“La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale

Pangea - Thursday, July 24, 2025

Non lontano dal tempio – d’intorno. René Char cela i suoi vangeli – come altro chiamare quel vestibolo di versi, quel sudario? – presso l’aia, presso le stalle. Così si consolidano i campi, chini al girasole, il fiore leonino. 

Colossale nel corpo, René Char rimedita l’era dei Titani: in quella violenza, l’assurdo della compassione. L’armonia contrapposta dagli olimpici è, invero, una tirannia. 

È il poeta a tal punto nel proprio tempo da scansarlo, da fargli lo scalpo. Così, è toccato dal mondo restando intoccabile – i suoi fari: Rimbaud ed Eraclito, Hölderlin e gli alchimisti del Rinascimento. 

È un poeta, cioè, per indole, sempre in lotta. In lui, l’elemento primo – il pane, il sole, l’acqua – è sempre l’esito di un sacrificio. La vera gioia: sacrificarsi. Ospitare, cioè: partorire un patto. 

Poiché il linguaggio è l’agone, è l’agonia, è il principio del malinteso, l’arena dei malintenzionati, bisogna – come fa il fabbro, come fa l’alchimista – fonderlo e rifondarlo. Con la stessa lega del verbo, nuove armi, nuove forme. In René Char, allo stesso tempo, la severità del legiferante e la ribalderia del bandito. Per questo va continuamente ‘scoperto’, come artiglieria di contrabbando; va continuamente tradotto – sentieri sempre sotto assedio di redini erbe, di irredente felci: non bastano le belle prove di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, di per sé poeti. Char apre la sua casa avita perché sia messa sottosopra. 

Diffidava degli scrittori ‘impegnati’, che spesso hanno di mira la carriera quando non la convivenza con la convenienza, un convenire di pettegole. I suoi scritti sono pienamente ‘politici’, nel senso arcano: orientare il corpo civico a quello spirituale. Che è poi: consegnarsi all’assoluto. 

Tra il 1966 e il 1969, a Le Thor, René Char invita Martin Heidegger a realizzare un seminario su Eraclito. In quegli anni, il poeta si ribella all’installazione di missili atomici presso il Plateau d’Albion, all’urlo di Non aux fusées atomiques.  

Eliminare ogni distanza tra atto e verbo, trasmutare la parola ferrosa nell’oro della promessa mantenuta. L’estremo René Char – il recluso nei suoi luoghi, l’anziano eroe di infinite guerriglie – è il più giovane, ragazzino il linguaggio sempre a figliare ribellioni. Nel 1979, per Gallimard, esce Fenêtres dormantes et porte sur le toit: come sempre, un libro definitivo. Così ne scrive Char:

“Tracciare un cammino tentando di ristabilire la speranza come atto che orienta, d’istinto, nel visibile e nell’invisibile. Ci sono compagni di vendette dai volti avvertiti e belli, pittori, viandanti della buona sorte, sconosciuti dalle mani glassate di schizzi abbandonati: mostrano che questo nostro mondo, tragico o comico, è diversamente abitabile, nella cerca dell’arte. Una compagnia che s’infittisce lungo obliati vagabondaggi, e ovunque, dunque, l’inimicizia delle nazioni, degli individui, delle cose e degli eventi che conduce all’estremo della voce che si impenna: ‘Al termine di questo turbine di marce, la porta senza chiuse di sicurezza: il tetto. Sono per mia gioia al cuore della cosa, il mio dolore è ormai inutile’. Tutte queste parti assemblando pietra su pietra, abusando della realtà per altri fini, come i gradini scolpiti del teatro di Epidauro”. 

A teatro, si sa, la verità accade; infine, ne restano le spoglie, il sole in carcassa, qualche briglia che chiameranno legge. 

In Char: lapidare la letteratura, restare nell’allarme. 

Il libro si apre con un testo, Faire du chemin avec…, qui tradotto. All’ingresso, l’ultima poesia di Melville, The return of the Sire de Nesle, a fare da faro in una vita che fu da bucaniere, che fu inseguimento e fuga, in amore del bianco. 

Il paese di Char, L’Isle-sur-la-Sorgue, sorge non lontano da Fontaine-de-Vaucluse, Valchiusa, uno dei luoghi di Petrarca, quello delle “Chiare, fresche et dolci acque”. Che di questa lotta – poesia è anche energumena messe di vendette –, nel fiorire, sia l’amare, e sia innumerevole. 

Si legge continuamente, René Char, per capire come onorare la vita: è palestra – e mai rendere domestico il dire. 

***

Mettersi in marcia

Infine, le mie torri! Che l’erranza si archivi
Che si plachi la sete della loro manchevolezza:
Se desideri l’infinito con troppa forza, si ritira
Perché è terribile la terra.

Hermann Melville

A monte, non fu commesso un crimine. Ci hanno espropriati del ghiacciaio; allo stesso tempo, accusati, marchiati di incontinenza. Pochi fuggiaschi vagano, qua e là, banditi di banlieu. La giovinezza dei nostri affetti li mostra intatti. 

Così ci si estrae dall’inspessimento della sera, ci si inabissa sotto la superficie dei libri perché la primavera migratoria possa crogiolarsi, ospite che il nostro non molteplice corpo ferisce. 

Avevano riscoperto con soave gioia l’istinto di strisciare nella boscaglia: a vedere una trama di serpe sul sentiero chiamavamo quel passato “il perduto rettile”. Con gelosia paludata. 

Guarda la cannaiola sui giunchi scossi dal vento, ha gambe di mare!

La poesia che magnifica i suoi ingressi distruggendoli mentre si eleva l’oggetto. Buona notte! Ancora buona sia questa notte, tastata dalla forza che soccorre, tenuta sulle genitrici ginocchia del Tempo recidivo. Nessun interdetto prima dell’inatteso rifugio, quando ci sei. 

La poesia riversa, donna alla bisogna per la quale i minuti oggetti domestici sono indispensabili. La ricchezza e la parsimonia. 

Prima di polverizzarsi, tutto è pronto a incontrare i nostri sensi. Questo tempo di preparativi è la nostra occasione senza rivali. 

Montare, arrampicarsi… ma… issarsi? Oh, com’è difficile. La spinta luminosa delle reni, la forza bassa che razzola nella tana, che irrompe e nonostante la gravità delira in allegria. 

Come liberare il rondone dai pidocchi? Resta il domandare dacché il rondone sorvola la città.

Lunatico afillante. Il suo fiore sigillato. Ci ha visto. È di un blu onnipotente. Afillante, nostra padrona!

Il suo sudario all’albero maestro del Vascello fantasma, fedele fino alla morte, e bianca. Ah, ci ha in suo possesso. Veridica nei ranghi di una breve giovinezza. E poi, pietrificata. Alcuni direbbero, mendace. Graffiandosi le labbra murmuri… 

Le sanguinose utopie del XX secolo.  

Né il corno totalitario né il paralogismo si sono conficcati nelle nostre fronti. La nozione di giusto e di ingiusto negli usuali fatti ha tenuto in scacco la simpatia. 

L’emofilia politica delle persone che si pensano emancipate. In troppi sono innamorati dell’umanità disprezzando l’uomo! Per elevare la prima, degradano il secondo. Uguaglianza che fa patti con l’aggressore. Questa è la maledizione. E la nostra figura si accomoda. 

Quanto vorremmo che la cronaca universale non si interrompa, se non una sola notte, per l’obliquo impulso del faro d’amore! Così ci devia il desiderio. Sovviene la parola, quel grande rifugio da tutti i venti. 

L’esplosione atomica è la coscienza della materia e il segno dell’ilare uomo quando si esprime. La sua permanenza spirituale ha cominciato a produrre. Strappiamone svergognati l’ipogeo. 

Non incitate le parole alla politica di massa. Il greto di questo oceano deriso è lastricato dai cristalli del nostro sangue. 

Dall’opera totalitaria non siamo più annodati al nostro io personale ma a un io collettivo, assassino, assassinato. Il profitto della morte condanna a vivere senza immaginazione, fuori dallo spazio tattile, in miscele avvilenti. 

Ciò che sembrano tenere così risolutamente nelle loro mani gli sarà strappato dagli occhi. È la legge, la paglia nella legge. 

La poesia può riscattare il ricatto?

René Char

L'articolo “La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale proviene da Pangea.