Nel 1947 George Orwell sta lavorando a 1984. Per il momento, il libro, ancora in
bozzolo, s’intitola “The Last Man in Europe”; Orwell ha scelto di scriverlo a
Jura, nelle Ebridi, in condizioni di estrema solitudine. Orwell è un esteta
dell’estremismo. Spesso, ricorda gli anni, a Parigi, in cui “vivevo nei
quartieri più poveri, tra senzatetto e criminali, a mendicare o a rubare”;
ricorda quando aveva scelto di condividere la vita dei minatori dell’Inghilterra
del Nord. Due anni prima era morta la moglie, Eileen, in marzo; il 17 agosto del
1945 era uscito, per Secker & Warburg, La fattoria degli animali. Il libro –
rifiutato da T.S. Eliot, direttore editoriale della Faber – ebbe un successo
clamoroso, consentendo a Orwell una certa, inedita, sicurezza economica.
Tra le diverse traduzioni di Animal Farm, ci interessa quella polacca.
“Swiatpol”, l’editore polacco che ha sede a Londra, stampa 5mila copie del
libro; la traduttrice si chiama Teresa Jeleńska. Fu il figlio di Teresa,
Konstanty, a far leggere Orwell a Ihor Ševčenko: nato in Polonia da genitori
ucraini, il ragazzo compiva ventitré anni, studiava a Lovanio. Nell’aprile del
1946, Ihor prende coraggio e scrive a Orwell: avrebbe voluto tradurre La
fattoria degli animali in ucraino. Lo scrittore, “mi capì subito, capì che la
traduzione del suo libro avrebbe avuto un valore importante per i miei
connazionali”. Negli anni, Ihor Ševčenko sarebbe diventato un importante docente
di studi slavi e bizantini ad Harvard, nel 1996 ha pubblicato Ukraine between
East and West. È morto il 26 dicembre del 2009, onorato da un ‘coccodrillo’ sul
“New York Times”.
Negli scambi epistolari con Orwell, Ševčenko sottolinea che “Il mio pubblico
sono i rifugiati sovietici: beh, l’effetto è sorprendente. Tutti approvano la
sua interpretazione… hanno cercato immediatamente i punti in comune tra la
realtà in cui vivono e il suo racconto. L’atmosfera del libro sembra
corrispondere al loro reale stato d’animo”. Ševčenko traduce il libro
nell’autunno del ’46, consegnandola a “Prometheus”, editore ucraino con base a
Monaco. Nel marzo del ’47 Orwell, pur “spaventosamente impegnato”, accetta di
scrivere una prefazione per l’edizione ucraina di Animal Farm (che si riporta,
in parte, in calce). Nel testo, Orwell spiega che la guerra civile spagnola ha
agito su di lui come una specie di rivelazione:
> “A metà del 1937 i comunisti presero il controllo – pur parziale – del governo
> spagnolo: cominciarono a dare la caccia ai trotzkisti, mi ritrovai tra le
> vittime. Io e mia moglie siamo stati molto fortunati a uscire vivi dalla
> Spagna, senza essere arrestati. Diversi amici furono fucilati, alcuni finirono
> in prigione, altri semplicemente sparirono. Queste cacce all’uomo in Spagna si
> sono svolte contemporaneamente alle grandi purghe sovietiche: ne sono state
> una specie di appendice. Sia in Spagna che in Russia la natura delle accuse –
> vale a dire: azioni fasciste e antirivoluzionarie – era la stessa; per quanto
> riguarda la Spagna, posso dire che erano del tutto infondate. Ne uscii con una
> lezione preziosa: capii con quale pervicacia la propaganda totalitaria possa
> controllare l’opinione pubblica delle masse ‘illuminate’ dei paesi
> democratici. Io e mia moglie abbiamo visto innocenti gettati in carcere perché
> sospettati di non-ortodossia. Eppure, al nostro ritorno in Inghilterra diversi
> ‘osservatori’ ben informati dimostravano di credere ai più fantasiosi
> resoconti di tradimento e di sabotaggio riportati dalla stampa sovietica.
> Compresi finalmente con chiarezza la nefasta influenza del mito sovietico per
> il socialismo occidentale”.
La traduzione ucraina de La fattoria degli animali uscì nel settembre del 1947,
con esito sinistro. “Le autorità americane di stanza a Monaco ne hanno
sequestrate 1500 copie, consegnandole al personale sovietico”, scrive Orwell ad
Arthur Koestler. Tuttavia, almeno duemila copie del romanzo, scampate al
sequestro, finirono in mano ai profughi (la vicenda è ricostruita con dettagli
in: Masha Karp, George Orwell and Russia, Bloomsbury, 2023).
Ma Orwell era ormai altrove. L’inverno alle Ebridi lo logora, il 20 dicembre è
ricoverato in un ospedale nei pressi di Glasgow. 1984, il libro che intende
“mettere in luce le degenerazioni, in parte già verificatesi sotto il comunismo
e il fascismo, a cui sono soggette le economie centralizzate”, lo sta lentamente
logorando. Ma questa è un’altra storia, che riguarda la tirannia della scrittura
e la ‘missione’ dello scrittore.
***
Prefazione per la traduzione in ucraino de “La fattoria degli animali”
Non ho mai visitato la Russia: la conosco per ciò che ho letto su libri e
giornali. Anche se ne avessi il potere, non vorrei interferire con gli affari
del regime sovietico: non condannerei Stalin e i suoi per i metodi barbarici e
antidemocratici che adottano. È perfino possibile che non abbiano potuto agire
diversamente da come hanno fatto. Tuttavia, è per me della massima importanza
che gli europei conoscano il regime sovietico per ciò che è realmente.
Dal 1930 non ho visto nulla, nell’Urss, che possa riferirsi a ciò che intendiamo
per socialismo. Al contrario, ho scoperto, con sorpresa, i chiari segni di una
società gerarchica, i cui governanti non hanno motivo di rinunciare al loro
potere, alla pari di qualsiasi classe dominante. I lavoratori e gli
intellettuali inglesi non riescono a comprendere che l’Urss di oggi è totalmente
diversa da quella del 1917. In parte, non vogliono capire – cioè, vogliono
credere che esista davvero, da qualche parte, nel mondo, un paese socialista –
dall’altra non possono: per costoro, abituati a una pur relativa libertà, è
incomprendibile il totalitarismo.
Eppure, occorre ricordare che l’Inghilterra non è del tutto democratica. È un
paese capitalista con grandi privilegi di classe (perfino ora che la guerra ha
livellato tali classi), con enormi differenze di ricchezza. Ciononostante, è un
paese in cui le persone convivono da secoli senza feroci conflitti, in cui le
leggi sono relativamente giuste e le notizie e le statistiche ‘ufficiali’ sono
per lo più affidabili – è un paese dove esprimere opinioni di minoranza non
comporta alcun pericolo di morte. In un clima simile, l’uomo comune non può
capire il senso dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa, degli
arresti senza processo, della censura… Tutto ciò che in Inghilterra si legge a
proposito dell’Urss viene tradotto in termini inglesi, e dunque assunto con
totale innocenza, cibandosi della menzogna totalitaria. Fino al 1939 la maggior
parte degli inglesi, d’altronde, è stata incapace di valutare l’entità autentica
del regime nazista; con quello comunista è vittima della medesima illusione.
Ciò ha causato danni enormi al movimento socialista inglese e ha avuto gravi
conseguenze sulla politica estera del mio paese. A mio parere, nulla ha
contribuito tanto alla corruzione dell’originaria idea del socialismo quanto la
convinzione che la Russia sia un paese socialista e che l’azione dei suoi
governanti debba essere perdonata quando non imitata. Per questo, negli ultimi
dieci anni mi sono proposto di distruggere il mito sovietico: perché il
movimento socialista possa risorgere.
Di ritorno dalla Spagna, ho pensato di smascherare il mito sovietico con una
storia che fosse facilmente comprensibile e traducibile in altre lingue. Lo
schema della storia mi sfuggiva finché un giorno, nel piccolo villaggio in cui
vivevo allora, non vidi un ragazzino, di circa dieci anni, che guidava un enorme
cavallo da tiro, strigliandolo ogni volta che la bestia voleva cambiare strada.
Mi colpì un fatto perfino banale: se gli animali da soma avessero coscienza
della loro forza, non avremmo alcun potere su di loro. Allo stesso modo, con lo
stesso metodo, i ricchi sfruttano i proletari.
Proseguii analizzando le teorie di Marx dal punto di vista degli animali.
Cominciai a scrivere il libro intorno al 1943. Per sei anni ho rielaborato
quella storia nella mia mente. Non desidero commentare oltre: se un libro non
parla da sé, quel libro è un fallimento. Se a qualcuno interessano i miei fatti
privati, potrei aggiungere che sono vedovo, ho un figlio di quasi tre anni,
faccio lo scrittore di professione; dall’inizio della Seconda guerra ho lavorato
essenzialmente come giornalista.
George Orwell
L'articolo “Mi sono proposto di distruggere il mito sovietico”. George Orwell in
Ucraina proviene da Pangea.
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Di quale materia è fatta la poesia?
Si dirà: dura come il diamante, visto che passa di voce in voce, da secoli.
Eppure: alla lettura si sbriciola, sfiorisce. Il contrassegno della gioia è
l’effimero – il calco di un vuoto. Di cosa è eco l’io? Alfabeti nella neve.
Nel discorso di accettazione del Nobel, conferitogli nel 1968, La bellezza del
Giappone e io, Kawabata Yasunari cita una rissa di poeti-monaci. Comincia con
Dogen, il sommo sapiente vissuto nel XIII secolo, fondatore di una delle più
note scuole di buddismo zen, la Sōtō-shū, fino a Ryokan, il monaco eremita,
morto nel febbraio del 1831, che
> “visse in sintonia con lo spirito delle sue poesie, trovando rifugio in
> capanne di frasche, indossando vesti dimesse, vagabondando per le campagne,
> giocando con i bambini e parlando con i contadini”.
Un altro grande scrittore, Kenzaburo Oe, Nobel per la letteratura nel 1994,
avrebbe rimproverato a Kawabata una visione laccata e ideale del Giappone,
infine inautentica. Il Giappone degli eremiti e dei paraventi, delle calligrafie
e delle cerimonie, del tè e della katana non esisteva più neppure ai tempi di
Kawabata: mero rifugio dello spirito – quando non cartolina per turisti. Eppure,
per Kawabata e Kenzaburo Oe, il senso della letteratura è il medesimo: la
ricerca incessante, un’abissale avventura dello spirito. Cosa vuol dire? Che uno
scrittore trascende la letteratura; che un poeta scrive sempre la poesia
prima-e-ultima, frutto di una profonda rivelazione interiore, di una
radicale conversione. Il resto è fiction, cioè: illusione. Vaniloquio di ombre.
A tale proposito, Kawabata cita quanto scrive Kikai, monaco vissuto nel
Duecento, a proposito di Saigyo, il capostipite dei monaci-poeti:
> “…per lui scrivere versi è un fatto lontano dall’ordinario… scrive soltanto
> seguendo l’occasione come si presenta, seguendo l’ispirazione. È simile al
> vuoto del cielo che si colora al passaggio dell’arcobaleno scarlatto”.
Da questo paragrafo deduciamo due cose: che la poesia è ‘straordinaria’, rompe
le norme dell’ordinario, è un dis-ordine che perimetra altra armonia; che
è l’occasione – cioè: l’assalto del fato – a destare l’ispirazione (che
diversità dalle Occasioni di Montale…). Si pratica la poesia per sfuggire alla
necessità del mondo fluttuante, per flottare in esso come una falena. La poesia
non ormeggia le cose alla loro forma, le disancora dall’illusione.
C’è poi un altro aspetto. Kikai afferma che “Proprio questa poesia è
manifestazione dell’assoluta verità del Buddha”. La poesia, intesa come pratica,
come spossessamento del sé, inermità verso l’eterno che, fuggevole, si mostra a
bramiti e a brandelli nel transitorio, è un’esperienza ‘religiosa’: manifesta
l’immanifesto, contatta l’invisibile. Il resto è gioco inerte, arte come
muraglia di specchi, illusione di illusione.
Non è un caso, allora, se Lucien Stryk, insigne poeta statunitense – nato
incidentalmente in Polonia nel 1924, morto incidentalmente a Londra nel 2013, ha
passato la vita professionale tra Chicago e la Northern Illinois University –
sia stato folgorato durante una visita a un tempio zen, “circondato da aceri
fiammeggianti, pareva radicato lì da secoli”, in Giappone. L’abate del tempio
coltivava ravanelli, “mi chiese di pernottare nel monastero. Dialogammo insieme
fino a sera: vidi contadini e boscaioli che si alternavano a porgere offerte.
L’abate parlava con amore dei maestri Zen che eccellevano nella poesia: Dogen
Bunan, Hakuin, nomi che all’epoca mi erano del tutto ignoti. Soddisfatto del
lavoro nell’orto e della sua poesia, quell’uomo non cercava gli elogi del mondo.
Vent’anni dopo gli portai la mia offerta: un libro di poesie Zen, uno dei tanti
che avrei tradotto dopo quell’incontro, così importante per me”.
Il primo libro di traduzioni – Zen. Poems Prayers Sermons Anecdotes Interviews;
da cui i testi che leggete in calce – esce nel 1961; nel 1985 Lucien Stryck
pubblica per la University of Hawaii Press una interpretazione degli haiku di
Basho (On Love and Barley; poi incorporato da Penguin); nel 1981 aveva curato il
fortunatissimo The Penguin Book of Zen Poetry (in Italia è recepito da Newton
Compton come Poesie Zen). Da quel repertorio – assai Zen: con sfilza di poesie
in sequenza, a fare lo scalpo a lambiccamenti lirici e vacui accademisimi –
traggo quanto scrive il co-curatore, Takashi Ikemoto:
> “Gli autori di tali poesie non si consideravano poeti. Erano, piuttosto,
> uomini di talento – maestri, monaci, alcuni perfino laici – che dopo aver
> attraversato esperienze memorabili, cercavano di comunicarle attraverso la
> poesia, il genere che sa esprimere l’inesprimibile. L’illuminazione li aveva
> trasformati; la poesia avrebbe dovuto trasmettere quell’esperienza essenziale
> e il suo effetto. Un simile risveglio poteva richiedere anni di sforzi
> incessanti, restando, comunque, inaccessibile alla maggior parte degli
> uomini”.
Dunque: la poesia come miccia per incendiare la propria esistenza, per
incenerirsi.
Lucien Stryk aveva chiesto di insegnare in Iran e in Giappone; come poeta, aveva
esordito nel 1953, con Taproot: amava Whitman. La poesia di Stryk è compenetrata
dal lavoro nei meandri della cultura Zen. Così, ad esempio, una lassa dal
poemetto The Rocks of Sesshu (raccolto in: The Pit and Other Poems, 1969):
“Fermezza è tutto – la montagna
oltre il giardino
mira come spirano i rami
verso il suo fulvo pendio. Segui
la via dove i cancelli
premono contro le nubi
e stordiscono i colombi che ruotano
nel vento. Guarda
dove non è più pietra
e lo scalatore ascende
verso le viscere
della verità – fermezza è tutto”
Nei selected poems i testi creativi di Stryk si alternano alle traduzioni: caso
particolare di ‘compenetrazione’ linguistica tra tradotto e traduttore, un po’
come accade, in Italia, con i lirici greci e Salvatore Quasimodo.
Secondo Kawabata, la poesia giapponese più autentica – quella coltivata nei
monasteri buddisti – è protesa sul “vuoto”, attende alla “bellezza”.
> “Quando abbiamo la fortuna di venire a contatto con la bellezza, allora
> pensiamo agli amici più cari, allora vorremmo dividere con loro questa
> gioia”.
La bellezza è legata all’amicizia – e all’assenza. Le cose sono belle perché
fugaci: le nuvole, il tramonto, lo scatto di un cervo, la fioritura dei ciliegi.
Così, anche un’amicizia, forse, fiorisce nell’assenza, si inebria di nostalgia –
la bellezza, in forma oscura, ci ricorda che siamo transitori, che vano è
trascorrere la vita a morsi, da moribondi.
Se l’Oriente estremo anela al vuoto, l’Occidente tende al pieno: alla ‘pienezza’
di cui è grave una vita colma d’arte. Ma questa pienezza, in fondo, è un
rovesciarsi, è il rovesciamento delle carte, è fare il vuoto.
***
Dogen
(1200-1253)
Vengono, vanno: gli uccelli
acquatici non lasciano traccia
di guide non hanno bisogno.
*
Compassione della nube:
chi cammina nel sogno
diventerà un uomo. Al risveglio
sento soltanto la pioggia
sul tetto del tempio di Fukakusa.
**
Muso
(1375-1351)
Le montagne sono diventate verdi e gialle
molte, molte volte: la terra è capricciosa!
Polvere negli occhi, questo mondo è angusto;
la mente è vuota, la sedia contiene tutto l’universo.
**
Daito
(1282-1337)
Per decollare il Buddha
impugna la mia spada:
impara la maestria
il vuoto morde il vuoto
con le sue zanne!
**
Daichi
(1290-1366)
I pensieri sorgono all’infinito
la vita è come un arco.
Cento anni, trentaseimila giorni:
la farfalla sogna, è primavera.
**
Jakushitsu
(1290-1367)
Il vento è fresco e rimbalza contro
la cascata – la luna oscilla come una lanterna
la finestra di bambù brilla. Sono vecchio
e le montagne mi sembrano più belle che mai.
Voglio purificare le mie ossa contro le pietre.
**
Juo
(1296-1380)
Oltre il tempo, la mia vita:
disprezzo lo Stato, mi slego dal cosmo.
Negando causa ed effetto, sono come
il cielo a mezzogiorno – il mio andare
tra ascesa e crollo è ignoto al Buddha
e nessuno può trasmetterlo.
**
Ryushu
(1308-1388)
Perché preoccuparsi del mondo?
Lascia che ingrigiscano, che corrano
a Est e a Ovest: nel tempio di montagna
sdraiato, per metà in ombra, vivo alieno
dalla gioia e dal dolore.
**
Tesshu
(XIV secolo)
Come guarire questo corpo spettrale
dalla spettrale malattia che ha contratto
nel ventre materno? Se non cogli il frutto
dall’albero della Bodhi, il karma ti annienterà.
**
Guchu
(1323-1409)
Siamo uomini privi di rango
spazzola per escrementi, eppure
profumiamo i cieli – in pace
nella quiete del tempio, vuota
la mente, cerchiamo la luce.
**
Gido
(1325-1388)
Iscrizione sopra la porta della sua camera
Chi sostiene che il nulla
è informe e i fiori illusioni
entri, con audacia!
**
Reizan
(XIV secolo)
Vago libero tra i cento fiori:
la rupe, imponente, è la seggiola
del mio meditare. Non ho sogni
di fama, a nulla anelo: la foresta e la montagna
seguono le antiche vie – durante questo
lungo giorno di primavera, nemmeno
l’ombra di un uccello.
**
Kodo
(1370-1433)
Nella capitale, al servizio
dello Shogun, lordo della polvere
del mondo, non ho trovato pace.
Ora seguo il fiume, con un cappello
di paglia calato sul cranio: che gioia
la vista dei gabbiani, al delta!
**
Genko
(XV secolo)
Non so se è illusione o illuminazione:
seduto su una pietra guardo le montagne
e ascolto il fiume. Tre giorni di pioggia
hanno purificato la terra; un tuono lacera
il cielo. I fenomeni concatenati recano gioia
e sebbene la mente sia vigile, non è
che un cumulo di cenere. Sono triste
come il crepuscolo, fa freddo, e ritorno
con un cesto colmo di pesche.
**
Saisho
(XV secolo)
Terra monti fiumi – celati nel nulla.
Nel nulla celati – terra monti fiumi.
Fiori primaverili, nevi invernali:
né essere né non essere – al di là
della negazione.
**
Takuan
(1573-1645)
Notte dopo notte la luna
si è riflessa nel fiume:
dove l’hai toccata? Indicami
l’ombra della tua traccia.
**
Ungo
(1580-1659)
Travolti dalla passione, gli occhi
si accecano; chiusi al mondo delle cose
vedono di nuovo. Così vivo: cappello di paglia
bastone in mano, marciando senza limiti
su questa terra, attraverso il Paradiso.
**
Daigu
(1584-1669)
Qui nessuno mira alla ricchezza
tanto meno alla fama: ogni discorso
sul bene e sul male è sedato –
in autunno rastrello il fiume pieno
di foglie, in primavera ascolto l’usignolo.
*In copertina: Yamaoka Tesshu (1836–1888), Dragone talismano, XIX secolo
L'articolo “Cerchiamo la luce”. Raffica di poeti Zen proviene da Pangea.
Alcuni testi-totem, che rivelano nuove vie al pensiero, sono scritti in versi.
Si tratta, anzitutto, di sobillare il linguaggio, di superare la coercizione
della grammatica – di aggirarne le leggi perché nelle parole s’intravedano nuove
stanze, un sole adatto alla brocca e non alla prammatica.
Pensiamo al poema Sulla natura di Parmenide o al De rerum natura di Lucrezio, ai
Veda, al libro di Giobbe, alle più estreme sure del Corano. La poesia è il
regesto di una lotta, è la mappa di un’ascesa, fin nella sua struttura di picchi
e di abissi, in cui il non-detto – non l’indeciso ma l’indicibile –, lo spazio
bianco, ha la stessa, equivalente importanza dello scritto. Un sospiro segue
l’affermazione, il silenzio: la poesia ha figura d’ala – come quella dipinta da
Dürer – e di razzia; è un sentiero che si torce; va per artigliate. Anche il
Nazareno, Verbo che incenerisce ogni verbo, si presenta, nel prologo del Vangelo
di Giovanni, in versi – ispirazione o sparizione?
L’enigmatico Laozi – o Lao Tzu che sia – i cui studi “si concentravano
sull’occultamento di sé e sull’assenza di nomi” (così lo Shiji) scriveva in
versi: il Daodejing – o Tao Te Ching che sia – non è soltanto il libro cardine
del Taoismo, ma uno dei più folgoranti poemi scritti da mano umana, in cui
l’estro è compenetrato dall’ethos, il ritmo verbale si fonde allo stile di vita.
Accade così coi rari, grandi testi: ripetendoli, si è già dentro una forma
dell’esistere. La scelta etica comporta un’opzione estetica. Così scrive
Lionello Lanciotti:
> “In campo artistico-letterario, il Taoismo, concedendo assoluta libertà
> all’individuo, permise la creazione di opere d’arte, concepite per il
> godimento del letterato o del pittore e non, come prevedevano i Confuciani, in
> esclusiva funzione di un certo tipo di società”.
>
> (in: Testi taoisti, Utet, 1977; 1999)
In versi di spietata schiettezza, spiazzanti, Laozi innalza un nuovo modo di
vivere improntato alla non-azione, all’elogio della debolezza, al fare “il
contrario di ciò che si fa abitualmente”, secondo i crismi di una sgargiante
‘naturalezza’.
> “Il non-agire si configura come una modalità per ritornare al nostro stato di
> natura, qual era alla nostra nascita. Il ritorno alla prima infanzia evoca qui
> non l’innocenza, ma l’Origine perduta. La perdita dell’Origine si avverte
> effettivamente a contatto con i bambini: benché consapevoli di esser passati
> noi stessi per tale condizione, abbiamo la sensazione che tutto ciò sia
> cancellato; di qui una certa difficoltà a rimetterci in contatto con tale
> stato originario. Sul piano collettivo, si tratta di tornare alla nascita
> dell’umanità, a uno stadio originario anteriore alla formazione di società
> organizzate ed istituzionalizzate”.
>
> (Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, Mondadori, 2010, pp. 197-198)
Il ‘santo’ taoista è una specie di fool che mette in crisi l’ordine vigente: lo
fa, anzitutto, con il linguaggio, tramite l’arma del paradosso – “che si
contrappone a determinate abitudini intellettuali e a dati valori convenzionali”
– e del contrasto, usando figure retoriche che esaltano l’infimo, il marginale,
l’anonimo in vece del forte, il vuoto in vece del pieno, il molle (il mobile, il
malleabile) in vece del rigido.
Il Daodejing è uno dei libri più tradotti di sempre: la sua vastità – pur
ridotta in ottantuno poesie, spesso brevi – permette innumeri sguardi. C’è chi
si affida alla filologia, chi esalta la dimensione etica, chi quella fiabesca;
alcuni si concentrano sul lirismo di cui è intriso il testo. In Italia, tra i
tanti, segnaliamo la versione, ancestrale, di Julius Evola (Carabba, 1923, poi
rimeditata, poi ripresa da diversi editori) e quella di Augusto Shantena
Sabbadini (Feltrinelli, 2011); la versione poetica di Paolo Ruffilli (La regola
celeste del Tao, Bur, 2004), alcuni versi di Claudio Damiani e gli studi di
Paolo Lagazzi (per dire, intanto, un po’ a caso, al modo taoista) dicono di una
presenza sottile del Tao nella poesia italiana (che preesiste, persistente, nei
versi di Sbarbaro, nei frantumi di Zanzotto).
Per anni, ad ogni modo, abbiamo percorso la Via per vie laterali: la versione
più nota del Tao Te Ching, “Il Libro della Via e della Virtù”, edita da
Adelphi, dipende dalla versione del sinologo olandese Jan Julius Lodewijk
Duyvendak. Comprai quel libro – per spoliazione, estasiante, straniante – in una
libreria sul Lago Maggiore che non esiste più; l’ho letto in una casa che non
esiste più, in un giorno agostano di pioggia che forse non è mai esistito:
squittiva il fiume, l’odore del bosco era imperiale. La fontana in pietra, che
scampanava, ora non esiste più come non esistono più molti dei volti che a
quell’epoca erano cari, chiari. Tutto questo vivere tra evanescenze mi sembra
riguardi il Tao.
Anche la traduzione di traduzione, questo vagabondare per spifferi e spiragli,
mi sembra che riguardi il Tao. In questo repertorio, riferiamo di alcune
traduzioni dall’inglese, tra le miriadi. Quelle più celebri – le antiche
versioni del sinologo scozzese James Legge e dell’orientalista britannico Arthur
Waley (tra l’altro, poeta apprezzato da Yeats e autore di una fortunatissima
versione del Genji monogatari) – e quella, a mio giudizio, più ermetica,
sigillata nell’afa aforistica – di Daisetsu Teitaro Suzuki, l’autore dei Saggi
sul Buddhismo Zen, edita nel 1913 – fanno da cornice alla versione ‘d’autore’
di Ursula K. Le Guin. La straordinaria scrittrice di fantascienza –
quest’anno Mondadori ha rimesso in circolo i libri più importanti, tra cui I
reietti dell’altro pianeta e i tomi del “Ciclo di Terramare” e del “Ciclo
dell’Ecumene” – ha realizzato una bella versione del Tao Te Ching nel 1997, per
la Shambhala Publications, con una ipotesi di sguardo peculiare:
> “Le traduzioni accademiche del Tao Te Ching come manuale ad uso dei governanti
> utilizzano un vocabolario che enfatizza l’unicità del ‘saggio’ Taoista, la sua
> mascolinità, la propria autorità. Questo linguaggio si è perpetuato,
> degradandosi, nelle versioni più popolari del libro. Al contrario, io ho
> voluto un ‘Libro della Via’ accessibile al lettore, insensato, impotente, e
> magari poco virile, che non tenta segreti esoterici, in ascolto della voce che
> sussurra all’anima. Vorrei che si percepisse perché questo libro è così tanto
> amato da duemilacinquecento anni. È il più amabile dei grandi testi religiosi,
> il più divertente, arguto, accogliente, modesto, indistruttibilmente
> oltraggioso e inesauribilmente nuovo. Delle sorgenti profonde, è quella più
> pura. Per me, è anche la più profonda”.
Il legame tra Ursula K. Le Guin – l’autrice di fantascienza (per generalizzare,
ma un genio ‘degenera’ i generi) più amata da Harold Bloom, che la preferiva a
Tolkien – e il Tao Te Ching è antico, arcano: Tao Song (attacco: “O cauto pesce/
mostrami la via/ o verde erba/ fonda per me una via”) è una poesia raccolta
in Wild Angels, libro in versi del 1974. Già: Ursula K. Le Guin è stata anche
una poetessa di altissimo talento; i Collected Poems (insieme alla traduzione
del Tao Te Ching: A Book about the Way and the Power of the Way) sono stati
pubblicati dalla Library of America nel 2023. L’entità del tomo – 738 pagine –
fa capire plasticamente che la poesia non è stata attività secondaria nella
ricerca di Ursula K. Le Guin.
E ora, salto triplo nel vuoto, nella faida di sé, fino al tonfo – che il nostro
corpo sfarfalli, si incenerisca in miriadi di falene.
***
Il libro del Tao
IV
Senza fonti
La via è vuota
usata – non abusata.
Profonda – ancestrale
alle diecimila cose.
Mola i bordi
molla i legami
delucida la luce
la via è la polvere sulla via.
Silente,
sicura di durare.
Di chi è figlia? È nata
prima degli dèi.
*Elusivo è tutto ciò che dice Lao Tzu. La tentazione: aggrapparsi a qualcosa
nella semplicità infinitamente ingannevole delle sue parole. Perfino i migliori
traduttori, i filologi e gli accademici si concentrano sui valori etici e sulla
politica del testo, come se fossero la cosa importante. Ovvio, la religione
detta Taoismo è piena di dèi, di santi, di miracoli, di preghiere, di metodi per
assicurarsi ricchezza, potere, longevità – tutto ciò che Lao Tzu dice svia dalla
Via. In passi come questo, credo, la profonda limpidezza del linguaggio
riassumono ciò che gli uomini hanno ricavato, per secoli, dalla lettura di
questo testo: pura adesione al mistero di cui siamo parte.
*
XI
Il genio dell’inutile
Trenta raggi
convergono nel mozzo:
dove non è la ruota
è l’utile.
Scavando
l’argilla sorge il vaso:
dove non è il vaso
è la cosa chiamata vaso.
Ricavi porte e finestre
per ricavare una stanza:
dove non è stanza
è il tuo spazio.
Il profitto di ciò che è
è nell’uso di ciò che non è.
*Una cosa che amo di Lao Tzu è il genio comico. Spiega una verità profonda,
complessa, una di quelle verità controintuitive che, una volta accettate dalla
mente, raddoppiano d’improvviso le dimensioni dell’universo. E lo fa con
spiazzante semplicità, parlando di vasi.
*
XLVII
Guardare oltre
Non devi uscire di casa
per capire cosa accade nel mondo.
Non devi guardare fuori dalla finestra
per vedere la via. Più vai altrove
meno sai.
L’anima sapiente
non va – e sa
non guarda – e vede
non fa – e fa.
*Di solito, ci aspettiamo grandi cose dal “vedere il mondo”, dal “fare
esperienza. Un poeta romano ha scritto che il viaggiatore cambia il cielo sopra
di sé, mentre l’anima dentro di sé resta la stessa. Alcune poetesse, che hanno
fatto poche esperienze e quasi nessun viaggio, Emily Dickinson e Emily Brontë,
confermano le tesi di Lao Tzu: è lo sguardo interiore a vedere davvero il
mondo.
*
XLVIII
Disimparare
Studia, impara: ti farai grande.
Chi segue la Via rimpicciolisce.
Diventa piccolo, minuscolo.
Così si arriva alla non-azione.
Non fare nulla – che nulla sia fatto.
Non preoccuparti
di organizzare le cose.
Traduzione e commento di Ursula Le Guin
*
LVIII
Sovrano represso popolo soddisfatto
governo vivace e virile, popolo scontento e lagnoso.
“Sulla cattiva sorte si fonda la buona sorte, sulla buona la cattiva”.
Pochi lo sanno, ma esiste soglia tra retto e inesatto;
il regno dove ogni retta è obliqua
e ogni bene un male e l’umanità è smarrita.
Così il Saggio
squadra ma non taglia
sagoma ma non spezza
raddrizza ma non tira
emette luce senza brillare.
*
LXIII
Agisce senza agire, fa senza fare,
scopre il sapore nell’insapore
rende gigantesco il minimo, molto il poco
“Replica all’ingiuria con il bene
si occupa del difficile quando è facile
del sommo quando è infimo”.
Per governare ciò che è arduo
affrontalo quando è ceduo.
Il grande sia preso quando è misero.
Per questo il Saggio non si approssima ai grandi
e ottiene la grandezza.
E poi: “Un sì poco ispirato estrae poca fede
le cose ‘molto facili’ diventeranno assai difficili.
Per questo il Saggio rende difficile il facile:
in questo modo ottiene tutto senza difficoltà!
*Traduzione di Arthur Waley
**
LXXI
Conoscere l’inconoscibile è ascesi. Non conoscere lo sconosciuto è malattia.
Solo ammalandoci possiamo superare il male.
Il santo non è malato. Poiché il male lo abita la malattia non lo scalfisce.
*
LXXV
Il popolo è affamato perché i superiori sono famelici, per questo è affamato.
Il popolo è ingovernabile perché i superiori sono ingovernati, per questo è
ingovernabile.
Il popolo è troppo attaccato alla vita e non si occupa della morte, per questo è
moribondo.
Chi non ha interesse per la vita è più nobile di chi stima la vita.
*
LXXVII
La Ragione del Cielo è come un arco. Abbatte ciò che è alto, innalza il basso.
Decima l’abbondanza, moltiplica chi non ha nulla.
Tale è la Ragione del Cielo. Mutila chi ha in abbondanza, compie chi è privo.
La Ragione dell’Uomo non è così. Egli sottrae a chi non ha per servire chi ha in
abbondanza.
Chi è colui che vuole avere in abbondanza per servire abbondantemente il mondo?
Il santo agisce ma non si vanta; acquista meriti e ne è incurante; non mostra la
sua grandezza.
*
LXXVIII
Nulla al mondo è più molle e delicato dell’acqua. Nulla al mondo la supera nel
soggiogare il duro e il forte. Nulla può prendere il suo primato.
Il debole supera il forte, il tenero vince il rigido. Al mondo non esiste
qualcuno che non lo sappia, ma nessuno lo pratica.
Per questo il santo dice:
“Colui che s’incarica del peccato
della patria, salutiamo come il sacerdote
del grande sacrificio – colui che fallisce
ed è maledetto, salutiamo come il re dell’impero”.
Le parole autentiche suonano paradossali.
*Traduzione di D.T. Suzuki
**
LXXXI
Le parole sincere non sono belle; le belle parole sono insincere. Gli iniziati
(al Tao) non disputano (su di esso); chi disputa non è iniziato. Chi conosce (il
Tao) non è erudito; gli eruditi non lo conoscono.
Il saggio non accumula (per sé). Più dà agli altri più possiede; più dona più
ha.
Ha l’audacia della Via del Cielo e non nuoce; tutto ciò che opera sulla via
accade senza sforzo.
*Traduzione di James Legge
L'articolo “Diventa piccolo, minuscolo”. A capofitto nel Tao proviene da Pangea.
Qualche giorno fa, il 5 agosto, sul “Corriere della Sera”, Luciano Canfora, lo
storico, ha firmato un lungo pezzo, s’intitola: “Il senso della storia, dono
divino”. Pretesto dell’articolo, la pubblicazione, per la “piccola e vivace casa
editrice lucchese Le Vele”, di Qoelet, il formidabile, corrosivo testo biblico.
Si tratta del libro che inaugura “una grande opera dissodatrice” (copy Canfora):
la pubblicazione, tomo per tomo, della Bibbia, per fini culturali (consentire la
lettura della Bibbia ai più) più che ecumenici. Non è esattamente una novità:
già Einaudi, a cavallo del millennio, aveva tentato un’operazione simile.
I Salmi, “ragguardevoli non solo sul piano religioso ma anche su quello
letterario” (dida di infantile inutilità) erano introdotti da Bono; il Vangelo
secondo Marco da Nick Cave; il Qohèlet da Doris Lessing. La traduzione d’uso,
allora, era di quella di Filippo Nardoni; l’iniziativa, eguale a quella proposta
da Le Vele (“La Bibbia pensata non come testo di fede per fedeli, ma come testo
di lettura per lettori”), durò poco, una manciata di anni. La collana inaugurata
dall’editore Le Vele – che s’intitola, va da sé, come quella Einaudi, “I libri
della Bibbia” – è curata da Sergio Valzania, giornalista, autore radiofonico
Rai, scrittore: tra l’altro, ha scritto “una nota” a un antico libro di
Canfora, 1914 (Sellerio, 2006).
L’articolo del “Corriere” – à la Canfora: vigoroso, ruvido, ma anche un po’
superficiale nelle sintesi – mi è stato mostrato da un amico, uno di quelli
sempre pronti a salvarti dal baratro, con un certo sconcerto. Negli stessi mesi,
infatti, per De Piante è uscita una versione di Qoelet, culmine di un progetto
editoriale di pubblicazione, libro per libro, del canone biblico. Il
progetto, inaugurato nel 2022 con Genesi, non riproduce il Testo secondo la
versione Cei che tutti hanno sul comodino (“accogliendone purtroppo anche i
difetti”, così Canfora): l’idea, titanica, è quella di affidare “i singoli libri
della Bibbia a narratori, poeti, pensatori di oggi”. In
particolare, Genesi e Isaia sono stati tradotti dall’artista e scrittore
polimorfico Gian Ruggero Manzoni e Apocalisse dal poeta e fine
grecista Giancarlo Pontiggia. L’idea di Qoelet – uscito dai torchi nel marzo del
’25 –, testo magnetico come pochi altri, è più complessa. Il testo è tradotto,
secondo una nuova ipotesi sul ritmo e sul suono, da Stefano Arduini, linguista,
teorico della traduzione (tra gli ultimi libri: Traduzioni in cerca di
originale. La Bibbia e i suoi traduttori, Jaca Book, 2021), traduttore, tra
l’altro, di Giovanni della Croce (per Città Nuova). A questa versione, si
affianca la mia – a dire della lotta tra i botri e i dogi del linguaggio – e
quella, storica, di Massimo Bontempelli. Quest’ultima, ha un’importanza storica
peculiare perché testimonia una sotterranea ma pur robusta ‘tradizione’ della
traduzione biblica da parte degli scrittori italiani: pensiamo ai Vangeli
tradotti da Diego Valeri, Corrado Alvaro, Nicola Lisi e Bontempelli,
alla Lettera ai Corinzi secondo Giovanni Testori, alle versioni di Ceronetti e
ai tentativi di Emilio Villa, all’innario di David Maria Turoldo, fino ai
reperti di Erri De Luca. Su questa scia, Roberta Rocelli, nella scorsa edizione
del “Festival Biblico”, ha ideato il Salterio dei Poeti, il primo germe della
traduzione dei Salmi ad opera dei poeti di oggi: tra gli altri, hanno
partecipato Mariangela Gualtieri e Andrea Ponso, Giuseppe Conte e Federico
Italiano, Francesca Serragnoli, Alessandro Rivali, Susan Stewart e John
Kinsella. Ne abbiamo scritto a lungo.
Insomma, è da tempo che si opera nel ring del testo biblico. Per chiudere con i
dati: nel 2010 proprio Stefano Arduini, insieme all’editore Walter Raffaelli,
hanno fondato la collana “La Bibbia” con gli stessi intenti – la pubblicazione,
libro per libro, del canone, in nuova traduzione. Erano libri deliziosi, in
formato minino, da tenere in una mano: ferine falene di carta. Sono usciti, in
quel contesto, il Cantico dei Cantici secondo Andrea Temporelli, l’Esodo secondo
Gian Ruggero Manzoni, Il libro di Giona secondo Giovanni Tuzet. Uno
scrittore-cantautore come Leonardo Bonetti avrebbe ‘musicato’ il libro di
Daniele; tra i protagonisti del progetto – di cui qualche giornale ha detto –
figurava il poeta Pier Luigi Cappello – io ho tradotto le Lamentazioni. Ma
queste sono minuzie.
Bisognerebbe, piuttosto, domandarsi se tradurre un libro biblico sia come
tradurne qualsiasi altro: se, per dire, tradurre Geremia o le lettere di
Giovanni sia come tradurre Emily Dickinson o Rimbaud. Come scriveva Edgard Wind
in Arte e anarchia, l’uso ha un suo peso: una Crocefissione appesa da secoli in
una cattedrale, che ha accolto le preghiere di migliaia di fedeli (divorandone
le intenzioni e il cuore), è diversa da una Crocefissione esposta in un museo,
sotto gli occhi di attenti – o disattenti – ‘fruitori’ d’arte. insomma: la
Bibbia ha un ‘peso’ diverso, la traduzione – come postula San Paolo – è un
carisma. Non si può tradurre senza precipitare. Il rischio di abbellimento
retorico – sempre presente nel lavorio degli artisti – è sacrilegio, è
idolatria: tradurre vuol dire scotennare, levare l’ultimo velo al Volto. Che se
ne torni inceneriti è norma.
Ma qui vado per erbe avvelenate.
Torniamo a noi. È evidente che esistano alcuni eventi culturali, alcune
avventure dello spirito, non marginali, tuttavia per sempre ignote alle ‘grandi
firme’, ostili ai ‘grandi palchi’. Sono invisibili. Rimangono paria. Frotte di
lebbrosi. Perché Luciano Canfora, parlando di una nuova, meritoria edizione
di Qoelet non ha fatto riferimento al Qoelet edito da De Piante negli stessi
mesi, rintracciabile in ogni repertorio digitale? Escludendo la malafede, resta
l’ignoranza. Se è così, è grave: è come se uno storico, organizzando i fatti,
non conoscesse una fonte autorevole.
Per il resto, basta Qoelet, cioè la beatitudine della vanità. “Non arrabbiarti:
l’ira/ alberga nel petto del vile”, dice il sapiente.
*In copertina: Memento mori, studio di cranio, XVII secolo
L'articolo La “qoeletica” ignoranza di Luciano Canfora. Vane riflessioni
proviene da Pangea.
Non lontano dal tempio – d’intorno. René Char cela i suoi vangeli – come altro
chiamare quel vestibolo di versi, quel sudario? – presso l’aia, presso le
stalle. Così si consolidano i campi, chini al girasole, il fiore leonino.
Colossale nel corpo, René Char rimedita l’era dei Titani: in quella violenza,
l’assurdo della compassione. L’armonia contrapposta dagli olimpici è, invero,
una tirannia.
È il poeta a tal punto nel proprio tempo da scansarlo, da fargli lo scalpo.
Così, è toccato dal mondo restando intoccabile – i suoi fari: Rimbaud ed
Eraclito, Hölderlin e gli alchimisti del Rinascimento.
È un poeta, cioè, per indole, sempre in lotta. In lui, l’elemento primo – il
pane, il sole, l’acqua – è sempre l’esito di un sacrificio. La vera gioia:
sacrificarsi. Ospitare, cioè: partorire un patto.
Poiché il linguaggio è l’agone, è l’agonia, è il principio del malinteso,
l’arena dei malintenzionati, bisogna – come fa il fabbro, come fa l’alchimista –
fonderlo e rifondarlo. Con la stessa lega del verbo, nuove armi, nuove forme. In
René Char, allo stesso tempo, la severità del legiferante e la ribalderia del
bandito. Per questo va continuamente ‘scoperto’, come artiglieria di
contrabbando; va continuamente tradotto – sentieri sempre sotto assedio di
redini erbe, di irredente felci: non bastano le belle prove di Giorgio Caproni e
di Vittorio Sereni, di per sé poeti. Char apre la sua casa avita perché sia
messa sottosopra.
Diffidava degli scrittori ‘impegnati’, che spesso hanno di mira la carriera
quando non la convivenza con la convenienza, un convenire di pettegole. I suoi
scritti sono pienamente ‘politici’, nel senso arcano: orientare il corpo civico
a quello spirituale. Che è poi: consegnarsi all’assoluto.
Tra il 1966 e il 1969, a Le Thor, René Char invita Martin Heidegger a realizzare
un seminario su Eraclito. In quegli anni, il poeta si ribella all’installazione
di missili atomici presso il Plateau d’Albion, all’urlo di Non aux fusées
atomiques.
Eliminare ogni distanza tra atto e verbo, trasmutare la parola ferrosa nell’oro
della promessa mantenuta. L’estremo René Char – il recluso nei suoi luoghi,
l’anziano eroe di infinite guerriglie – è il più giovane, ragazzino il
linguaggio sempre a figliare ribellioni. Nel 1979, per Gallimard, esce Fenêtres
dormantes et porte sur le toit: come sempre, un libro definitivo. Così ne scrive
Char:
> “Tracciare un cammino tentando di ristabilire la speranza come atto che
> orienta, d’istinto, nel visibile e nell’invisibile. Ci sono compagni di
> vendette dai volti avvertiti e belli, pittori, viandanti della buona sorte,
> sconosciuti dalle mani glassate di schizzi abbandonati: mostrano che questo
> nostro mondo, tragico o comico, è diversamente abitabile, nella cerca
> dell’arte. Una compagnia che s’infittisce lungo obliati vagabondaggi, e
> ovunque, dunque, l’inimicizia delle nazioni, degli individui, delle cose e
> degli eventi che conduce all’estremo della voce che si impenna: ‘Al termine di
> questo turbine di marce, la porta senza chiuse di sicurezza: il tetto. Sono
> per mia gioia al cuore della cosa, il mio dolore è ormai inutile’. Tutte
> queste parti assemblando pietra su pietra, abusando della realtà per altri
> fini, come i gradini scolpiti del teatro di Epidauro”.
A teatro, si sa, la verità accade; infine, ne restano le spoglie, il sole in
carcassa, qualche briglia che chiameranno legge.
In Char: lapidare la letteratura, restare nell’allarme.
Il libro si apre con un testo, Faire du chemin avec…, qui tradotto.
All’ingresso, l’ultima poesia di Melville, The return of the Sire de Nesle, a
fare da faro in una vita che fu da bucaniere, che fu inseguimento e fuga, in
amore del bianco.
Il paese di Char, L’Isle-sur-la-Sorgue, sorge non lontano da
Fontaine-de-Vaucluse, Valchiusa, uno dei luoghi di Petrarca, quello delle
“Chiare, fresche et dolci acque”. Che di questa lotta – poesia è anche
energumena messe di vendette –, nel fiorire, sia l’amare, e sia innumerevole.
Si legge continuamente, René Char, per capire come onorare la vita: è palestra –
e mai rendere domestico il dire.
***
Mettersi in marcia
Infine, le mie torri! Che l’erranza si archivi
Che si plachi la sete della loro manchevolezza:
Se desideri l’infinito con troppa forza, si ritira
Perché è terribile la terra.
Hermann Melville
A monte, non fu commesso un crimine. Ci hanno espropriati del ghiacciaio; allo
stesso tempo, accusati, marchiati di incontinenza. Pochi fuggiaschi vagano, qua
e là, banditi di banlieu. La giovinezza dei nostri affetti li mostra intatti.
Così ci si estrae dall’inspessimento della sera, ci si inabissa sotto la
superficie dei libri perché la primavera migratoria possa crogiolarsi, ospite
che il nostro non molteplice corpo ferisce.
Avevano riscoperto con soave gioia l’istinto di strisciare nella boscaglia: a
vedere una trama di serpe sul sentiero chiamavamo quel passato “il perduto
rettile”. Con gelosia paludata.
Guarda la cannaiola sui giunchi scossi dal vento, ha gambe di mare!
La poesia che magnifica i suoi ingressi distruggendoli mentre si eleva
l’oggetto. Buona notte! Ancora buona sia questa notte, tastata dalla forza che
soccorre, tenuta sulle genitrici ginocchia del Tempo recidivo. Nessun interdetto
prima dell’inatteso rifugio, quando ci sei.
La poesia riversa, donna alla bisogna per la quale i minuti oggetti domestici
sono indispensabili. La ricchezza e la parsimonia.
Prima di polverizzarsi, tutto è pronto a incontrare i nostri sensi. Questo tempo
di preparativi è la nostra occasione senza rivali.
Montare, arrampicarsi… ma… issarsi? Oh, com’è difficile. La spinta luminosa
delle reni, la forza bassa che razzola nella tana, che irrompe e nonostante la
gravità delira in allegria.
Come liberare il rondone dai pidocchi? Resta il domandare dacché il rondone
sorvola la città.
Lunatico afillante. Il suo fiore sigillato. Ci ha visto. È di un blu
onnipotente. Afillante, nostra padrona!
Il suo sudario all’albero maestro del Vascello fantasma, fedele fino alla morte,
e bianca. Ah, ci ha in suo possesso. Veridica nei ranghi di una breve
giovinezza. E poi, pietrificata. Alcuni direbbero, mendace. Graffiandosi le
labbra murmuri…
Le sanguinose utopie del XX secolo.
Né il corno totalitario né il paralogismo si sono conficcati nelle nostre
fronti. La nozione di giusto e di ingiusto negli usuali fatti ha tenuto in
scacco la simpatia.
L’emofilia politica delle persone che si pensano emancipate. In troppi sono
innamorati dell’umanità disprezzando l’uomo! Per elevare la prima, degradano il
secondo. Uguaglianza che fa patti con l’aggressore. Questa è la maledizione. E
la nostra figura si accomoda.
Quanto vorremmo che la cronaca universale non si interrompa, se non una sola
notte, per l’obliquo impulso del faro d’amore! Così ci devia il desiderio.
Sovviene la parola, quel grande rifugio da tutti i venti.
L’esplosione atomica è la coscienza della materia e il segno dell’ilare uomo
quando si esprime. La sua permanenza spirituale ha cominciato a produrre.
Strappiamone svergognati l’ipogeo.
Non incitate le parole alla politica di massa. Il greto di questo oceano deriso
è lastricato dai cristalli del nostro sangue.
Dall’opera totalitaria non siamo più annodati al nostro io personale ma a un io
collettivo, assassino, assassinato. Il profitto della morte condanna a vivere
senza immaginazione, fuori dallo spazio tattile, in miscele avvilenti.
Ciò che sembrano tenere così risolutamente nelle loro mani gli sarà strappato
dagli occhi. È la legge, la paglia nella legge.
La poesia può riscattare il ricatto?
René Char
L'articolo “La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale
proviene da Pangea.
Catherine Pozzi è una poetessa. È la poetessa francese che ammaliò Valéry e
Rilke. È il trait d’union delle lingue nella poesia. Genio tubercolotico, con la
voce della notte, insegnava danzare alle parole. Concisa. Poco incline al
compromesso, fu tutta sentimento. Proprio per questo pagò cara la tresca con il
più grande poeta francese di quel tempo: Paul Valéry.
Essenza e umore sfuggenti facevano di lei una donna solitaria, poco affine ai
salotti dell’epoca.
Le sue poesie sono lampi provenienti da un cielo a margine, sospeso tra
dimensione terrena e immaginaria. Le sue poesie, una volta scritte, comportano
un cordoglio, e mestizia, per la morte del poeta stesso che le ha create.
Scrisse soprattutto sei grandi liriche, tutte pubblicate postume, tranne
una, Ave (apparsa sulla “NRFˮ il 1° dicembre del 1929), preghiera-ode,
cantico-celebrazione per quell’«altissimo amore» innominabile e irraggiungibile,
nel quale il corpo si frantuma e dissolve.
Quasi addio (Vale)
Il grande amore che mi hai dato
Il vento dei giorni l’ha mandato in frantumi ‒
Dove fu la fiamma, dove fu il destino,
Dove eravamo, dove per mano stretta
Noi stavamo
Il nostro sole, il cui ardore era pensato
Il mondo per noi di essere senza un secondo
Il secondo cielo di un’anima divisa
Doppio esilio dove il doppio si fonde
Il suo luogo per te appare cenere e paura,
I tuoi occhi verso di lui non l’hanno riconosciuto
La stella incantata che sviava lo sguardo
L’estremo istante del nostro unico abbraccio
Verso l’ignoto.
Ma il futuro che ti aspetti di vivere
È meno presente del bene scomparso.
Qualsiasi raccolto che alla fine ti porta
Lo berrai senza poter essere così ubriaco
Del vino perso.
Io ho ritrovato il celeste e il selvaggio
Il paradiso dove l’angoscia è desiderio.
L’altisonante passato che cresce di età in età
È il mio corpo e sarà il mio senso
Dopo la morte.
Quando in un corpo la mia gioia dimenticata
Dove fu il tuo nome, prenderà la forma del cuore
Io rivivrò il nostro grande giorno,
E questo amore che ti ho dato
Per il dolore.
*
Maya
Scendo i gradini di secoli e di sabbia
Che ritornano a voi nell’istante disperato
Terra di templi d’oro, entro nella vostra favola
Atlantico adorato.
Da un corpo che non mi appartiene più, la fiamma finalmente fugge
L’Anima è un nome disprezzato dal destino ‒
Lascia che il tempo si fermi, lascia che la cornice crolli,
Ritorno sui miei passi verso l’abisso infantile.
Gli uccelli planano sul vento nell’Occidente marino,
Devi volare, felicità, nella vecchia estate,
Tutti profondamente addormentati dove cessa la riva
Rocce, il canto, il re, l’albero lungamente cullato,
Stelle da tempo legate al mio primo volto,
Sole stupefacente incoronato di calma.
Intransigente e severa critica di se stessa, Catherine Pozzi visse con l’anima
aperta sul mondo, trasponendo in versi dal temperamento mistico la sua intensa
fame d’assoluto e il suo non meno sconcertante desiderio di calarsi nel regno
tumultuoso della notte oscura.
«Quello che non può diventare notte o fiamma», confessava la poetessa, musa e
amante tradita di Paul Valéry, «lo si deve mettere a tacere».
Poetessa pura, genio giovanile come il suo amato/odiato Paul, non poteva che
lasciarci un diario denso e intenso, intriso di canto e lirica. Intraprende i
suoi studi con sete di conoscenza enciclopedica: si interessa a materie diverse
come la filosofia greca, la teologia, la fisica e la chimica, nonché ai misteri
orfici e al pensiero orientale. Il suo bisogno di razionalità da un lato e di
assoluto dall’altro non conosce limiti.
Tutto ciò fa di lei persino una fine traduttrice, che ha saputo però gestire il
genio, comprendendo e godendo pienamente dalla lettura le poesie della Browning
tradotte da Rilke, e le poesie di Rilke tradotte da Valéry. Infatti, senza
entrare nel merito del suo rapporto con Catherine, Valéry pregò Rilke di
inviarle le sue traduzioni dei Sonetti dal portoghese di Elizabeth
Barrett-Browning, precisandogli che la sua «amica» era ben qualificata per
apprezzarle, considerata la sua ottima conoscenza dell’inglese e del tedesco, ma
soprattutto in ragione della sua ammirazione sconfinata per la poetessa inglese.
Questo fu il la, tra l’altro, per la nascita di un carteggio assoluto tra Rainer
Maria Rilke e la Pozzi.
Nyx
A Louise anche lei di
Lione e d’Italia
O voi mie notti, o nere attese
O paese orgoglioso, o segreti ostinati
O lunghi sguardi, o nudi ardenti
O volo consentito oltre i cieli chiusi.
O gran desiderio, o diffusa sorpresa
O bel cammino dello spirito incantato
O male peggiore, o grazia discesa
O porta aperta dove nessuno era passato
Non so perché muoio e annego
Prima di entrare nella dimora eterna.
Non so di chi sono la preda.
Non so di chi sono l’amore.
*
Ave
Altissimo amore, se è possibile che io muoia
Senza sapere da dove vi ho preso,
In quale sole era la vostra casa
In quale passato il vostro tempo, in quale ora
Io vi amavo,
Amore altissimo che fuggite il ricordo,
Fuoco senza focolare di cui ho fatto tutta la mia giornata,
In quale destino avete tracciato la mia storia,
In quale sonno si vedeva la vostra gloria,
O mia dimora…
Quando sarò persa con me stessa
E divisa nell’abisso infinito.
Infinitamente, quando sarò sopraffatta,
Quando il presente di cui sono rivestita
Avrà tradito,
Per l’universo in mille corpi sbriciolata,
Di mille istanti non ancora raccolti,
Dalla cenere ai cieli fino al nulla setacciato,
Lo rifarete per una strana annata
Un unico tesoro
Voi rifarete il mio nome e la mia immagine
Di mille corpi portati via ogni giorno,
Viva unità senza nome e senza volto
Cuore dello spirito, oh centro del miraggio
Altissimo amore.
Sei poesie non sono molto per assegnare una gloria letteraria, ma per Catherine
Pozzi non serviva altro: «Ho scritto
VALE, AVE, MAYA, NOVA, SCOPOLAMINE, NYX. Vorrei che se ne faccia una plaquette.
Saffo non ha attraversato il tempo con più parole.»
Il futuro ha esaudito il suo desiderio…
*L’articolo e la traduzione delle poesie sono di Giorgio Anelli; traduzione da
“Oeuvre poétique”, Éditions de La Différence, 1988
L'articolo “Verso l’ignoto”. Catherine Pozzi, la poetessa notturna proviene da
Pangea.
Alla guerra seguì la seduzione del deserto, la sedizione dal mondo.
Nel ’39, è rogo bellico, vuole arruolarsi nell’esercito – gli è impedito, a
causa di una frattura al bacino, lì dalla giovinezza. Nato a Morges, Svizzera,
nel 1911, Armel Guerne cresce con il padre, direttore di una azienda di pezzi di
ricambio affiliata alla Renault, a Parigi; rifiuta gli studi in economia, si
ribella al giogo familiare. Cacciato di casa, sedicenne, coltiverà la propria
preparazione grazie alla famiglia del migliore amico, Mounir Hafez, futuro
orientalista, esperto in mistica islamica, egiziano d’origine.
Fin da allora la vita di Guerne si svolge in direzione contraria. Studia in
Siria, lavora come insegnante di ginnastica, viaggia in nave prestando servizio
come mozzo. Ritornato in Francia, approfondisce le discipline psicologiche alla
Sorbona; intanto, comincia a tradurre Novalis, primo atto d’amore verso gli
amatissimi poeti tedeschi. L’incontro con Paul Éluard, Georges Bataille e Breton
lo lascia indifferente, “la frivolezza dell’intelletto” – così giudica il ménage
dei club parigini – non lo tocca.
Nell’anno in cui anela alle armi, sceglie l’amore: sposa ‘Pérégrine’ – cioè
Jeanne-Gabrielle Berruet – con cui vive da anni. Armel Guerne è un uomo
‘elementare’, è un uomo che modella l’elemento: che dall’argilla sa trarre il
fuoco, che legge le pietre. È un uomo nudo – concretezza è il sale del suo
carisma. Lo si vede dai testi – Oraux, l’esordio, è del 1934; seguiranno libri
disancorati alle leggi dell’oggi, di dissacrante libertà: Mythologie de
l’homme (1945), Testament de la perdition (1961), Les Jours de
l’Apocalypse (1967), Le Jardin colérique(1977), ad esempio – primevi nel dire,
di primordiale avventatezza, una ventata di nevi.
Si schierò contro Pétain, contro Vichy. A Parigi, con inguaribile spirito
avventuriero – una specie di didattica dell’innocenza –, compie alcuni atti di
sabotaggio contro i tedeschi; l’anno dopo viene ingaggiato da Francis Suttill,
agente segreto britannico, tra i ranghi della resistenza. Armel prende il nome
di “Gaspard”, dedicandosi completamente alla lotta. La rete, tuttavia, viene
smobilitata già nel giugno del ’43: Armel e la moglie vengono arrestati dalla
Gestapo e internati, per quattro mesi, in una cella di massima sicurezza, a
Fresnes. Deportato a Royallieu, Guerne è destinato a Buchenwald in quanto
“affiliato agli inglesi”. Nelle Ardenne francesi, presso la stazione di Amagne,
il poeta riesce rocambolescamente a scappare. Forza con le pinze il filo spinato
che serra i finestrini del convoglio; i tedeschi lo vedono, fanno fuoco. “Mi
gettai nel Sulces, un ruscello poco profondo, blindato dal ghiaccio. L’acqua,
gelida, non superava i trenta centimetri. Mi sdraiai sul greto – gli fui grato –
restai lì quasi un’ora – le SS sparavano, di tanto in tanto – il treno ripartì,
infine”. Il poeta rientra a Parigi travestito da ferroviere, da lì va a Pamplona
poi a Londra. Anche gli inglesi lo tengono in arresto: credono sia una spia –
subisce l’ignominia di essere considerato, per eccesso di candore, un traditore.
L’ambasciata svizzera gli presterà soccorso. “Ho vissuto tutti gli orrori
dell’occupazione: la prigione, la minaccia, il tradimento – infine, è stato
Novalis a salvarmi”, dirà.
Seguiranno, a Parigi, anni di lavoro incessante come traduttore. Guerne
traduce Moby Dick e Shakespeare, Stevenson e Virginia Woolf; traduce – con
l’aiuto di uno iamatologo – Kawabata e alcuni racconti giapponesi d’era
medioevale. Soprattutto, volge in francese i tedeschi: Rilke (Elegie duinesi e
i Sonetti a Orfeo), Hölderlin – per Mercure de France e Flammarion –, Kleist e
Dürrenmatt, Martin Buber e von Balthasar. Traduce per necessità, estraniandosi
dal tempo, operando una sorta di romitorio interiore. Fa poco per divulgare
la propriaopera, lasciata brada. La sua versione del Daodejing, uscita nel 1963,
sorprende Emil Cioran:
> “Credo davvero nell’effetto benefico di questo libro su di te, nella misura in
> cui è contrario ai tuoi più profondi istinti. Tu sei più prossimo alla
> preghiera e alla blasfemia, che all’indifferenza e all’annientamento. Per
> questo è così ammirevole lo spettacolo della tua lotta sul Non-agire!”.
Armel Guerne e Cioran si conoscono nei primi anni Cinquanta. A Cioran piacque
quell’uomo privo di orpelli intellettuali, che durante la Seconda guerra non era
stato viziato dagli obbrobri né dagli onori. Pareva uno spettro sano – un santo
spurio.
L’amicizia si consolidò dal 1960: Guerne acquista un mulino a vento a Tourtrès,
in Lot-et-Garonne; un centinaio di abitanti, tanto vento, solitudine acerrima,
d’acciaio. Invita alcuni amici, rielabora, con incessante amore, per Gallimard,
le Œuvres complètes di Novalis, da estraneo ai culti della cultura francese.
Cioran apprezzava l’ascetismo di quel suo singolare amico. Nei Quaderni – che
sono poi la cartina di tornasole della sua vita; in Italia li stampa Adelphi –
Cioran torna spesso al poeta, con augustea angoscia e falcate di ironia:
> “Armel Guerne mi ha mandato la sua traduzione delle novelle di Stevenson. Ieri
> sera, verso mezzanotte, mentre mi cambiavo d’abito per la passeggiata
> notturna, ho avuto la sensazione di essere il dottor Jekyll che si travestiva
> per andare a fare qualche nefandezza…”
A volte, appunta alcune frasi dall’epistolario con Guerne. Come questo frammento
da una lettera di Guerne del 28 maggio 1969: “L’umanità contemporanea al di
sotto dei trent’anni appartenente alle nazioni cosiddette civilizzate non sa che
cosa sia il sorriso o il riso e ha l’occhio senza sguardo…”.
L’amicizia epistolare tra Cioran e Guerne è testimoniata dalle Lettres de Guerne
à Cioran, 1955-1978 (Éditions Le Capucin, 2001) e da E.M. Cioran-A.
Guerne, Lettres 1961-1978, ed. Vincent Piednoir, L’Herne, 2011 (da cui abbiamo
estratto un paio di lettere di Cioran). Erano nati nello stesso mese, nello
stesso anno, a una settimana di distanza; Armel Guerne morirà nel 1980, era la
fine di settembre, è sepolto a pochi passi dal suo mulino. L’ultima lettera di
Cioran è di due anni prima: il pensatore selvatico parla di febbri, di mali,
dell’incubo di essere in balia dei medici.
> “Sai bene il dramma di avere un corpo, ma ciò che di te ammiro sono i momenti
> in cui non ti tocca alcun problema: il mirabile distacco che annienta la
> morte, ridotta a fare la parte di un insulso intruso. Tuttavia, una frase
> della tua lettera mi ha davvero sbriciolato il cuore: ‘Il tempo si stende
> intorno a me e assume proporzioni inimmaginabili, con tutti quei frammenti
> infiniti’. So cosa intendi e non ho nessun consiglio da darti, nessuna bugia
> per aiutarti. È puro orrore. Per tutta la vita sono stato afflitto da momenti
> di noia e di inedia, impossibili da superare, che mi hanno impedito di
> compiere qualcosa di concreto e di coerente. Devo loro il privilegio di aver
> saputo catturare il delirio degli altri, immaginandoli nel dettaglio,
> soprattutto quando si tratta della percezione del tempo, il più grande nemico
> che l’uomo deve affrontare”.
In pochi scrissero della sua morte; aveva scritto che “i poeti si sporgono dove
gli uomini non vogliono andare”. Sulla rivista “Sud-Ovest”, J.-F. Mézergues
ricordò che il poeta del mulino gli aveva descritto la sua morte: “è un’isola
persa nel mare; su di lei il mattino leva la sua bandiera bianca; in lontananza,
un orlo di fulmini neri”. Disse che “le parole chiave della poesia sono:
profezia, annuncio, presentimento, promessa… termini vuoti nella vita spettrale
che ci è imposta oggi, dove non c’è posto per l’individuo ma soltanto per il
denaro, un falso”.
Qualcuno ha registrato la sua ultima parola, prima di spirare. “No”. Che è poi
un sì alla vita nuova, che è poi uno sparo. Inutile parlare di memoria quando è
stato un cenacolo, di ricordo quando ce ne siamo abbeverati.
***
Lettere di Emil Cioran ad Armel Guerne
Mio caro Guerne,
se l’insoddisfazione fosse un carisma della santità, sarei santo da tempo. La
mia è davvero una forma di santità! Passo la vita al telefono, altrimenti nelle
biblioteche, alla ricerca di un libro che mi riconcili con me stesso e con le
cose del mondo. Quando non spreco tempo in conversazioni, lo perdo leggendo:
leggo, leggo, inutilmente, per non pensare, per non vedere fino a che punto sono
infossato nel nonsenso.
L’altro giorno mi è stato chiesto di scrivere un articolo per una rivista. Ho
risposto: più avanti. Mi è stato chiesto un titolo per annunciare la futura
collaborazione. Non riesco a trovare nulla di cui scrivere, ho risposto. Nel
frattempo, continuerò a scrivere un testo sulla rabbia.
Il mio dramma è semplice: tutti i miei antenati hanno vissuto nelle montagne, a
contatto con l’elemento, io vivo da trent’anni in una metropoli. Mi fermo, per
paura di compatirmi (cosa che in effetti non smetto di fare).
I miei migliori auguri,
E.M. Cioran
Parigi, 30 novembre 1963
*
Mio caro Guerne…
La questione del lavoro ha messo da parte quella del freddo – che mi
intimidisce. Sulle alture dove abiti l’aria non deve essere docile. Come potrei
affrontarla quando spendo i miei giorni in una stanza surriscaldata, dove
prospera la mia anemia?
Confesso di non saper immaginare la vita che conduci lì, ora, in questo periodo
dell’anno. Come trascorri le lunghe sere che cominciano tanto presto?
Questa mattina, contemplando gli alberi del Luxembourg (mi arrangio con ciò che
ho sottomano), mi dicevo che la sola stagione assolutamente poetica è l’inverno,
perché non c’è traccia di concessione all’umano. Sogno che il paesaggio intorno
al Moulin sia meravigliosamente desolato come lo immagino. L’idea che da qualche
parte rintocchi una risata mi fa venire voglia di vomitare. Per rassicurarmi che
la serenità regna nei tuoi campi, raccontami di raffiche di vento, terre cupe e
cieli tersi… Ti ho mai detto che il solo paesaggio a cui non ho nulla da
obiettare è quello delle brughiere descritte dalle sorelle Brontë? È senza
dubbio per uno strano fenomeno di contaminazione che vedo in questo istante il
tuo mulino nel bel mezzo dello Yorkshire.
A voi la mia amicizia e i miei migliori auguri
E.M.
23 dicembre 1963
*
Mio caro Guerne,
le “sacrosante” vacanze, come giustamente le chiami, sono infine arrivate. È un
rito o una prova che non si può eludere. Tentare di fuggire e scansarle è
un’impresa di tale originalità che pochi ne sarebbero capaci. Presto arriveremo
a dire che l’uomo più che un animale mortale è una bestia da vacanza.
Quindi: tra un’ora parto per la Loira Atlantica, per far visita ad alcuni amici
che hanno una bella casa con giardino. Ci resterò per circa dieci giorni, poi
andrò con Simone a Dieppe, dove ci hanno prestato un appartamento. Insomma,
vacanze da parassita. Invidio il fatto che dovrai tradurre Novalis. Vieni pagato
cifre irrisorie, ma questo è il regime incredibile in cui siamo costretti. Cosa
aspetti? Unisciti a una falange anarchica del movimento studentesco! Una
bandiera nera affissa in cima al tuo Moulin mi farebbe felice, per non parlare
del boom turistico che tale spettacolo comporterebbe…
Nella tua ultima lettera mi scrivi che in fondo pensiamo sempre di essere più
giovani di quanto siamo. Questo è vero come regola generale: non lo è per me,
che continuo a vedere da venti o trent’anni le stesse persone. Dico vedere e
non rivedere perché a malapena le riconosco. Questa macabra sfilata mi ha
provocato un vero e proprio “complesso” da invecchiamento: anche se a tratti mi
sento ancora giovane, non lo sono, non lo sarò più, e non posso dimenticare la
mia età perché i fantasmi che mi fanno visita mi costringono a ricordarmela, a
pensarci di continuo. A volte mi sembro come una vecchia civetta che non osa
guardarsi allo specchio. Come è deplorevole tutto questo!
Tutta la mia amicizia,
E.M. Cioran
Parigi, 5 agosto 1968
***
Freddo
La luce è troppo dura per questo tempo,
ha gli aculei ed è dolce la sua crudeltà:
troppo scaltro il lucore, troppo nudo
troppo sottile nel filo e liscio nella grana
e il cielo è troppo blu, di un azzurro grezzo
per un sole tanto alto, radioso e felice.
Nuda come l’acciaio, bianca come un’arma
illuminata e illuminante, non sappiamo
se il suo invisibile canto trapassi le ombre
se monta o se cala, se è avanguardia o resa;
ma quando il vero novembre crolla su di noi
questa musica ci rende radiosi e leggeri
lascia una magia, un lento profumo d’estate
che ci ripara dai venti umidi, dai giorni grigi.
*
Il vivo peso della parola
Puoi scrivere – e scrivi;
puoi tacere – e taci.
Ma è sapere il silenzio
l’unica, la grande chiave:
devi perforare i simboli
e divorare le immagini
udire per non intendere
soffrire fino alla morte –
lascia che il vivo peso
della parola ti frantumi.
*
L’albero e il muro
Un albero non è mai dritto:
è al debutto. S’impenna
potente, fin dal fondo delle radici
verso quel punto nel cielo che lo attende,
quell’ambone nel cielo che esiste solo per lui.
Il muro è dritto, eretto dalla base
non nasce che da se stesso. È pur sempre
l’erede diretto di Babele.
L’albero tace: quando muore
la sua preghiera resta impressa
in noi e il suo nome è la luce.
*
Ouverture
Sotto il velo di un aprile che impreca e ride
più verde che vivo, turbato dall’insonnia dei sognatori
il giorno minaccia il giorno che viene: non reca
annunci perché le sentinelle hanno munto la notte.
Un uccello piange. Per paura o per istinto d’amore?
L’erba si piega. È l’angoscia o il peso della pioggia?
Un rischio si apre in ogni istante che passa
e il pericolo è come una corona altera
che mostra il cranio, si inebria di gioielli
ed è quasi un miracolo perché illumina il giorno.
*
Il temporale
Drago che governi su nebbia e nibbi
monarca oscuro e onnipossente
dei frantumi che ti offriamo:
principe del torpore e dell’ira crestata
salute! Ti eleggiamo maestro dei nostri
istanti perché vogliamo essere come te.
Ciò che temiamo è il momento che si biforca
che lascia essudare tutto, il momento
in cui ci alziamo nudi, senza vesti né maschere
in piedi, nella nostra singolarità.
*
Il giardino in collera
Nel crudo oscuro giardino in collera
della carne e del sangue, sui neri meridiani
di questa anatomia strappata dalla mente
e rubata all’anima a cui è annodata
grazie a cui spirava la vita
prima di spirare, come sappiamo:
cosa fa il viandante? cosa può il giardiniere?
La lettera è morta: ci resta il grido
l’urlo dell’essere, un’onomatopea
e l’appello scheggiato di un gesto senza
speranza. Gli uomini delle grotte, rispetto a noi
possedevano il genio della grazia e della conversazione.
Armel Guerne
L'articolo “Ci resta il grido”. Armel Guerne: il poeta dei mulini a vento,
l’amico di Cioran proviene da Pangea.
Ha la faccia del predestinato, Willis Barnstone, il patriarca della poesia
americana, ha una faccia di cera, che puoi modellare a tuo piacere, che può
prendere qualsiasi forma. Nato a Lewiston, Maine, nel 1927, finì su un giornale,
il “New York Daily News”, la prima volta, per caso, da bambino: invitava Babe
Ruth, il leggendario giocatore di baseball, a una raccolta fondi per gli orfani,
per gli sfortunati dei quartieri infimi. Quarant’anni dopo, lo vediamo al
braccio di Jorge Luis Borges, a Buenos Aires. Lo scrittore argentino, arso da
cecità, ha il solito sguardo, nei labirinti dell’invisibile; Willis fissa la
camera, perplesso, pare uno Zelig; indossa un completo bianco, il registratore a
tracolla.
Lavoreranno insieme a lungo, per un paio di decenni: Barnstone accompagnerà
Borges in un importante ciclo di conferenze negli States, ad Harvard, alla
Columbia, a Chicago; ne sortì un libro, Borges at Eighty: Conversations, passato
in Italia come Conversazioni americane (Editori Riuniti, 1984). Secondo
Barnstone (in: Borges the Poet, a cura di Carlos Cortínez, The University of
Arkansas Press, 1986), Borges è un Poet of Ecstasy: “Per quel che posso capire,
Borges è un composto instabile, un composto misterioso, che cerca
incessantemente di trovare la condizione stabile, la cifra o la formula o la
chiave della propria essenza, ma è destinato a eterna metamorfosi. Muove cioè
dall’entasis (essere in sé) all’ekstasis (essere altrove)”. Amava la “notturna
attività del poeta cieco”, fonte, per i lettori, di abbagliante chiarità.
Non è difficile capire perché a Borges piacesse quell’americano allampanato,
all’apparenza inerte, dal corpo salamandra. Conosceva lo spagnolo – uno dei suoi
primi lavori è una traduzione dai testi di Antonio Machado –, aveva studiato in
Messico e in Francia, aveva insegnato in Grecia: le sue versioni da Saffo –
uscite in origine nel 1965 – vengono rieditate ancora oggi. Soprattutto,
Barnstone, a differenza di altri poeti, esperti geologi del proprio io,
‘specialisti’ dei fatti loro, aveva una mente oceanica: era stato in Cina – da
lì, le traduzioni da Wang Wei –, lo affascinavano i perigli del ‘religioso’. Nel
1972, per la New Directions di James Laughlin, aveva firmato una notevole
edizione dei Poems of Saint John of the Cross. Le indagini nella letteratura
spagnola non lo abbandoneranno: negli anni, Barnstone traduce il poeta
agostiniano Luis de León (1979), Vicente Aleixandre (1981), Quevedo, García
Lorca e Miguel Hernandez (in: Six Masters of the Spanish Sonnet, 1993). Fra i
suoi libri di poesia ricordiamo From This White Island (1960), China
Poems (1977), Algebra of Night (1998), Life Watch (2003); l’ultimo libro
lirico, Moonbook and Sunbook, è edito nel 2014.
È pressoché impossibile districarsi nell’amazzonica bibliografia di Barnstone,
un poligrafo che non teme fatica, un poligrafo che odora di Himalaya; su Borges
ha scritto un grazioso pamphlet, With Borges on an Ordinary Evening in Buenos
Aires: A Memoir (1993), in cui, tra l’altro, rievoca un sogno narratogli dal
grande scrittore argentino. “Erano i giorni della ‘Guerra sporca’, le bombe
esplodevano in città; arrivai da Borges, lo vidi sconvolto, mi raccontò un
sogno”. Quel sogno è alla base di un racconto borgesiano, La memoria di
Shakespeare, che reca, a sua volta, lo stigma dell’incantesimo, del gioco di
prestigio. Ne riparleremo.
Molti anni dopo – il testo è raccolto nell’antologia Mexico in My Heart,
Carcanet, 2015 – Barnstone ha trasfigurato il suo legame con Borges in una
poesia dai molti sigilli, Borges and His Beasts:
> “Qualcosa è sbagliato nel tuo volto. Non è
> quello di un vecchio, ma di uno che non cresce.
> Nonostante i grigi capelli e l’occhio cavo come una tazza,
> morto, e l’altro, grigia trama di tumida nebbia
> dove un cervo bianco corre e scompare o lampeggia
> blu, in quel sogno dove hai dimenticato che si muore,
> e progetti un alfabeto di luce che faccia fibrillare
> la sfera del cuore. L’oscurità è sparita e ora devi
> sorridere come un bimbo. Succhi l’antica parola norrena
> che ti offre il cielo. Ma sei solo e sei assurdo
> e sai che c’è qualcosa di sbagliato. Viso da bimbo
> che ride, sembra un dente, l’occhio è un fiume
> perché ha conosciuto la pantera che non muore mai”.
Forse su suggerimento di Borges, Willis Barnstone s’inabissa nella Bibbia,
esplora lo gnosticismo, studia l’ebraico e l’aramaico. Le traduzioni degli
apocrifi, degli pseudoepigrafi e dei manoscritti del Mar Morto convergono in The
Other Bible (1984); nel 2003, insieme a Mervin Meyer raccoglie come The Gnostic
Bible i testi della tradizione gnostica cristiana, mandea, catara, ebraica. Il
suo The Restored New Testament (2009), che riesuma le fonti dei Vangeli canonici
e accoglie i cosiddetti Vangeli gnostici, è elogiato da Harold Bloom: “allo
stesso tempo, è un’eloquente, vivida traduzione dei vangeli e dell’Apocalisse e
un superbo atto di restituzione, di restauro”.
Nel 2004 ha tradotto i Sonetti a Orfeo di Rilke, il libro della vita.
> “Ho iniziato a scrivere versi nel 1947, dopo aver letto i Sonetti a Orfeo di
> Rilke in edizione bilingue. All’ultimo anno di università, cominciai a
> maneggiare il tedesco. Il libro di Rilke fu fondamentale per farmi capire che
> in poesia si potevano esprimere concetti filosofici – fu Rilke a consegnarmi
> alla poesia”.
C’è una generosità impulsiva in questo poeta traduttore, che non teme
l’avventura, l’avventatezza, la capriola e lo schianto. I suoi miracolosi
repertori antologici – A Book of Women Poets from Antiquity to Now, 1980; The
Literatures of Asia, Africa, and Latin America, 1998 – sono un invito al
viaggio, un monito ai poeti: andate lì dov’è l’ignoto, scavate, scoprite –
perdetevi, semmai, e sia bello il vostro essere candele nella tenebra.
Il poeta centenario ha attraversato tempi e poeti, volti e monoliti; nelle sue
mani, pari ad anfore, convergono i millenni, dal vello pieno. Opera di
mungitura, allora, di chi sa i proventi del coltello, di chi sa imboccare il
prossimo.
***
Il bene
Primo mattino, luna sulla landa
a cerchio gli uccelli di Ur, prima che
il diluvio lordi il ricordo della coppia
bandita dalle mele e dal fatale fuoco
del sangue: Adamo ed Eva a passeggio
nel ghetto giardino, accerchiano l’albero.
Non sanno l’incendio che scintilla tra
i corpi, non sanno leggere né parlare
conoscono la notte e il meriggio, gli sfugge
l’oscuro che non ha zenit. Adamo, Eva,
bestie buone, brade all’alba del globo,
cieca gente, come noi, all’apocalisse.
Sondano il sole, che irradia morte da un albero
rosso. La luce infuria, analfabeta – loro, se ne vanno.
*
L’usignolo
Benché l’orrore dell’usignolo
il sacro usignolo dall’inascoltato canto
che stride invisibile nella tormenta,
oltre l’albero delle stelle, sia solo un verbo
o una longitudine epistemologica,
è lui a svegliarmi, all’alba, l’occhio
inumato di croste, prima dell’estasi
del giorno. L’orrore non è mai distante:
l’arida biologia lede la speranza degli insetti:
la falena che intrappola la luna, il ronzio
della solitudine nell’ansimare dell’aria,
la trama dei vermi volanti. Eppure, è sempre
con me il segreto dell’usignolo, che mi illude.
Invisibile, anche io sono ancora qui.
*
In cammino
Cammino sempre: anche se la strada è corta
i passi sono infiniti. Qui
in Canada, le oche respirano lo stesso dolore
artico che aleggia nella mia anima introvabile,
ma le oche non sanno il freddo, volano alte
dalla Patagonia gaucho. Sono un uomo di carbone
e ardo sotto quegli uccelli dagli occhi di fuoco
intrappolati in abitudini elettriche.
Respiro il verde cielo – finché non mi coagulo.
*
Rendezvous
Papà, sei tornato stanotte.
Anni dopo il Tibet. Il viso lampeggia
e sorride tra i camion. Accendi
un fiammifero. Mi alzo dal letto
e siamo sulle colline dove nessuno
può vederci, dove non c’è testimone.
Vorrei darti il mio iPad. Sei un uomo
moderno. Non c’è bisogno del cappello.
I tibetani ci salutano. I monaci, come te,
non vogliono morire giovani. Bruciano
i loro corpi per protesta. Anche tu sei
logoro dal rogo della tristezza. Ora siamo noi
a dover varcare le colline. Il tempo ti ha reso
dolce, esatto. Per venire qui hai venduto
la casa in Colorado. Il cielo è nero
ora. Ci guida il sole interiore.
*
Dai “Sonetti a Orfeo” di Rilke
Silente amico di vaste distanze, odi
il tuo respiro che divarica le stanghe dello spazio.
Perduto tra le cinghie di campanili in rovina, suona,
permetti che rintocchi. Ciò che di te si nutre
trarrà il suo dominio da questo pasto.
Percorri la trasformazione, arretra
in essa. Cosa ti frena? Cediti. Se
bere è dolore, sii vino.
Sii notte, sii la sconfinata forza
e lascia che incroci i tuoi sensi.
Sii il senso di questo strano accordo. Va’ –
e se la terra svanisce, se ti ha dimenticato
sussurra al silenzio della terra: Io scorro.
E all’acqua che scorre: Io sono.
*
Da San Giovanni della Croce
Vivo ma in me non vivo
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
In me non vivo
senza Dio non posso vivere;
a lui o a me me stesso non
posso dare, dunque a che vivere?
Agonia di mille morti
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
Questa viva che solo vivo
è di vita ruberia, nulla se
non perpetua morte – nessuna
scappatoia se in te non vivo.
Dio, ascoltami, parole di verità
la mia: questa vita non voglio
muoio perché non muoio.
Il pesce pescato dal mare
ha la sua consolazione:
morte di breve durata
che infine reca sollievo.
Nessuna morte è più convulsa
e orrenda di questa mia patetica vita.
Più vivo, più muoio.
Provo sollievo soltanto
quando ti vedo nel sacramento
sprofondo nello sconfinato sconforto
privo della tua dolce compagnia.
Ora, tutto pulsa di dolore:
voglio – e non posso – averti
muoio perché non muoio.
**
Da Saffo
Lampi
se ci arride la sorte
ambiremo al porto
alla nera terra
Le raffiche di vento
fiaccano i marinai
che sperano
Nell’asciutto
nello sbarco
e scollegarsi
dal carico
che galleggia
Fatica molta
prima dell’approdo
sulla cruda terra
*
L’invito è per uno
non per tutti
al banchetto
che inaugura Era
perché vasta
sia
la mia vita
*
Silente
Zeus
dallo scudo di pelle di capra
e di Citera
ti prego
ti offro un cuore
saturo di bene
come nei giorni in cui lasciasti Cipro
ascolta la mia preghiera
vieni a me
lima le mie durezze
*
Espero, conduci a casa le rovine
dell’alba
conduci a casa le pecore
accompagna a casa la capra, alla sua casa
la bimba – c’è una madre che la aspetta
*
Imitano la morte
le colombe: quando l’anima
si fa fredda, le ali pendono
ai loro fianchi
*
No – non avrei potuto
credere di afferrare il cielo
con queste nude braccia
*
Verginità, verginità, te ne sei andata
lasciandomi sola.
Da te non verrà più – mai più mi vedrai.
*
Dimmi della sposa dagli stupendi
piedi – che Artemide
la figlia di Zeus drappeggiata di viola
deponga la sua ira
Venite, Grazie, venite Muse di Pieria:
il cuore è gonfio di incanti
e limpido sgorga l’inno
lo sposo infastidisce le dame
mentre l’Alba dai calzari d’oro
posa una lira sui loro capelli
*
Sortiranno inni
dalle vergini
tessitura d’amore
tra te e la sposa
dalla porpora veste
Svegliatevi, svegliate
i giovani della vostra età:
questa notte non dormiremo
saremo noi a destare
l’usignolo dalla vorticosa voce
**
Dal Vangelo di Matteo
Ecco: uscì il seminatore alla semina
e di ciò che seminava, seme finì in strada
uccelli calarono e mangiarono.
Parte su petraia, dove era poca terra
e seme subito sbocciò
perché non s’inabissava la terra.
Ma quando fu alto il sole
seccarono le piante:
prive di radici appassirono.
Parte finì tra spine e spine
finirono per soffocarlo.
Ma parte cadde su terra buona
e venne il frutto
il cento il sessanta il trenta
chi ha orecchie atte all’ascolto, ascolti.
Traduzioni e testi di Willis Barnstone
L'articolo “Un alfabeto di luce”. Willis Barnstone, il patriarca della poesia
americana proviene da Pangea.
Nel 1952, per la Harvill Press, Roy Campbell, l’esagitato poeta di Durban,
Sudafrica, pubblica Poems of Baudelaire, la propria versione di Les Fleurs du
Mal. Il poeta – ascendenze scozzesi, studi distratti a Oxford, abile nella
caccia, “bellissimo, enorme, ingenuo, docile, selvaggio”, l’avrebbe detto, anni
dopo, Evelyn Waugh – compiva cinquantuno anni; sarebbe morto poco dopo,
nell’aprile del 1957, di schianto, in un incidente d’auto, nei pressi di
Setúbal, Portogallo, dove si era trasferito da tempo con la famiglia. Le sue
spoglie riposano a Sintra, nel cimitero di São Pedro, di fronte
all’oceanico: oceanica, in effetti, e senza ancoraggi, è l’opera di questo poeta
che fonde la facondia visionaria di Blake agli oratori irti di piume, lance e
danze degli Zulu, di cui si sentiva confratello.
Nella breve introduzione al ‘suo’ Baudelaire, Roy Campbell – con il solito tasso
di alcolica sbruffonaggine – si tesse l’agiografia:
> “Dopo l’intrepido successo delle mie versioni di Giovanni della Croce, ho
> deciso di tradurre un peccatore senza scrupoli, non meno credente, tuttavia,
> anche nei momenti di ribellione assoluta e di assoluta blasfemia, di quel
> Santo. Leggo Baudelaire da quando ho quindici anni, è stato nella mia bisaccia
> durante due guerre, l’ho amato più di qualsiasi altro poeta. Ho tradotto
> Giovanni della Croce perché mi ha salvato miracolosamente la vita, a Toledo.
> Traduco Baudelaire perché ha vissuto la mia stessa vita: i peccati, i rimorsi,
> gli ostracismi, la povertà, la stessa disperata speranza di una
> riconciliazione…”.
Secondo George Steiner, Roy Campbell, insieme a Ezra Pound, è il più folgorante
poeta-traduttore in lingua inglese del Novecento. Insieme a Ezra Pound, è anche
il poeta più ostracizzato, malmenato, minato di fraintesi. Thomas S. Eliot – il
più arguto lettore di Baudelaire di quella generazione – amava, con rispettoso
turbamento, Roy Campbell: nel 1930 gli aveva pubblicato, per la Faber &
Faber, Adamastor; nel 1946 fu la volta di Talking Bronco.
La prima delle due guerre menzionate da Campbell nell’intro al Baudelaire è la
guerra civile spagnola. Cattolico fervente, avventuriero imperiale, Roy Campbell
è l’unico tra gli intellettuali anglofoni a parteggiare per Franco: cerca di
arruolasti tra i Carlisti; di fatto, non prenderà parte attiva al conflitto. Nel
luglio del 1936, a Toledo, aveva assistito al massacro: le truppe comuniste
predano e uccidono diciassette monaci del Carmelo dov’era ospite il poeta, con
la moglie. Campbell riuscì a salvarsi, salvando dalla razzia alcuni codici di
Giovanni della Croce lì conservati. I Poems of St John of the Cross vengono
tradotti e pubblicati da Campbell nel 1951; piacquero molto a Jorge Luis Borges,
che cominciò ad apprezzare “quel grande poeta scozzese, incidentalmente
sudafricano”.
Durante la Seconda guerra, il ‘fascista’ Roy Campbell – ben più antifascista di
molti, tiepidi intellettuali ‘di sinistra’ – fu arruolato nell’Intelligence
Corps; poi inviato a Nairobi, incluso tra i King’s African Rifles. Un incidente
in moto lo mise fuori ruolo: passò l’ultima parte della guerra sulla costa
kenyota, in operazioni atte a smontare l’azione dei sommergibili nemici. A
Londra, durante il “Blitz”, conobbe Dylan Thomas: diventarono fraterni compagni
di colossali bevute. Ogni tanto, si univa agli ‘Inklings’: a Tolkien – che era
nato in Sudafrica come lui – stava simpatico quel poeta sopra le righe, dal
talento smodato, che da ragazzo sfotteva gli snob del Bloomsbury e ora faceva a
cazzotti contro tutti; C.S. Lewis, simpaticamente, malsopportava l’ego del
“poeta e soldato”. Nel 1949, durante un incontro pubblico, Campbell si scaglierà
contro Stephen Spender, che rappresentava, ai suoi occhi, il côté tipico degli
intellettuali della sinistra anglofona: pallidi, pavidi reggenti della poesia
contemporanea, assertori di un patetico nepotismo. Gli spaccò il naso. Spender –
comunque, un cavaliere – si rifiutò di denunciarlo: “è un grande poeta e i
grandi poeti devono essere capiti”. È vero: Flowering Rifle, “a poem from the
battlefield of Spain”, uscito nel 1939, grandguignolesco poema sulla guerra
civile spagnola, è ascrivibile, più che altro, a un documento letterario
‘dell’altra parte’ – letterariamente, è goffo, tonitruante, malrassettato. Più
che altro, garantì a Roy Campbell un pervicace ostracismo. Quanto a lui –
gioviale, ingenuo, sempre in cerca di battaglie – percorreva la provocazione.
Strenuo oppositore del sistema fratricida dell’apartheid, nel ’53 ricevette una
laura in onore dalla University of Natal. Denunciò il “suprematismo bianco” del
primo ministro sudafricano, D.F. Malan; nello stesso tempo, diede dello “zombie
ridacchiante” a Franklin Delano Roosevelt, reo di aver mollato a Stalin l’Europa
orientale. Churchill gli pareva un pachiderma.
Intrattabile, inarginabile Campbell: nel 1924 aveva esordito, per Jonathan Cape,
con The Flaming Terrapin, imponente poemetto dal genio ‘aggressivo’, fuori
classifica rispetto ai libri dell’epoca, al contempo, inno sciamanico, iliade
africana, leviatano lirico. In Italia, cominciamo a colmare la lacuna soltanto
ora: l’ultimo numero della rivista “Poesia” (n.31, maggio/giugno 2025, Crocetti
Editore) dedica la copertina a Roy Campbell, “Il poeta guerriero”, pubblicando
una porzione di The Flaming Terrapin tradotta da Andrea Temporelli (il poema
sarà edito, prossimamente, dalle edizioni Magog).
Nel 1952 – a testimonianza della mente multiforme del poeta – Campbell pubblica
un poderoso omaggio a Federico García Lorca, An Appreciation, With Selected
Translations of His Poetry. Campbell idolatrava il poeta repubblicano, vilmente
fucilato e oltraggiato dai nazionalisti nel ’36. Alcuni dicono che le sue
versioni di García Lorca siano tra le più belle uscite nel mondo inglese. Sul
“New York Times”, il 21 dicembre del ’52, Dudley Fitts firmò una partecipe
recensione:
> “Pare che Roy Campbell sia nato per scrivere questo piccolo, esplosivo
> libello. Egli stesso possiede quelle qualità ‘romantiche’ che rintraccia in
> Federico García Lorca – avventatezza e galanteria, un maquillage andaluso di
> cruda vita e misticismo, il genio della poesia, soprattutto –: difficilmente
> potremmo immaginare coincidenza più felice tra un autore e il suo soggetto”.
Già: l’erculeo Roy Campbell, autore di una lirica tra le più vertiginose e
inavvicinabili del secolo, possedeva un’energumena generosità. Lo hanno dipinto
come un Ciclope – per la cecità politica, per la cieca ira –, era un uomo buono,
un cavaliere medioevale. Sognava di essere un Centauro: lo fu – all’incirca.
**
Da Charles Baudelaire
Corrispondenze
La natura è un tempio, ogni pilastro
getta, a tratti, vaghi sussurri. L’Uomo avanza
nella foresta dei simboli, strani e solenni,
che lo mirano con sguardi familiari.
Dilaga l’eco, si mescola e trasfonde
finché nel profondo oscuro unisono si confonde
vasto come la notte, come la cupola del mezzogiorno –
così si embricano profumi, suoni, colori.
Profumi freschi come il vello dei bimbi
come i violini, dolci come i verdi tumidi prati.
Ricchi, complessi, trionfanti, altri rotolano
insieme alla vasta gamma delle infinite non rifinite
cose: ambra, muschio, incenso, resine, ciascuno
canta il trasporto dei sensi e dell’anima.
*
Il nemico
Fu tempesta oscura, selvaggia, il mio giovane
giaculìo: vi sfrecciava un sole abbagliante.
Tuono e pioggia hanno devastato tutto
il mio giardino è avaro di rosati frutti.
Ora è l’autunno della mente
e vanga e rastrello raspano la terra
per salvare frantumi dei miei campi
allagati, dove l’acqua insudicia una tomba.
Chissà se i fiori prefigurati dai miei sogni
troveranno, su questa dilavata terra, per una malizia
almeno, il nutrimento mistico che li farà germogliare.
Il tempo divora la nostra vita, è brutale!
L’oscuro nemico rode le radici del cuore
e cresce sempre più forte sulla nostra chioma.
*
Sopra il ritratto di Tasso in prigione di Delacroix
Il poeta è malato e mezzo nudo:
calpesta un manoscritto nell’oscura cella
e fissa con terrore la scala dove
il suo spirito, infine, crollerà.
Risate inebrianti sbracano quell’aia
lo invitano allo Strano e all’Assurdo.
Intorno a lui, sguainate le orribili figure
del Dubbio e del Terrore, le multiformi.
Questo genio recluso in sotterranei pestilenziali
queste grida, il ghignare di spettri che si contorcono
che si accalcano intorno a lui, beffardi,
questo sognatore destato dalle urla del proprio incubo
è il tuo emblema, Anima sorta dalla nebbia.
Attorno a te la Realtà erige il suo muro e la sua museruola.
*
Da Federico García Lorca
Vasto fantasma d’argento, il vento di mezzanotte
spira e spalanca la mia ferita antica
con la sua grigia mano: se ne andò
e svenni, preda di un triste desiderio.
Questa ferita mi darà la vita: da essa
germoglierà la luce, il sangue che senza
tema sgorga – uno spiraglio dove l’usignolo,
muto, troverà un bosco, un nido e un addio.
Oh, che dolce litania fa tintinnare la mente!
Sul fiore più modesto deporrò il mio dolore
dove fluttua, senz’anima, l’orgoglio della tua beltà.
Allora, il fiume mercenario si tingerà
di rosso, mentre il mio sangue scende
lungo le fragranti selve, nell’aura della rugiada.
*
Adamo
Presso l’albero del sangue, il mattino stilla
rugiada e il neonato urla.
La sua voce mette un vetro nella ferita
e cosparge le finestre con diagrammi di ossa.
Il giorno ha raggiunto a luce costante
i limiti della favola: evadi
dal tumulto del sangue e vola
verso la mela, verso la sua fioca ombra.
Adamo, con quella febbre d’argilla,
sogna che il bimbo galoppa verso di lui –
raddoppia il puledro sangue nelle sue guance.
Ma un altro oscuro Adamo sogna: anela
una luna di pietra, neutra, dove nulla germoglia
dove il figlio della gloria sarà bruciato.
*In copertina: Augustus John, The Poet: Roy Campbell, ca. 1925, Carnegie Museums
of Art, Pittsburgh
L'articolo “Un invito all’Assurdo”. Roy Campbell, poeta guerriero proviene da
Pangea.
Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
L'articolo “Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett
e Suor Juana Inés de la Cruz proviene da Pangea.