Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
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Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto,
si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del
capitolo 5; questa è traduzione alla lettera:
> “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a
> Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.
Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e
interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la
brocca del cuore.
Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette
udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come
chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?
Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto.
Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.
Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve
– siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare
l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature;
fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al
mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come
poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che
sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha
insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il
povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet
elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.
Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a
un passo.
Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la
terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure
il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la
Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).
Già. Ma… quali parole?
“Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in
quiete. Veglia silente.
Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che
è in perenne veglia?
Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito
che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono
le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la
tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in
simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca
(18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!”
(Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν).
Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo
– petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera
da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare
l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.
Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo:
> “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe
> parole”.
Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si
ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso,
vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo
ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile;
per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli
angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui
invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace
di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev
Šestov,
> “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il
> ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”.
Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita
ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure
ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i
sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio:
nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più
neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci
imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo
caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio
concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante
ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.
Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:
> “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti
> impaurisca Dio”.
Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del
male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo
l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al
male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano.
Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo –
circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni
tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire
Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il
giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo
mutando son questi”.
Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio?
Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo
– inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso –
per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario
di inganni.
> “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine,
> il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole
> umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo:
> l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”.
>
> (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).
Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti
sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità
dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il
carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo
umano, la lingua divina.
Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella
parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si
sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla
Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo –
che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine
si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.
La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.
Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei
principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle
cose’.
Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i
rapporti con il dio, per sempre.
Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule
l’informe.
Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna
fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.
Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli
esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che
scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.
Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci?
Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con
la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si
infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.
E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria
lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.
Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo –
ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma
– segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora
a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è
l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la
propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel
giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio
(Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio”
comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è,
per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un
rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché
il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto,
carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.
Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino,
atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.
All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui
rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione.
Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in
legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che
ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una
fioritura. Parole come foglie che sventagliano.
Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non
racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare
Dio – o posso perderlo.
Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.
Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli
stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida
nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.
Spogliarci del linguaggio.
L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio
nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.
Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica,
della cimice, del capriolo.
Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.
Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire
tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il
respiro.
**
Da “Qoelet”
9
Nel cuore ho sperimentato questo:
le opere dei giusti
l’estremismo dei santi
tutto è tra le dita di Dio
l’uomo non sa perché ama
ignora il raduno dell’odio
Stessa sorte per tutti
il giusto e il vile
il puro e l’impuro
chi fa sacrifici e chi dissacra
il buono e il peccatore
chi giura e chi scongiura
È male tutto
sotto il sole
stessa sorte
per tutti
nel cuore dell’uomo
alligna il male
follia nei suoi lembi
il fine è la morte
Speranza tra chi fluttua
nella flotta dei vivi:
un cane vivo è meglio
di un leone morto
I vivi sanno di dover morire
i morti non sanno nulla
privi di salario – memoria
tra i sali dell’oblio
Ciò che hanno amato
i motivi della lotta
e della gelosia: tutto
è cenere, pericope del lutto
per loro non c’è più posto
nel mondo arreso al sole
Allora:
godi e mangia
bevi il tuo vino
divora i cuori
Dio gratifica
le tue opere
Indossa bianche vesti
olio purifichi il tuo capo
La vita è vana: glorifica
i giorni con la donna che ami
unico sconto alla fatica
al dolore sigillato dal sole
Finché il corpo ti aiuta agisci
non c’è opera né sapienza
nello Sheol – tutto è insensato
tra le ombre dove andrai
Così è sotto il sole:
non va ai capaci la gara
la guerra non la vincono i forti
il pane non lo morde il santo
la ricchezza non sorride ai
geni
né agli scaltri la grazia –
su ogni cosa è il dominio del caso
L’uomo ignora la sua ora
come pesci presi tra perfide reti
come uccelli intrappolati dai lacci
il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque
Verità sgravata dal sole:
Misera città
miseri uomini
la assedia un re
onnipossente
aureola di mura
Un santo di scarsi natali
salva la città ma nessuna
memoria lo onora –
E mi dico:
preferisci la sapienza
alla forza – eppure
il santo impoverito dal fato
è sfottuto – le sue
profezie negate
Deglutisci con cura
le parole del santo
ignora le urla
di chi alleva viltà
Anteponi la sapienza
alle armi – ma una
breve colpa avvelena
un grande bene
*Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet.
Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025
*In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915
L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
proviene da Pangea.
Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta
all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The
Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi.
Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del
Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci,
alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era
andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato
dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in
autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la
guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai
presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a
cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati
Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini
delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un
sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia,
cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti
autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di
vento e metropoli nell’urlo.
Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica
il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla
poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San
Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario
“Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di
Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei
Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’,
Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama,
affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un
uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore.
Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di
quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente:
autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva
tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the
Chinese (1956).
Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth
ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e
Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has
always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/
Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944)
dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a
Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o
meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di
disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori
culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel
tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer,
“l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci –
Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha
dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona
possa forzarla verso l’universale”.
Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che
raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James
Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema
di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H.
Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne,
Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non
c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in
Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i
versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile
fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le
pagini introduttive:
> “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il
> collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore
> sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue,
> spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse
> mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti.
> Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua
> spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una
> stirpe di eroi”.
In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi,
spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake
e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e
della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio
sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco
Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce
nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di
Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto
poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a
una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme,
Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha
scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo
dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci,
il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e
delle lettere di Van Gogh.
In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a
Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale
pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di
Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati
celebrare.La celebreremo.
Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo
contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella
poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce
l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il
suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa
grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura
tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.
In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale:
le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago,
l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.
Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito
al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione
di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New
Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di
una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a
quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli
di carta, da mollare ai venti:
> “Fare l’amore con te
> è come bere acqua di mare.
> Più bevo
> più sete mi setaccia
> niente può placarla, se non:
> bere il mare per intero”
> “E un giorno, sei pollici di
> cenere sarà ciò
> che resta del nostro incendio
> mentale, di tutto il mondo creato,
> di questo amore, l’origine
> la dissipazione”
Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva
Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth
eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici.
**
GIAPPONE
Yosano Akiko
(1878-1942)
Neri i capelli
in mille rivoli annodati
annodati i capelli annosi
annodati nodosi ricordi
delle nostre infinite notti d’amore.
*
L’autunno sfiorisce:
nulla dura per sempre.
Il fato sfata le nostre vite.
Accarezza i miei capezzoli
con le tue mani da manovale.
*
Cogli i miei seni
squarcia ogni mistero
un fiore esplode
è cremisi e profuma.
*
Fukao Sumako
(1895-1974)
Casa luminosa
Che casa luminosa:
nessuna stanza è resa al buio.
La casa si erge alta
sulle scogliere, scandita
come un faro.
Quando arriva la notte
depongo una luce
una luce più grande del sole e della luna.
Pensa
al mio cuore che si flette
quando con dita tremanti
accendo un fiammifero nella sera.
Sollevo il petto
inspiro ed espiro al rumore dell’amore
come la figlia del guardiano del faro.
Questa è una casa luminosa.
Voglio creare un mondo
che nessun uomo può costruire.
*
Noriko Ibaragi
(1926-2006)
La mente di una bambina
Ecco cosa aveva in mente una bambina:
perché la schiena delle mogli
odora così forte di magnolia
o di gardenia?
Cos’è
quel futile velo di nebbia
sulle spalle delle mogli?
Ne voleva avere
quella meravigliosa cosa
che alle vergini è vietata.
La bambina crebbe
divenne moglie – fu madre.
Un giorno capì:
la tenerezza
che si ammucchia sulle spalle delle mogli
non è che fatica
di amare – amare giorno dopo giorno.
*
CINA
Huang O
(1498-1569)
Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite”
Hai tenuto il mio fiore di loto
tra le labbra, hai slabbrato
il pistillo. Abbiamo rubato
un frammento del magico corno
del rinoceronte: insonni
per tutta la notte – per tutta
la notte la cresta leonina del gallo
si è fermata. Per tutta la notte l’ape
si è incuneata tremando tra gli stami
del fiore. Oh mio dolce gioiello!
Soltanto il mio signore domina
sul sacro stagno di loto:
ogni notte fa esplodere in me
i suoi fiori di fuoco.
*
Sun Yün-Feng
(1764-1814)
Sulla strada, attraversando Chang-te
L’anno scorso ho attraversato questo luogo:
mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.
Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu.
Da una locanda con il tetto di paglia
si snoda il fumo del tè.
Le sabbie, a riva, interrano
la bianca luna: il fiume sussurra.
I salici attendono il verde
della ventura primavera.
I versi di una poesia mi lacerano.
L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.
*
Viaggio tra le montagne
Il vento occidentale invita alla nostalgia:
la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.
Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.
Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa
come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno.
Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa.
Mentre ammiro il fiume, un brivido
d’invidia per il pescatore che siede
in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.
*
Qiu Jin
(1875-1907)
Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu
Sono sola con la mia ombra
mormoro e scrivo strani
caratteri nell’aria, come Yin Hao.
Vino e malanni non mi spezzano
non soffro per chi non c’è più:
per avere ragione del mio cuore
Li Ch’ing-chao ha messo sotto
torchio una città intera.
Nessuno può capirmi:
le mie visioni superano quelle
degli uomini che mi stanno al fianco –
ma sopravvivere è impossibile.
A cosa serve il cuore di un eroe
in abiti femminili?
Il mio destino è il rischio:
imploro il Cielo – le eroine
del passato hanno mai
conosciuto l’invidia?
L'articolo “Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth
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