se, nel dare nome alle cose, si riattivasse ogni volta un legame originario — e dunque atemporale — tra lo sguardo dello scrittore e ciò che lo circonda.  > “Il mio Dio è il nome, il soffio della mia vita è la parola.” Le parole non sono mai ancelle né gregarie dell’uomo, ma ne riflettono la parte migliore: quella, in fin dei conti, meno vulnerabile all’oblio della morte. > “Ma ci sono parole di un tipo particolare, che accendono l’entusiasmo, quelle > che contengono spazio e futuro, vastità da ogni parte. Quanto di storto e di > vano era racchiuso nell’uomo ora si espande d’improvviso con enorme fretta in > cento direzioni diverse, con le sue parole egli va a toccare per dritto e per > traverso inizio e fine e centro del mondo.” * Seduce, in Canetti, il dialogo sempre aperto con le grandi civiltà asiatiche – soprattutto con quella cinese: un volgersi verso forme altre di cultura, di scrittura, di differente visione del mondo. A questo movimento di apertura verso l’esterno ne corrisponde uno speculare di ripiegamento interiore in sé stessi: è il Canetti degli Appunti, che si avvicina alla parte più autentica di noi, in un atto di responsabilità verso il proprio tempo. Indagarsi, interrogarsi, aprirsi all’orizzonte del cambiamento: come nella disposizione d’animo del viaggiatore.  Anche in questo, Canetti rivela una fibra quasi rinascimentale, come un Montaigne del ventesimo secolo: tuttavia, sotto la superficie, affiora sempre un senso sottile d’inquietudine, lo svelamento progressivo della desacralizzazione di ogni cosa. Diventa allora più arduo, per il viaggiatore-scrittore, testimoniare la perdita dello stupore, l’ammutolirsi della sorpresa. Eppure, in fondo, la letteratura non è che questo: il dimorare del pellegrino nella meraviglia. La missione dello scrittore: fare il vuoto dentro di sé e accogliervi la traboccante ricchezza dell’esistente, la metamorfosi continua che attraversa la storia e le vicende umane. Ancora, cercare le fontane dove stilla la musica delle antiche favole, ritrovare tracce dei miti nel respiro del mondo. Canetti vorrebbe credere in un universo dove dimorano gli dèi, dove il lampo e il tuono abitano nello sguardo delle tigri e i vascelli solcano le acque tra i mostri marini e le isole incantate dei Feaci. Il mito è come il viaggio: si insedia in una dimensione senza tempo, dove lo sguardo degli uomini non si posa mai due volte sullo stesso luogo e ogni cosa parla il linguaggio prebabelico della meraviglia. > “I nuovi luoghi non si inseriscono nei vecchi significati. Per un certo tempo > ci apriamo realmente. Tutte le storie passate, la nostra vita stracolma, che > soffoca di senso, ci restano dietro le spalle d’improvviso, come se le > avessimo lasciate in deposito da qualche parte., e mentre se ne stanno là > accade l’assolutamente inesplicato: il nuovo”. Una delle ragioni dell’imbarbarimento dei tempi moderni sta nell’aver staccato la spina ai miti. Canetti vive con dolore l’assenza totale degli dèi nel presente: al loro posto, sul trono del mondo, siede il volto impietoso e definitivo della storia sanguinosa.  > “Per me il pensiero più desolante è che alla storia non si sfuggirà mai più. E > questo il vero motivo per cui continuo ad armeggiare tra tutti i miti? Ripongo > forse speranze in un mito dimenticato che possa salvarci dalla storia?” * All’interno della raccolta di saggi La coscienza delle parole, brillano i due capitoli dedicati a Kafka e al suo epistolario con Felice, la donna che avrebbe dovuto sposare e alla quale fu legato da un rapporto tormentoso e conflittuale. Lo sguardo di Canetti sul celebre scrittore è di una sconvolgente e disarmante tenerezza. Faccio fatica a trovare altri esempi in cui la critica letteraria si spogli della sua arroganza cattedratica per diventare pura immersione nell’opera che si pone come oggetto di studio. Forse, solo Cortázar, nel suo memorabile A passeggio con John Keats, può essere annoverato come una fulgida eccezione. Nessun altro scrittore è stato capace di penetrare così a fondo nelle interiorità di un autore, e al tempo stesso, da speleologo di un destino incistato nella letteratura, di offrirci un ritratto così potente. Kafka: l’artista che trova giustificazione solo nella letteratura, che vive grazie alla letteratura e di letteratura. Il dilemma intimo dello scrittore boemo: quanto più la sua scrittura cresce in intensità, tanto più l’individuo si percepisce sempre più piccolo, attratto come da un gorgo incantato dal grande, terribile e meraviglioso oceano d’inchiostro nero che si stende sul foglio di fronte a lui. Il sogno di Kafka: così come un certo tipo di storiografia ci mostra Nerone, all’apice della solitudine, contemplare Roma devastata dall’incendio, così Kafka desidera che, nella notte, solo lui rimanga sveglio nel mondo, per poter finalmente “farsi carico” dell’umanità e confrontarsi con la sua multiforme essenza. Si sente, in quel momento, giustificato davanti a sé stesso e agli altri. A Kafka serve una statura, una postura da superstite, da ultimo uomo sulla terra: nella sua stanza, a lume di candela, scrive come se inviasse missive dall’Arca, in mezzo al diluvio. Kafka: il poeta sempre in lotta contro il potere, alla ricerca di una libertà assoluta e senza vincoli, così come il ritmo del respiro, il compenetrarsi degli estremi, l’abbraccio di violenza e tenerezza.  Ecco uno dei sensi della parabola di Canetti, alfiere di un dettato che cavalca verso l’altrove, ma mai in fuga rispetto al cuore oscuro del presente – più che di vino, di oscuro sangue è fatta la storia del mondo. In questo senso, l’eterogeneità della raccolta di saggi diventa naturale rifrazione della multiformità dell’esistente: convivono, in una straordinaria galleria di ritratti, Hermann Broch, autore del folgorante La morte di Virgilio, Karl Kraus, Georg Büchner – il cui Woyzeck ha cambiato la vita di Canetti –, Tolstoj e Confucio, esempio mirabile di integrità etica e letteraria. * Nel capitolo Dialogo con il terribile partner, tra i più belli di tutta la raccolta, Canetti esplora le ragioni che spingono certi uomini a tenere un diario. Colpisce, in queste pagine, l’importanza attribuita ai diari di viaggio, ai quali ci si accosta fin da bambini. Il sentimento di una vita ingessata in pose ormai fisse, l’oppressione di una realtà troppo carica di senso, l’avvicendarsi di vicende sempre note ci spingono verso i resoconti di viaggio, dove tutto è ancora al di qua di ogni inizio, avventura dopo avventura, giorno dopo giorno. Solo immaginando città straniere, lingue misteriose e luoghi irripetibili possiamo colmare la nostra insaziabile voglia di metamorfosi. Non sorprendono quindi l’interesse sempre vivo di Canetti per l’antropologia, lo studio comparato di civiltà lontane nello spazio e nel tempo, la sua predilezione verso i grandi diari di viaggio, come quello del cinese Hsüan Tang o dell’arabo Ibn Battura, e l’ammirazione verso forme di scrittura distanti – il Libro del Guanciale di Sei Shōnagon e Storia di Genji, di Murasaki Shikibu. * Tutti ricordano giustamente Canetti per il trittico autobiografico o per quel monumento del pensiero che è Massa e Potere. Eppure, io credo che il vero capolavoro dello scrittore siano i suoi Appunti, raccolti nell’arco di tutta una vita. Come non restare trafitti da quel dettato eracliteo fatto di lampeggiamenti, echi di senso dove il tuono si propaga a valle, di piccoli incendi e ripide cascate? Leggere Canetti è come cartografare il mondo, portando sempre dentro di sé il senso del mistero e della meraviglia. Esiste un breve scritto di Borges che chiude L’artefice, piccola opera quasi testamentaria del grande argentino. Nella mia copia del libro, ormai un po’ sgualcita, ho sottolineato con un leggerissimo tratto di lapis le ultime righe. Mi sembra che possano spiegare meglio di qualsiasi altra cosa ciò che Elias Canetti rappresenta per me. > “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno > spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, > di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. > Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia > l’immagine del suo volto”. Lorenzo Giacinto L'articolo Il pellegrino della meraviglia. Omaggio a Elias Canetti proviene da Pangea.
April 25, 2025 / Pangea