Alla guerra seguì la seduzione del deserto, la sedizione dal mondo.
Nel ’39, è rogo bellico, vuole arruolarsi nell’esercito – gli è impedito, a
causa di una frattura al bacino, lì dalla giovinezza. Nato a Morges, Svizzera,
nel 1911, Armel Guerne cresce con il padre, direttore di una azienda di pezzi di
ricambio affiliata alla Renault, a Parigi; rifiuta gli studi in economia, si
ribella al giogo familiare. Cacciato di casa, sedicenne, coltiverà la propria
preparazione grazie alla famiglia del migliore amico, Mounir Hafez, futuro
orientalista, esperto in mistica islamica, egiziano d’origine.
Fin da allora la vita di Guerne si svolge in direzione contraria. Studia in
Siria, lavora come insegnante di ginnastica, viaggia in nave prestando servizio
come mozzo. Ritornato in Francia, approfondisce le discipline psicologiche alla
Sorbona; intanto, comincia a tradurre Novalis, primo atto d’amore verso gli
amatissimi poeti tedeschi. L’incontro con Paul Éluard, Georges Bataille e Breton
lo lascia indifferente, “la frivolezza dell’intelletto” – così giudica il ménage
dei club parigini – non lo tocca.
Nell’anno in cui anela alle armi, sceglie l’amore: sposa ‘Pérégrine’ – cioè
Jeanne-Gabrielle Berruet – con cui vive da anni. Armel Guerne è un uomo
‘elementare’, è un uomo che modella l’elemento: che dall’argilla sa trarre il
fuoco, che legge le pietre. È un uomo nudo – concretezza è il sale del suo
carisma. Lo si vede dai testi – Oraux, l’esordio, è del 1934; seguiranno libri
disancorati alle leggi dell’oggi, di dissacrante libertà: Mythologie de
l’homme (1945), Testament de la perdition (1961), Les Jours de
l’Apocalypse (1967), Le Jardin colérique(1977), ad esempio – primevi nel dire,
di primordiale avventatezza, una ventata di nevi.
Si schierò contro Pétain, contro Vichy. A Parigi, con inguaribile spirito
avventuriero – una specie di didattica dell’innocenza –, compie alcuni atti di
sabotaggio contro i tedeschi; l’anno dopo viene ingaggiato da Francis Suttill,
agente segreto britannico, tra i ranghi della resistenza. Armel prende il nome
di “Gaspard”, dedicandosi completamente alla lotta. La rete, tuttavia, viene
smobilitata già nel giugno del ’43: Armel e la moglie vengono arrestati dalla
Gestapo e internati, per quattro mesi, in una cella di massima sicurezza, a
Fresnes. Deportato a Royallieu, Guerne è destinato a Buchenwald in quanto
“affiliato agli inglesi”. Nelle Ardenne francesi, presso la stazione di Amagne,
il poeta riesce rocambolescamente a scappare. Forza con le pinze il filo spinato
che serra i finestrini del convoglio; i tedeschi lo vedono, fanno fuoco. “Mi
gettai nel Sulces, un ruscello poco profondo, blindato dal ghiaccio. L’acqua,
gelida, non superava i trenta centimetri. Mi sdraiai sul greto – gli fui grato –
restai lì quasi un’ora – le SS sparavano, di tanto in tanto – il treno ripartì,
infine”. Il poeta rientra a Parigi travestito da ferroviere, da lì va a Pamplona
poi a Londra. Anche gli inglesi lo tengono in arresto: credono sia una spia –
subisce l’ignominia di essere considerato, per eccesso di candore, un traditore.
L’ambasciata svizzera gli presterà soccorso. “Ho vissuto tutti gli orrori
dell’occupazione: la prigione, la minaccia, il tradimento – infine, è stato
Novalis a salvarmi”, dirà.
Seguiranno, a Parigi, anni di lavoro incessante come traduttore. Guerne
traduce Moby Dick e Shakespeare, Stevenson e Virginia Woolf; traduce – con
l’aiuto di uno iamatologo – Kawabata e alcuni racconti giapponesi d’era
medioevale. Soprattutto, volge in francese i tedeschi: Rilke (Elegie duinesi e
i Sonetti a Orfeo), Hölderlin – per Mercure de France e Flammarion –, Kleist e
Dürrenmatt, Martin Buber e von Balthasar. Traduce per necessità, estraniandosi
dal tempo, operando una sorta di romitorio interiore. Fa poco per divulgare
la propriaopera, lasciata brada. La sua versione del Daodejing, uscita nel 1963,
sorprende Emil Cioran:
> “Credo davvero nell’effetto benefico di questo libro su di te, nella misura in
> cui è contrario ai tuoi più profondi istinti. Tu sei più prossimo alla
> preghiera e alla blasfemia, che all’indifferenza e all’annientamento. Per
> questo è così ammirevole lo spettacolo della tua lotta sul Non-agire!”.
Armel Guerne e Cioran si conoscono nei primi anni Cinquanta. A Cioran piacque
quell’uomo privo di orpelli intellettuali, che durante la Seconda guerra non era
stato viziato dagli obbrobri né dagli onori. Pareva uno spettro sano – un santo
spurio.
L’amicizia si consolidò dal 1960: Guerne acquista un mulino a vento a Tourtrès,
in Lot-et-Garonne; un centinaio di abitanti, tanto vento, solitudine acerrima,
d’acciaio. Invita alcuni amici, rielabora, con incessante amore, per Gallimard,
le Œuvres complètes di Novalis, da estraneo ai culti della cultura francese.
Cioran apprezzava l’ascetismo di quel suo singolare amico. Nei Quaderni – che
sono poi la cartina di tornasole della sua vita; in Italia li stampa Adelphi –
Cioran torna spesso al poeta, con augustea angoscia e falcate di ironia:
> “Armel Guerne mi ha mandato la sua traduzione delle novelle di Stevenson. Ieri
> sera, verso mezzanotte, mentre mi cambiavo d’abito per la passeggiata
> notturna, ho avuto la sensazione di essere il dottor Jekyll che si travestiva
> per andare a fare qualche nefandezza…”
A volte, appunta alcune frasi dall’epistolario con Guerne. Come questo frammento
da una lettera di Guerne del 28 maggio 1969: “L’umanità contemporanea al di
sotto dei trent’anni appartenente alle nazioni cosiddette civilizzate non sa che
cosa sia il sorriso o il riso e ha l’occhio senza sguardo…”.
L’amicizia epistolare tra Cioran e Guerne è testimoniata dalle Lettres de Guerne
à Cioran, 1955-1978 (Éditions Le Capucin, 2001) e da E.M. Cioran-A.
Guerne, Lettres 1961-1978, ed. Vincent Piednoir, L’Herne, 2011 (da cui abbiamo
estratto un paio di lettere di Cioran). Erano nati nello stesso mese, nello
stesso anno, a una settimana di distanza; Armel Guerne morirà nel 1980, era la
fine di settembre, è sepolto a pochi passi dal suo mulino. L’ultima lettera di
Cioran è di due anni prima: il pensatore selvatico parla di febbri, di mali,
dell’incubo di essere in balia dei medici.
> “Sai bene il dramma di avere un corpo, ma ciò che di te ammiro sono i momenti
> in cui non ti tocca alcun problema: il mirabile distacco che annienta la
> morte, ridotta a fare la parte di un insulso intruso. Tuttavia, una frase
> della tua lettera mi ha davvero sbriciolato il cuore: ‘Il tempo si stende
> intorno a me e assume proporzioni inimmaginabili, con tutti quei frammenti
> infiniti’. So cosa intendi e non ho nessun consiglio da darti, nessuna bugia
> per aiutarti. È puro orrore. Per tutta la vita sono stato afflitto da momenti
> di noia e di inedia, impossibili da superare, che mi hanno impedito di
> compiere qualcosa di concreto e di coerente. Devo loro il privilegio di aver
> saputo catturare il delirio degli altri, immaginandoli nel dettaglio,
> soprattutto quando si tratta della percezione del tempo, il più grande nemico
> che l’uomo deve affrontare”.
In pochi scrissero della sua morte; aveva scritto che “i poeti si sporgono dove
gli uomini non vogliono andare”. Sulla rivista “Sud-Ovest”, J.-F. Mézergues
ricordò che il poeta del mulino gli aveva descritto la sua morte: “è un’isola
persa nel mare; su di lei il mattino leva la sua bandiera bianca; in lontananza,
un orlo di fulmini neri”. Disse che “le parole chiave della poesia sono:
profezia, annuncio, presentimento, promessa… termini vuoti nella vita spettrale
che ci è imposta oggi, dove non c’è posto per l’individuo ma soltanto per il
denaro, un falso”.
Qualcuno ha registrato la sua ultima parola, prima di spirare. “No”. Che è poi
un sì alla vita nuova, che è poi uno sparo. Inutile parlare di memoria quando è
stato un cenacolo, di ricordo quando ce ne siamo abbeverati.
***
Lettere di Emil Cioran ad Armel Guerne
Mio caro Guerne,
se l’insoddisfazione fosse un carisma della santità, sarei santo da tempo. La
mia è davvero una forma di santità! Passo la vita al telefono, altrimenti nelle
biblioteche, alla ricerca di un libro che mi riconcili con me stesso e con le
cose del mondo. Quando non spreco tempo in conversazioni, lo perdo leggendo:
leggo, leggo, inutilmente, per non pensare, per non vedere fino a che punto sono
infossato nel nonsenso.
L’altro giorno mi è stato chiesto di scrivere un articolo per una rivista. Ho
risposto: più avanti. Mi è stato chiesto un titolo per annunciare la futura
collaborazione. Non riesco a trovare nulla di cui scrivere, ho risposto. Nel
frattempo, continuerò a scrivere un testo sulla rabbia.
Il mio dramma è semplice: tutti i miei antenati hanno vissuto nelle montagne, a
contatto con l’elemento, io vivo da trent’anni in una metropoli. Mi fermo, per
paura di compatirmi (cosa che in effetti non smetto di fare).
I miei migliori auguri,
E.M. Cioran
Parigi, 30 novembre 1963
*
Mio caro Guerne…
La questione del lavoro ha messo da parte quella del freddo – che mi
intimidisce. Sulle alture dove abiti l’aria non deve essere docile. Come potrei
affrontarla quando spendo i miei giorni in una stanza surriscaldata, dove
prospera la mia anemia?
Confesso di non saper immaginare la vita che conduci lì, ora, in questo periodo
dell’anno. Come trascorri le lunghe sere che cominciano tanto presto?
Questa mattina, contemplando gli alberi del Luxembourg (mi arrangio con ciò che
ho sottomano), mi dicevo che la sola stagione assolutamente poetica è l’inverno,
perché non c’è traccia di concessione all’umano. Sogno che il paesaggio intorno
al Moulin sia meravigliosamente desolato come lo immagino. L’idea che da qualche
parte rintocchi una risata mi fa venire voglia di vomitare. Per rassicurarmi che
la serenità regna nei tuoi campi, raccontami di raffiche di vento, terre cupe e
cieli tersi… Ti ho mai detto che il solo paesaggio a cui non ho nulla da
obiettare è quello delle brughiere descritte dalle sorelle Brontë? È senza
dubbio per uno strano fenomeno di contaminazione che vedo in questo istante il
tuo mulino nel bel mezzo dello Yorkshire.
A voi la mia amicizia e i miei migliori auguri
E.M.
23 dicembre 1963
*
Mio caro Guerne,
le “sacrosante” vacanze, come giustamente le chiami, sono infine arrivate. È un
rito o una prova che non si può eludere. Tentare di fuggire e scansarle è
un’impresa di tale originalità che pochi ne sarebbero capaci. Presto arriveremo
a dire che l’uomo più che un animale mortale è una bestia da vacanza.
Quindi: tra un’ora parto per la Loira Atlantica, per far visita ad alcuni amici
che hanno una bella casa con giardino. Ci resterò per circa dieci giorni, poi
andrò con Simone a Dieppe, dove ci hanno prestato un appartamento. Insomma,
vacanze da parassita. Invidio il fatto che dovrai tradurre Novalis. Vieni pagato
cifre irrisorie, ma questo è il regime incredibile in cui siamo costretti. Cosa
aspetti? Unisciti a una falange anarchica del movimento studentesco! Una
bandiera nera affissa in cima al tuo Moulin mi farebbe felice, per non parlare
del boom turistico che tale spettacolo comporterebbe…
Nella tua ultima lettera mi scrivi che in fondo pensiamo sempre di essere più
giovani di quanto siamo. Questo è vero come regola generale: non lo è per me,
che continuo a vedere da venti o trent’anni le stesse persone. Dico vedere e
non rivedere perché a malapena le riconosco. Questa macabra sfilata mi ha
provocato un vero e proprio “complesso” da invecchiamento: anche se a tratti mi
sento ancora giovane, non lo sono, non lo sarò più, e non posso dimenticare la
mia età perché i fantasmi che mi fanno visita mi costringono a ricordarmela, a
pensarci di continuo. A volte mi sembro come una vecchia civetta che non osa
guardarsi allo specchio. Come è deplorevole tutto questo!
Tutta la mia amicizia,
E.M. Cioran
Parigi, 5 agosto 1968
***
Freddo
La luce è troppo dura per questo tempo,
ha gli aculei ed è dolce la sua crudeltà:
troppo scaltro il lucore, troppo nudo
troppo sottile nel filo e liscio nella grana
e il cielo è troppo blu, di un azzurro grezzo
per un sole tanto alto, radioso e felice.
Nuda come l’acciaio, bianca come un’arma
illuminata e illuminante, non sappiamo
se il suo invisibile canto trapassi le ombre
se monta o se cala, se è avanguardia o resa;
ma quando il vero novembre crolla su di noi
questa musica ci rende radiosi e leggeri
lascia una magia, un lento profumo d’estate
che ci ripara dai venti umidi, dai giorni grigi.
*
Il vivo peso della parola
Puoi scrivere – e scrivi;
puoi tacere – e taci.
Ma è sapere il silenzio
l’unica, la grande chiave:
devi perforare i simboli
e divorare le immagini
udire per non intendere
soffrire fino alla morte –
lascia che il vivo peso
della parola ti frantumi.
*
L’albero e il muro
Un albero non è mai dritto:
è al debutto. S’impenna
potente, fin dal fondo delle radici
verso quel punto nel cielo che lo attende,
quell’ambone nel cielo che esiste solo per lui.
Il muro è dritto, eretto dalla base
non nasce che da se stesso. È pur sempre
l’erede diretto di Babele.
L’albero tace: quando muore
la sua preghiera resta impressa
in noi e il suo nome è la luce.
*
Ouverture
Sotto il velo di un aprile che impreca e ride
più verde che vivo, turbato dall’insonnia dei sognatori
il giorno minaccia il giorno che viene: non reca
annunci perché le sentinelle hanno munto la notte.
Un uccello piange. Per paura o per istinto d’amore?
L’erba si piega. È l’angoscia o il peso della pioggia?
Un rischio si apre in ogni istante che passa
e il pericolo è come una corona altera
che mostra il cranio, si inebria di gioielli
ed è quasi un miracolo perché illumina il giorno.
*
Il temporale
Drago che governi su nebbia e nibbi
monarca oscuro e onnipossente
dei frantumi che ti offriamo:
principe del torpore e dell’ira crestata
salute! Ti eleggiamo maestro dei nostri
istanti perché vogliamo essere come te.
Ciò che temiamo è il momento che si biforca
che lascia essudare tutto, il momento
in cui ci alziamo nudi, senza vesti né maschere
in piedi, nella nostra singolarità.
*
Il giardino in collera
Nel crudo oscuro giardino in collera
della carne e del sangue, sui neri meridiani
di questa anatomia strappata dalla mente
e rubata all’anima a cui è annodata
grazie a cui spirava la vita
prima di spirare, come sappiamo:
cosa fa il viandante? cosa può il giardiniere?
La lettera è morta: ci resta il grido
l’urlo dell’essere, un’onomatopea
e l’appello scheggiato di un gesto senza
speranza. Gli uomini delle grotte, rispetto a noi
possedevano il genio della grazia e della conversazione.
Armel Guerne
L'articolo “Ci resta il grido”. Armel Guerne: il poeta dei mulini a vento,
l’amico di Cioran proviene da Pangea.
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Ha la faccia del predestinato, Willis Barnstone, il patriarca della poesia
americana, ha una faccia di cera, che puoi modellare a tuo piacere, che può
prendere qualsiasi forma. Nato a Lewiston, Maine, nel 1927, finì su un giornale,
il “New York Daily News”, la prima volta, per caso, da bambino: invitava Babe
Ruth, il leggendario giocatore di baseball, a una raccolta fondi per gli orfani,
per gli sfortunati dei quartieri infimi. Quarant’anni dopo, lo vediamo al
braccio di Jorge Luis Borges, a Buenos Aires. Lo scrittore argentino, arso da
cecità, ha il solito sguardo, nei labirinti dell’invisibile; Willis fissa la
camera, perplesso, pare uno Zelig; indossa un completo bianco, il registratore a
tracolla.
Lavoreranno insieme a lungo, per un paio di decenni: Barnstone accompagnerà
Borges in un importante ciclo di conferenze negli States, ad Harvard, alla
Columbia, a Chicago; ne sortì un libro, Borges at Eighty: Conversations, passato
in Italia come Conversazioni americane (Editori Riuniti, 1984). Secondo
Barnstone (in: Borges the Poet, a cura di Carlos Cortínez, The University of
Arkansas Press, 1986), Borges è un Poet of Ecstasy: “Per quel che posso capire,
Borges è un composto instabile, un composto misterioso, che cerca
incessantemente di trovare la condizione stabile, la cifra o la formula o la
chiave della propria essenza, ma è destinato a eterna metamorfosi. Muove cioè
dall’entasis (essere in sé) all’ekstasis (essere altrove)”. Amava la “notturna
attività del poeta cieco”, fonte, per i lettori, di abbagliante chiarità.
Non è difficile capire perché a Borges piacesse quell’americano allampanato,
all’apparenza inerte, dal corpo salamandra. Conosceva lo spagnolo – uno dei suoi
primi lavori è una traduzione dai testi di Antonio Machado –, aveva studiato in
Messico e in Francia, aveva insegnato in Grecia: le sue versioni da Saffo –
uscite in origine nel 1965 – vengono rieditate ancora oggi. Soprattutto,
Barnstone, a differenza di altri poeti, esperti geologi del proprio io,
‘specialisti’ dei fatti loro, aveva una mente oceanica: era stato in Cina – da
lì, le traduzioni da Wang Wei –, lo affascinavano i perigli del ‘religioso’. Nel
1972, per la New Directions di James Laughlin, aveva firmato una notevole
edizione dei Poems of Saint John of the Cross. Le indagini nella letteratura
spagnola non lo abbandoneranno: negli anni, Barnstone traduce il poeta
agostiniano Luis de León (1979), Vicente Aleixandre (1981), Quevedo, García
Lorca e Miguel Hernandez (in: Six Masters of the Spanish Sonnet, 1993). Fra i
suoi libri di poesia ricordiamo From This White Island (1960), China
Poems (1977), Algebra of Night (1998), Life Watch (2003); l’ultimo libro
lirico, Moonbook and Sunbook, è edito nel 2014.
È pressoché impossibile districarsi nell’amazzonica bibliografia di Barnstone,
un poligrafo che non teme fatica, un poligrafo che odora di Himalaya; su Borges
ha scritto un grazioso pamphlet, With Borges on an Ordinary Evening in Buenos
Aires: A Memoir (1993), in cui, tra l’altro, rievoca un sogno narratogli dal
grande scrittore argentino. “Erano i giorni della ‘Guerra sporca’, le bombe
esplodevano in città; arrivai da Borges, lo vidi sconvolto, mi raccontò un
sogno”. Quel sogno è alla base di un racconto borgesiano, La memoria di
Shakespeare, che reca, a sua volta, lo stigma dell’incantesimo, del gioco di
prestigio. Ne riparleremo.
Molti anni dopo – il testo è raccolto nell’antologia Mexico in My Heart,
Carcanet, 2015 – Barnstone ha trasfigurato il suo legame con Borges in una
poesia dai molti sigilli, Borges and His Beasts:
> “Qualcosa è sbagliato nel tuo volto. Non è
> quello di un vecchio, ma di uno che non cresce.
> Nonostante i grigi capelli e l’occhio cavo come una tazza,
> morto, e l’altro, grigia trama di tumida nebbia
> dove un cervo bianco corre e scompare o lampeggia
> blu, in quel sogno dove hai dimenticato che si muore,
> e progetti un alfabeto di luce che faccia fibrillare
> la sfera del cuore. L’oscurità è sparita e ora devi
> sorridere come un bimbo. Succhi l’antica parola norrena
> che ti offre il cielo. Ma sei solo e sei assurdo
> e sai che c’è qualcosa di sbagliato. Viso da bimbo
> che ride, sembra un dente, l’occhio è un fiume
> perché ha conosciuto la pantera che non muore mai”.
Forse su suggerimento di Borges, Willis Barnstone s’inabissa nella Bibbia,
esplora lo gnosticismo, studia l’ebraico e l’aramaico. Le traduzioni degli
apocrifi, degli pseudoepigrafi e dei manoscritti del Mar Morto convergono in The
Other Bible (1984); nel 2003, insieme a Mervin Meyer raccoglie come The Gnostic
Bible i testi della tradizione gnostica cristiana, mandea, catara, ebraica. Il
suo The Restored New Testament (2009), che riesuma le fonti dei Vangeli canonici
e accoglie i cosiddetti Vangeli gnostici, è elogiato da Harold Bloom: “allo
stesso tempo, è un’eloquente, vivida traduzione dei vangeli e dell’Apocalisse e
un superbo atto di restituzione, di restauro”.
Nel 2004 ha tradotto i Sonetti a Orfeo di Rilke, il libro della vita.
> “Ho iniziato a scrivere versi nel 1947, dopo aver letto i Sonetti a Orfeo di
> Rilke in edizione bilingue. All’ultimo anno di università, cominciai a
> maneggiare il tedesco. Il libro di Rilke fu fondamentale per farmi capire che
> in poesia si potevano esprimere concetti filosofici – fu Rilke a consegnarmi
> alla poesia”.
C’è una generosità impulsiva in questo poeta traduttore, che non teme
l’avventura, l’avventatezza, la capriola e lo schianto. I suoi miracolosi
repertori antologici – A Book of Women Poets from Antiquity to Now, 1980; The
Literatures of Asia, Africa, and Latin America, 1998 – sono un invito al
viaggio, un monito ai poeti: andate lì dov’è l’ignoto, scavate, scoprite –
perdetevi, semmai, e sia bello il vostro essere candele nella tenebra.
Il poeta centenario ha attraversato tempi e poeti, volti e monoliti; nelle sue
mani, pari ad anfore, convergono i millenni, dal vello pieno. Opera di
mungitura, allora, di chi sa i proventi del coltello, di chi sa imboccare il
prossimo.
***
Il bene
Primo mattino, luna sulla landa
a cerchio gli uccelli di Ur, prima che
il diluvio lordi il ricordo della coppia
bandita dalle mele e dal fatale fuoco
del sangue: Adamo ed Eva a passeggio
nel ghetto giardino, accerchiano l’albero.
Non sanno l’incendio che scintilla tra
i corpi, non sanno leggere né parlare
conoscono la notte e il meriggio, gli sfugge
l’oscuro che non ha zenit. Adamo, Eva,
bestie buone, brade all’alba del globo,
cieca gente, come noi, all’apocalisse.
Sondano il sole, che irradia morte da un albero
rosso. La luce infuria, analfabeta – loro, se ne vanno.
*
L’usignolo
Benché l’orrore dell’usignolo
il sacro usignolo dall’inascoltato canto
che stride invisibile nella tormenta,
oltre l’albero delle stelle, sia solo un verbo
o una longitudine epistemologica,
è lui a svegliarmi, all’alba, l’occhio
inumato di croste, prima dell’estasi
del giorno. L’orrore non è mai distante:
l’arida biologia lede la speranza degli insetti:
la falena che intrappola la luna, il ronzio
della solitudine nell’ansimare dell’aria,
la trama dei vermi volanti. Eppure, è sempre
con me il segreto dell’usignolo, che mi illude.
Invisibile, anche io sono ancora qui.
*
In cammino
Cammino sempre: anche se la strada è corta
i passi sono infiniti. Qui
in Canada, le oche respirano lo stesso dolore
artico che aleggia nella mia anima introvabile,
ma le oche non sanno il freddo, volano alte
dalla Patagonia gaucho. Sono un uomo di carbone
e ardo sotto quegli uccelli dagli occhi di fuoco
intrappolati in abitudini elettriche.
Respiro il verde cielo – finché non mi coagulo.
*
Rendezvous
Papà, sei tornato stanotte.
Anni dopo il Tibet. Il viso lampeggia
e sorride tra i camion. Accendi
un fiammifero. Mi alzo dal letto
e siamo sulle colline dove nessuno
può vederci, dove non c’è testimone.
Vorrei darti il mio iPad. Sei un uomo
moderno. Non c’è bisogno del cappello.
I tibetani ci salutano. I monaci, come te,
non vogliono morire giovani. Bruciano
i loro corpi per protesta. Anche tu sei
logoro dal rogo della tristezza. Ora siamo noi
a dover varcare le colline. Il tempo ti ha reso
dolce, esatto. Per venire qui hai venduto
la casa in Colorado. Il cielo è nero
ora. Ci guida il sole interiore.
*
Dai “Sonetti a Orfeo” di Rilke
Silente amico di vaste distanze, odi
il tuo respiro che divarica le stanghe dello spazio.
Perduto tra le cinghie di campanili in rovina, suona,
permetti che rintocchi. Ciò che di te si nutre
trarrà il suo dominio da questo pasto.
Percorri la trasformazione, arretra
in essa. Cosa ti frena? Cediti. Se
bere è dolore, sii vino.
Sii notte, sii la sconfinata forza
e lascia che incroci i tuoi sensi.
Sii il senso di questo strano accordo. Va’ –
e se la terra svanisce, se ti ha dimenticato
sussurra al silenzio della terra: Io scorro.
E all’acqua che scorre: Io sono.
*
Da San Giovanni della Croce
Vivo ma in me non vivo
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
In me non vivo
senza Dio non posso vivere;
a lui o a me me stesso non
posso dare, dunque a che vivere?
Agonia di mille morti
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
Questa viva che solo vivo
è di vita ruberia, nulla se
non perpetua morte – nessuna
scappatoia se in te non vivo.
Dio, ascoltami, parole di verità
la mia: questa vita non voglio
muoio perché non muoio.
Il pesce pescato dal mare
ha la sua consolazione:
morte di breve durata
che infine reca sollievo.
Nessuna morte è più convulsa
e orrenda di questa mia patetica vita.
Più vivo, più muoio.
Provo sollievo soltanto
quando ti vedo nel sacramento
sprofondo nello sconfinato sconforto
privo della tua dolce compagnia.
Ora, tutto pulsa di dolore:
voglio – e non posso – averti
muoio perché non muoio.
**
Da Saffo
Lampi
se ci arride la sorte
ambiremo al porto
alla nera terra
Le raffiche di vento
fiaccano i marinai
che sperano
Nell’asciutto
nello sbarco
e scollegarsi
dal carico
che galleggia
Fatica molta
prima dell’approdo
sulla cruda terra
*
L’invito è per uno
non per tutti
al banchetto
che inaugura Era
perché vasta
sia
la mia vita
*
Silente
Zeus
dallo scudo di pelle di capra
e di Citera
ti prego
ti offro un cuore
saturo di bene
come nei giorni in cui lasciasti Cipro
ascolta la mia preghiera
vieni a me
lima le mie durezze
*
Espero, conduci a casa le rovine
dell’alba
conduci a casa le pecore
accompagna a casa la capra, alla sua casa
la bimba – c’è una madre che la aspetta
*
Imitano la morte
le colombe: quando l’anima
si fa fredda, le ali pendono
ai loro fianchi
*
No – non avrei potuto
credere di afferrare il cielo
con queste nude braccia
*
Verginità, verginità, te ne sei andata
lasciandomi sola.
Da te non verrà più – mai più mi vedrai.
*
Dimmi della sposa dagli stupendi
piedi – che Artemide
la figlia di Zeus drappeggiata di viola
deponga la sua ira
Venite, Grazie, venite Muse di Pieria:
il cuore è gonfio di incanti
e limpido sgorga l’inno
lo sposo infastidisce le dame
mentre l’Alba dai calzari d’oro
posa una lira sui loro capelli
*
Sortiranno inni
dalle vergini
tessitura d’amore
tra te e la sposa
dalla porpora veste
Svegliatevi, svegliate
i giovani della vostra età:
questa notte non dormiremo
saremo noi a destare
l’usignolo dalla vorticosa voce
**
Dal Vangelo di Matteo
Ecco: uscì il seminatore alla semina
e di ciò che seminava, seme finì in strada
uccelli calarono e mangiarono.
Parte su petraia, dove era poca terra
e seme subito sbocciò
perché non s’inabissava la terra.
Ma quando fu alto il sole
seccarono le piante:
prive di radici appassirono.
Parte finì tra spine e spine
finirono per soffocarlo.
Ma parte cadde su terra buona
e venne il frutto
il cento il sessanta il trenta
chi ha orecchie atte all’ascolto, ascolti.
Traduzioni e testi di Willis Barnstone
L'articolo “Un alfabeto di luce”. Willis Barnstone, il patriarca della poesia
americana proviene da Pangea.
Nel 1952, per la Harvill Press, Roy Campbell, l’esagitato poeta di Durban,
Sudafrica, pubblica Poems of Baudelaire, la propria versione di Les Fleurs du
Mal. Il poeta – ascendenze scozzesi, studi distratti a Oxford, abile nella
caccia, “bellissimo, enorme, ingenuo, docile, selvaggio”, l’avrebbe detto, anni
dopo, Evelyn Waugh – compiva cinquantuno anni; sarebbe morto poco dopo,
nell’aprile del 1957, di schianto, in un incidente d’auto, nei pressi di
Setúbal, Portogallo, dove si era trasferito da tempo con la famiglia. Le sue
spoglie riposano a Sintra, nel cimitero di São Pedro, di fronte
all’oceanico: oceanica, in effetti, e senza ancoraggi, è l’opera di questo poeta
che fonde la facondia visionaria di Blake agli oratori irti di piume, lance e
danze degli Zulu, di cui si sentiva confratello.
Nella breve introduzione al ‘suo’ Baudelaire, Roy Campbell – con il solito tasso
di alcolica sbruffonaggine – si tesse l’agiografia:
> “Dopo l’intrepido successo delle mie versioni di Giovanni della Croce, ho
> deciso di tradurre un peccatore senza scrupoli, non meno credente, tuttavia,
> anche nei momenti di ribellione assoluta e di assoluta blasfemia, di quel
> Santo. Leggo Baudelaire da quando ho quindici anni, è stato nella mia bisaccia
> durante due guerre, l’ho amato più di qualsiasi altro poeta. Ho tradotto
> Giovanni della Croce perché mi ha salvato miracolosamente la vita, a Toledo.
> Traduco Baudelaire perché ha vissuto la mia stessa vita: i peccati, i rimorsi,
> gli ostracismi, la povertà, la stessa disperata speranza di una
> riconciliazione…”.
Secondo George Steiner, Roy Campbell, insieme a Ezra Pound, è il più folgorante
poeta-traduttore in lingua inglese del Novecento. Insieme a Ezra Pound, è anche
il poeta più ostracizzato, malmenato, minato di fraintesi. Thomas S. Eliot – il
più arguto lettore di Baudelaire di quella generazione – amava, con rispettoso
turbamento, Roy Campbell: nel 1930 gli aveva pubblicato, per la Faber &
Faber, Adamastor; nel 1946 fu la volta di Talking Bronco.
La prima delle due guerre menzionate da Campbell nell’intro al Baudelaire è la
guerra civile spagnola. Cattolico fervente, avventuriero imperiale, Roy Campbell
è l’unico tra gli intellettuali anglofoni a parteggiare per Franco: cerca di
arruolasti tra i Carlisti; di fatto, non prenderà parte attiva al conflitto. Nel
luglio del 1936, a Toledo, aveva assistito al massacro: le truppe comuniste
predano e uccidono diciassette monaci del Carmelo dov’era ospite il poeta, con
la moglie. Campbell riuscì a salvarsi, salvando dalla razzia alcuni codici di
Giovanni della Croce lì conservati. I Poems of St John of the Cross vengono
tradotti e pubblicati da Campbell nel 1951; piacquero molto a Jorge Luis Borges,
che cominciò ad apprezzare “quel grande poeta scozzese, incidentalmente
sudafricano”.
Durante la Seconda guerra, il ‘fascista’ Roy Campbell – ben più antifascista di
molti, tiepidi intellettuali ‘di sinistra’ – fu arruolato nell’Intelligence
Corps; poi inviato a Nairobi, incluso tra i King’s African Rifles. Un incidente
in moto lo mise fuori ruolo: passò l’ultima parte della guerra sulla costa
kenyota, in operazioni atte a smontare l’azione dei sommergibili nemici. A
Londra, durante il “Blitz”, conobbe Dylan Thomas: diventarono fraterni compagni
di colossali bevute. Ogni tanto, si univa agli ‘Inklings’: a Tolkien – che era
nato in Sudafrica come lui – stava simpatico quel poeta sopra le righe, dal
talento smodato, che da ragazzo sfotteva gli snob del Bloomsbury e ora faceva a
cazzotti contro tutti; C.S. Lewis, simpaticamente, malsopportava l’ego del
“poeta e soldato”. Nel 1949, durante un incontro pubblico, Campbell si scaglierà
contro Stephen Spender, che rappresentava, ai suoi occhi, il côté tipico degli
intellettuali della sinistra anglofona: pallidi, pavidi reggenti della poesia
contemporanea, assertori di un patetico nepotismo. Gli spaccò il naso. Spender –
comunque, un cavaliere – si rifiutò di denunciarlo: “è un grande poeta e i
grandi poeti devono essere capiti”. È vero: Flowering Rifle, “a poem from the
battlefield of Spain”, uscito nel 1939, grandguignolesco poema sulla guerra
civile spagnola, è ascrivibile, più che altro, a un documento letterario
‘dell’altra parte’ – letterariamente, è goffo, tonitruante, malrassettato. Più
che altro, garantì a Roy Campbell un pervicace ostracismo. Quanto a lui –
gioviale, ingenuo, sempre in cerca di battaglie – percorreva la provocazione.
Strenuo oppositore del sistema fratricida dell’apartheid, nel ’53 ricevette una
laura in onore dalla University of Natal. Denunciò il “suprematismo bianco” del
primo ministro sudafricano, D.F. Malan; nello stesso tempo, diede dello “zombie
ridacchiante” a Franklin Delano Roosevelt, reo di aver mollato a Stalin l’Europa
orientale. Churchill gli pareva un pachiderma.
Intrattabile, inarginabile Campbell: nel 1924 aveva esordito, per Jonathan Cape,
con The Flaming Terrapin, imponente poemetto dal genio ‘aggressivo’, fuori
classifica rispetto ai libri dell’epoca, al contempo, inno sciamanico, iliade
africana, leviatano lirico. In Italia, cominciamo a colmare la lacuna soltanto
ora: l’ultimo numero della rivista “Poesia” (n.31, maggio/giugno 2025, Crocetti
Editore) dedica la copertina a Roy Campbell, “Il poeta guerriero”, pubblicando
una porzione di The Flaming Terrapin tradotta da Andrea Temporelli (il poema
sarà edito, prossimamente, dalle edizioni Magog).
Nel 1952 – a testimonianza della mente multiforme del poeta – Campbell pubblica
un poderoso omaggio a Federico García Lorca, An Appreciation, With Selected
Translations of His Poetry. Campbell idolatrava il poeta repubblicano, vilmente
fucilato e oltraggiato dai nazionalisti nel ’36. Alcuni dicono che le sue
versioni di García Lorca siano tra le più belle uscite nel mondo inglese. Sul
“New York Times”, il 21 dicembre del ’52, Dudley Fitts firmò una partecipe
recensione:
> “Pare che Roy Campbell sia nato per scrivere questo piccolo, esplosivo
> libello. Egli stesso possiede quelle qualità ‘romantiche’ che rintraccia in
> Federico García Lorca – avventatezza e galanteria, un maquillage andaluso di
> cruda vita e misticismo, il genio della poesia, soprattutto –: difficilmente
> potremmo immaginare coincidenza più felice tra un autore e il suo soggetto”.
Già: l’erculeo Roy Campbell, autore di una lirica tra le più vertiginose e
inavvicinabili del secolo, possedeva un’energumena generosità. Lo hanno dipinto
come un Ciclope – per la cecità politica, per la cieca ira –, era un uomo buono,
un cavaliere medioevale. Sognava di essere un Centauro: lo fu – all’incirca.
**
Da Charles Baudelaire
Corrispondenze
La natura è un tempio, ogni pilastro
getta, a tratti, vaghi sussurri. L’Uomo avanza
nella foresta dei simboli, strani e solenni,
che lo mirano con sguardi familiari.
Dilaga l’eco, si mescola e trasfonde
finché nel profondo oscuro unisono si confonde
vasto come la notte, come la cupola del mezzogiorno –
così si embricano profumi, suoni, colori.
Profumi freschi come il vello dei bimbi
come i violini, dolci come i verdi tumidi prati.
Ricchi, complessi, trionfanti, altri rotolano
insieme alla vasta gamma delle infinite non rifinite
cose: ambra, muschio, incenso, resine, ciascuno
canta il trasporto dei sensi e dell’anima.
*
Il nemico
Fu tempesta oscura, selvaggia, il mio giovane
giaculìo: vi sfrecciava un sole abbagliante.
Tuono e pioggia hanno devastato tutto
il mio giardino è avaro di rosati frutti.
Ora è l’autunno della mente
e vanga e rastrello raspano la terra
per salvare frantumi dei miei campi
allagati, dove l’acqua insudicia una tomba.
Chissà se i fiori prefigurati dai miei sogni
troveranno, su questa dilavata terra, per una malizia
almeno, il nutrimento mistico che li farà germogliare.
Il tempo divora la nostra vita, è brutale!
L’oscuro nemico rode le radici del cuore
e cresce sempre più forte sulla nostra chioma.
*
Sopra il ritratto di Tasso in prigione di Delacroix
Il poeta è malato e mezzo nudo:
calpesta un manoscritto nell’oscura cella
e fissa con terrore la scala dove
il suo spirito, infine, crollerà.
Risate inebrianti sbracano quell’aia
lo invitano allo Strano e all’Assurdo.
Intorno a lui, sguainate le orribili figure
del Dubbio e del Terrore, le multiformi.
Questo genio recluso in sotterranei pestilenziali
queste grida, il ghignare di spettri che si contorcono
che si accalcano intorno a lui, beffardi,
questo sognatore destato dalle urla del proprio incubo
è il tuo emblema, Anima sorta dalla nebbia.
Attorno a te la Realtà erige il suo muro e la sua museruola.
*
Da Federico García Lorca
Vasto fantasma d’argento, il vento di mezzanotte
spira e spalanca la mia ferita antica
con la sua grigia mano: se ne andò
e svenni, preda di un triste desiderio.
Questa ferita mi darà la vita: da essa
germoglierà la luce, il sangue che senza
tema sgorga – uno spiraglio dove l’usignolo,
muto, troverà un bosco, un nido e un addio.
Oh, che dolce litania fa tintinnare la mente!
Sul fiore più modesto deporrò il mio dolore
dove fluttua, senz’anima, l’orgoglio della tua beltà.
Allora, il fiume mercenario si tingerà
di rosso, mentre il mio sangue scende
lungo le fragranti selve, nell’aura della rugiada.
*
Adamo
Presso l’albero del sangue, il mattino stilla
rugiada e il neonato urla.
La sua voce mette un vetro nella ferita
e cosparge le finestre con diagrammi di ossa.
Il giorno ha raggiunto a luce costante
i limiti della favola: evadi
dal tumulto del sangue e vola
verso la mela, verso la sua fioca ombra.
Adamo, con quella febbre d’argilla,
sogna che il bimbo galoppa verso di lui –
raddoppia il puledro sangue nelle sue guance.
Ma un altro oscuro Adamo sogna: anela
una luna di pietra, neutra, dove nulla germoglia
dove il figlio della gloria sarà bruciato.
*In copertina: Augustus John, The Poet: Roy Campbell, ca. 1925, Carnegie Museums
of Art, Pittsburgh
L'articolo “Un invito all’Assurdo”. Roy Campbell, poeta guerriero proviene da
Pangea.
Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
L'articolo “Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett
e Suor Juana Inés de la Cruz proviene da Pangea.
Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto,
si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del
capitolo 5; questa è traduzione alla lettera:
> “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a
> Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.
Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e
interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la
brocca del cuore.
Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette
udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come
chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?
Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto.
Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.
Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve
– siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare
l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature;
fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al
mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come
poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che
sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha
insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il
povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet
elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.
Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a
un passo.
Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la
terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure
il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la
Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).
Già. Ma… quali parole?
“Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in
quiete. Veglia silente.
Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che
è in perenne veglia?
Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito
che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono
le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la
tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in
simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca
(18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!”
(Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν).
Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo
– petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera
da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare
l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.
Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo:
> “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe
> parole”.
Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si
ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso,
vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo
ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile;
per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli
angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui
invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace
di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev
Šestov,
> “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il
> ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”.
Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita
ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure
ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i
sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio:
nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più
neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci
imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo
caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio
concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante
ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.
Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:
> “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti
> impaurisca Dio”.
Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del
male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo
l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al
male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano.
Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo –
circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni
tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire
Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il
giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo
mutando son questi”.
Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio?
Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo
– inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso –
per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario
di inganni.
> “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine,
> il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole
> umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo:
> l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”.
>
> (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).
Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti
sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità
dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il
carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo
umano, la lingua divina.
Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella
parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si
sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla
Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo –
che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine
si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.
La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.
Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei
principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle
cose’.
Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i
rapporti con il dio, per sempre.
Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule
l’informe.
Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna
fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.
Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli
esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che
scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.
Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci?
Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con
la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si
infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.
E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria
lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.
Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo –
ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma
– segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora
a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è
l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la
propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel
giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio
(Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio”
comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è,
per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un
rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché
il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto,
carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.
Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino,
atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.
All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui
rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione.
Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in
legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che
ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una
fioritura. Parole come foglie che sventagliano.
Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non
racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare
Dio – o posso perderlo.
Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.
Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli
stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida
nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.
Spogliarci del linguaggio.
L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio
nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.
Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica,
della cimice, del capriolo.
Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.
Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire
tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il
respiro.
**
Da “Qoelet”
9
Nel cuore ho sperimentato questo:
le opere dei giusti
l’estremismo dei santi
tutto è tra le dita di Dio
l’uomo non sa perché ama
ignora il raduno dell’odio
Stessa sorte per tutti
il giusto e il vile
il puro e l’impuro
chi fa sacrifici e chi dissacra
il buono e il peccatore
chi giura e chi scongiura
È male tutto
sotto il sole
stessa sorte
per tutti
nel cuore dell’uomo
alligna il male
follia nei suoi lembi
il fine è la morte
Speranza tra chi fluttua
nella flotta dei vivi:
un cane vivo è meglio
di un leone morto
I vivi sanno di dover morire
i morti non sanno nulla
privi di salario – memoria
tra i sali dell’oblio
Ciò che hanno amato
i motivi della lotta
e della gelosia: tutto
è cenere, pericope del lutto
per loro non c’è più posto
nel mondo arreso al sole
Allora:
godi e mangia
bevi il tuo vino
divora i cuori
Dio gratifica
le tue opere
Indossa bianche vesti
olio purifichi il tuo capo
La vita è vana: glorifica
i giorni con la donna che ami
unico sconto alla fatica
al dolore sigillato dal sole
Finché il corpo ti aiuta agisci
non c’è opera né sapienza
nello Sheol – tutto è insensato
tra le ombre dove andrai
Così è sotto il sole:
non va ai capaci la gara
la guerra non la vincono i forti
il pane non lo morde il santo
la ricchezza non sorride ai
geni
né agli scaltri la grazia –
su ogni cosa è il dominio del caso
L’uomo ignora la sua ora
come pesci presi tra perfide reti
come uccelli intrappolati dai lacci
il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque
Verità sgravata dal sole:
Misera città
miseri uomini
la assedia un re
onnipossente
aureola di mura
Un santo di scarsi natali
salva la città ma nessuna
memoria lo onora –
E mi dico:
preferisci la sapienza
alla forza – eppure
il santo impoverito dal fato
è sfottuto – le sue
profezie negate
Deglutisci con cura
le parole del santo
ignora le urla
di chi alleva viltà
Anteponi la sapienza
alle armi – ma una
breve colpa avvelena
un grande bene
*Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet.
Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025
*In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915
L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
proviene da Pangea.
Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta
all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The
Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi.
Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del
Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci,
alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era
andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato
dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in
autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la
guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai
presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a
cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati
Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini
delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un
sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia,
cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti
autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di
vento e metropoli nell’urlo.
Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica
il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla
poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San
Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario
“Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di
Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei
Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’,
Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama,
affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un
uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore.
Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di
quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente:
autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva
tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the
Chinese (1956).
Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth
ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e
Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has
always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/
Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944)
dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a
Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o
meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di
disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori
culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel
tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer,
“l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci –
Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha
dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona
possa forzarla verso l’universale”.
Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che
raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James
Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema
di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H.
Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne,
Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non
c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in
Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i
versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile
fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le
pagini introduttive:
> “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il
> collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore
> sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue,
> spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse
> mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti.
> Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua
> spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una
> stirpe di eroi”.
In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi,
spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake
e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e
della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio
sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco
Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce
nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di
Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto
poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a
una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme,
Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha
scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo
dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci,
il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e
delle lettere di Van Gogh.
In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a
Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale
pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di
Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati
celebrare.La celebreremo.
Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo
contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella
poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce
l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il
suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa
grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura
tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.
In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale:
le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago,
l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.
Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito
al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione
di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New
Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di
una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a
quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli
di carta, da mollare ai venti:
> “Fare l’amore con te
> è come bere acqua di mare.
> Più bevo
> più sete mi setaccia
> niente può placarla, se non:
> bere il mare per intero”
> “E un giorno, sei pollici di
> cenere sarà ciò
> che resta del nostro incendio
> mentale, di tutto il mondo creato,
> di questo amore, l’origine
> la dissipazione”
Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva
Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth
eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici.
**
GIAPPONE
Yosano Akiko
(1878-1942)
Neri i capelli
in mille rivoli annodati
annodati i capelli annosi
annodati nodosi ricordi
delle nostre infinite notti d’amore.
*
L’autunno sfiorisce:
nulla dura per sempre.
Il fato sfata le nostre vite.
Accarezza i miei capezzoli
con le tue mani da manovale.
*
Cogli i miei seni
squarcia ogni mistero
un fiore esplode
è cremisi e profuma.
*
Fukao Sumako
(1895-1974)
Casa luminosa
Che casa luminosa:
nessuna stanza è resa al buio.
La casa si erge alta
sulle scogliere, scandita
come un faro.
Quando arriva la notte
depongo una luce
una luce più grande del sole e della luna.
Pensa
al mio cuore che si flette
quando con dita tremanti
accendo un fiammifero nella sera.
Sollevo il petto
inspiro ed espiro al rumore dell’amore
come la figlia del guardiano del faro.
Questa è una casa luminosa.
Voglio creare un mondo
che nessun uomo può costruire.
*
Noriko Ibaragi
(1926-2006)
La mente di una bambina
Ecco cosa aveva in mente una bambina:
perché la schiena delle mogli
odora così forte di magnolia
o di gardenia?
Cos’è
quel futile velo di nebbia
sulle spalle delle mogli?
Ne voleva avere
quella meravigliosa cosa
che alle vergini è vietata.
La bambina crebbe
divenne moglie – fu madre.
Un giorno capì:
la tenerezza
che si ammucchia sulle spalle delle mogli
non è che fatica
di amare – amare giorno dopo giorno.
*
CINA
Huang O
(1498-1569)
Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite”
Hai tenuto il mio fiore di loto
tra le labbra, hai slabbrato
il pistillo. Abbiamo rubato
un frammento del magico corno
del rinoceronte: insonni
per tutta la notte – per tutta
la notte la cresta leonina del gallo
si è fermata. Per tutta la notte l’ape
si è incuneata tremando tra gli stami
del fiore. Oh mio dolce gioiello!
Soltanto il mio signore domina
sul sacro stagno di loto:
ogni notte fa esplodere in me
i suoi fiori di fuoco.
*
Sun Yün-Feng
(1764-1814)
Sulla strada, attraversando Chang-te
L’anno scorso ho attraversato questo luogo:
mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.
Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu.
Da una locanda con il tetto di paglia
si snoda il fumo del tè.
Le sabbie, a riva, interrano
la bianca luna: il fiume sussurra.
I salici attendono il verde
della ventura primavera.
I versi di una poesia mi lacerano.
L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.
*
Viaggio tra le montagne
Il vento occidentale invita alla nostalgia:
la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.
Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.
Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa
come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno.
Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa.
Mentre ammiro il fiume, un brivido
d’invidia per il pescatore che siede
in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.
*
Qiu Jin
(1875-1907)
Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu
Sono sola con la mia ombra
mormoro e scrivo strani
caratteri nell’aria, come Yin Hao.
Vino e malanni non mi spezzano
non soffro per chi non c’è più:
per avere ragione del mio cuore
Li Ch’ing-chao ha messo sotto
torchio una città intera.
Nessuno può capirmi:
le mie visioni superano quelle
degli uomini che mi stanno al fianco –
ma sopravvivere è impossibile.
A cosa serve il cuore di un eroe
in abiti femminili?
Il mio destino è il rischio:
imploro il Cielo – le eroine
del passato hanno mai
conosciuto l’invidia?
L'articolo “Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth
proviene da Pangea.