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“Il canto del Nulla”. Su Roger Munier: un poeta-pensatore tra Heidegger e Celan
È stato Roger Munier, munifico in amicizia, a far incontrare Martin Heidegger e René Char. Era il 1955, Jean Beaufret aveva invitato Heidegger a un convegno, Qu’est-ce que la philosophie?, a Cerisy-la-Salle; Jacques Lacan avrebbe ospitato il filosofo tedesco a casa sua. Ne sortì, tra estremi, un legame possente. Undici anni dopo, Char invita Heidegger a Le Thor, in Provenza, a parlare di Eraclito.  Nato a Nancy il 21 dicembre del 1923, Roger Munier aveva incontrato Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta Nera, nel 1949: aveva ventisei anni, cominciò a tradurre la Lettera sull’“umanismo”, uscita, infine, nel ’53 sui “Cahiers du Sud”. Si era avventurato in Germania per sfidare, viso-nel-viso, quell’uomo che gli aveva in certa misura cambiato la vita. Heidegger, come sempre, maculato di sorrisi e di allusioni, fu cordiale, generoso, di quarzo.  Che figura straordinaria quella di Roger Munier: ha tenuto insieme mondi, spiriti, con l’arguzia di una merlettaia del pensiero; sì, proprio come una devota figura di Vermeer, sempre a distanza dal centro verminaio del quadro – per eccesso di sapienza –, sempre così azzurra.  Scoprì Heidegger mentre studiava teologia tra i Gesuiti: per un po’, Munier fu folgorato dall’ordine, stigmatizzato da una specie di conversione. Mollo tutto nel ’53, impegnandosi, da allora, nei ranghi dell’Otua (Office technique pour l’utilisation de l’acier), organizzazione legata all’industria siderurgica, per cui ricoprirà alti incarichi. In Francia, si legò a Paul Celan; riceveva biglietti affettuosi da Emil Cioran. In Giappone, si innamorò della poesia orientale: ne amava l’asciuttezza, la tirannia dello sguardo, quelle immagini al contempo brusche come un colpo d’ascia, tenere come un fiore. La passione fermentò in un libro, Haiku, pubblicato da Fayard nella collana di documents spirituels “L’espace intérieur”, diretta proprio da Munier; tra i titoli in catalogo spiccano un saggio di Thomas Merton sul Taoismo, la Guida spirituale di Miguel de Molinos, il padre del “quietismo”, la biografia di Milarepa tradotta da Jacques Bacot (attualmente in catalogo Adelphi) e un libro di Julius Evola sullo yoga tantrico. A corredo del libro, eletto alla bellezza, un sublime saggio di Yves Bonnefoy, Du haiku.  Negli anni, Munier, figura tanto centrale da restare elusiva ai più, eletta da un istinto allo straniamento, si trincerò dietro un fortino di autori-totem: a lui dobbiamo la traduzione in francese di Angelo Silesio e di Antonio Porchia, di Roberto Juarroz e dei libri più importanti di Octavio Paz. Per i “Cahier de l’Herne” voltò nel proprio idioma Che cos’è metafisica?, il celebre lavoro di Heidegger; per le edizioni Fata Morgana ha tradotto e commentato l’ottava delle Elegie duinesi di Rilke: lo affascinava il punto di “completa lacerazione” della poesia, quello in cui “la visione si apre, finalmente, senza schemi né limiti, e lo sguardo, liberato, si effonde nella profondità dell’animale”.  Nel 1973 Gallimard aveva pubblicato L’Instant, indocile esordio poetico di Munier. Si legge, in quel procedere per frizioni e slogature grammaticali – che sorbite in calce all’articolo –, lo sgocciolio di Celan; soprattutto: i vagabondaggi nel linguaggio di Eraclito. Con “l’Oscuro” di Efeso Munier si confronta per anni: nel 1991 Fata Morgana pubblica un’edizione dei Fragments che, a dire di chi sa, resiste per aurea nitidezza. Anche qui: Munier è affascinato dal crollo del linguaggio, dalla sua imbestiata beatitudine, da una solitudine solare – scrive di una “parola-cosmo, il primo e ultimo dire di tutte le cose”. Come a dire aiuto – come a dire amore.  Autore di un’opera erratica, dal 1995 comincia a raccogliere i diari con il titolo simbolico Opus incertum(qualcosa esce per Gallimard, poi è gara tra diversi editori, per una mole di oltre tremila pagine; l’ultimo tomo, La Voix de l’érable, Opus incertum VII, Mars 1995 – Septembre 1997, è uscito quest’anno per le edizioni Arfuyen). Si tratta, scrive Munier, di “pensieri quotidiani che s’incastrano l’uno nell’altro con un certo disordine, non senza un movimento segreto che li governi… è un percorso da nottambuli”. Disordine, segreto, notte. Già: omaggiare il linguaggio nella sua disparità; romperne il carapace, essere capaci nel fuoco.  In questa tratta nell’aldilà della parola, è quasi naturale che Munier abbia ingaggiato una lotta senza quartiere con Rimbaud, con quel dire senza diaria, senza ricompensa. Nel 1976, per “Archives des Lettres modernes”, cura una inchiesta, aujourd’hui, Rimbaud…, che mette in fila pensatori, scrittori, poeti. Tra i tanti, partecipano Le Clézio e Bonnefoy, Derrida e René Char, che rinviene con un’illuminazione: > “Bisogna vivere Rimbaud, l’inverno, attraverso un ramo verde la cui linfa > ribolle e schiuma nel camino, nell’indifferenza di un fuoco di ceppi morti che > si inchinano”.  Naturalmente, all’alto consesso partecipò, avvolto in titanica stola, anche Heidegger; come sempre, portò il discorso in un altrove terribile: “Intendiamo con sufficiente chiarezza, nel dire che dice la poesia di Arthur Rimbaud, ciò che tace? Vediamo, già, l’orizzonte a cui è giunto?”.  Nessun punto di sutura tra noi e il linguaggio – dacché la parola esiste per scatenarci. Dunque: si dice per recidere (non per recitare, non per decidere).  Muore, infine, Roger Munier, nell’agosto del 2010, riposa a Xertigny, nei Vosgi, la terra degli avi; un bel sito è consacrato alla sua memoria. *** I privi di tutto Chi nomini – cosa?  Nulla ha nome il nome nomino. Il mare non conosce la tua musica – tu  ignori la sua È l’albero che freme al vento o il vento  che freme nell’albero? Chi si muove: albero o vento? Un corvo nero, aguzzo nel giorno opale artiglia l’opale.  Il brusio del torrente se nessuno lo intende è niente. Non esiste brusio non è che nulla. Ma urla.  Il canto  del Nulla. Predilige l’alba che nel suo imbelle chiarore tiene sotto chiave la notte.  Qualcosa viene il solo che viene e non viene porzione del nostro oblio.  Il tempo avviene infaticabile continuo come il divenire di ciò che viene.  Tutto è chiuso e si conferma nel centro della sua notte. Tutto ciò che si spalanca è ferita.  Il giorno non sfugge alla notte né la notte al giorno: ciò che esiste esiste perché sia annientato.  Il nulla non è il terribile: terribile è la lotta nel giorno della sua apparizione questa agonia che viene.  Cercò una parola l’ultima parola. Quella che metterà fine a quel dire  inutile e infinito. Soltanto una parola ha tale potere.  Niente  non c’è da dire su ciò che ci fa parlare.   Dicembre 1974 * Da La traccia Destituire. Strappare.  Nulla se non l’aleatorio eppure non è caos. Quando perdi il filo e insinuarsi non è più possibile quando l’ostacolo è massiccio compatto, continuo allora tocchi il continuo l’esattezza del continuo continuamente. Niente che possa vedere niente – è indubbio. Niente  è lì se non lo vedo.  Fissa… cosa? L’istante? No.  La figura. Quella che appare e sparisce nel volgere dell’istante.  Che rinvenga che ritorni dissotterrato il puro momento che tutto miracolosamente disfa – essendo sé (nello splendore) e dunque indistinto, fuso nell’unità perenne…  Il cielo si copre.  Remissione, rapimento.  Nel grigio del mare: il caglio del tempo.  Se viene, se è è nel deviare. È come decentrato e devi sporgerti per raggiungerlo. Nell’inatteso – di lato.  No, il sole in effetti non si leva né cala.  Nel ritrarsi della traccia appare, al di là di ogni designare. Insignificante apparenza: non è che se stesso. Perde perfino il nome.  L’uccello riceve la pioggia nel becco, nel cranio tesi verso ciò che precipita.  È pioggia? No: specie di crollo, l’impalpabile si effonde e affonda un venire, un avvento silente, dall’alto.  La pioggia, la pioggia… Come la fine di una distanza.  La gioia risaputa non è più gioia gioia non è – nulla  può essere identificato –  poi: identità comincia.  La pioggia cessa all’improvviso qualcuno la trattiene è riottosa, reticente. Poi: comincia a martellare ricomincia, incerta… Il tempo – cos’è il tempo? Tutto è lo stesso ed è  immobile, ma mai  un precedente.  Nuvole: grigia lega, lenta lana che nega, assolve la sera, svanisce.  ** Da Haiku Ah… poter essere                   un bambino il primo giorno dell’anno (Issa) * Mi sono voltato ma l’uomo si era già perso nella nebbia (Shiki) * Sovrasta il mare un sole ingabbiato tra rovi di nebbia (Buson) * Pioggia di primavera –                    e ogni cosa torna a splendere (Chiyo-ni) * Nel più lungo giorno                   muschio negli occhi                                     che fissano il mare (Taigi) * Ignaro del lignaggio del luogo                   un uomo taglia l’erba (Shiki) * Anche sulla legna ammassata per il fuoco nascono germogli (Bonché) * Prima che l’ipomea fiorisca, consumiamo il pasto: siamo umani (Basho) * Ho colto la peonia: stasera mi coglie una profonda nostalgia (Hokushi) L'articolo “Il canto del Nulla”. Su Roger Munier: un poeta-pensatore tra Heidegger e Celan proviene da Pangea.
September 8, 2025 / Pangea
“Eterno fuoco vivente”. Eraclito il pensatore Sfinge amato da Simone Weil
Nel dire frammento, in Eraclito, s’intende: frantume di vetro, punta di freccia, dardo al veleno – cosa che ferisce; che mutila.  Per questo Eraclito è il pensatore più audace del Novecento, il secolo mutilato, il secolo che ha fatto della mutilazione il proprio carisma. La bomba, il bombardare, mutezza nel mutilare.  (Mutilata Nike, mutilato Bacon, anime mutilate, incompiutezza, e dare a questa falce il nome primaverile) A differenza, ad esempio, della ferita, che è sempre uno spiraglio, è sempre una finestra: pensare all’icona del Crocefisso, ad esempio. La mutilazione non si risana, di quel grido non risuona benedizione da risorto. Il ferito accoglie; la mutilazione irrompe in orrore.  Eppure: dal mutilato tendere all’intero, all’uno che non è più. Mutilato: simbolo. Spezzare per ricomporre.   Secondo Giorgio Colli, Eraclito è il “più duro” perché “enuncia i suoi enigmi senza scioglierli”. All’agonismo dell’enigma – vince chi sa risolverlo, cioè: vanificarlo – segue l’agonia. Enigma è sfinge che uccide. Tutti sotto egida dell’enigma, sotto minaccia.  In realtà: sciogliere l’enigma, ovvero: spaccare le finestre. Non è un caso che il lavoro definitivo di Colli sulla Sapienza greca, il cui culmine è Eraclito, sia incompiuto, mutilato. Eraclito mutila. Scavo dal collage posto in Appendice all’Eraclito edito da Adelphi nel 1980: > “L’esperienza contemporanea contrappone il principio di vita al principio > della morte. Ma per la sapienza antica la morte è soltanto l’ombra lunga e > vacillante proiettata dalla vita, esprime la finitezza che sta nel cuore > dell’immediato. Ciò significa l’allusione di Eraclito che Dioniso e Ade sono > lo stesso dio. Freud contro Eraclito: chi ‘sa’ di più?” Eraclito – che per mutilata natura si offre al frainteso: un cranio può essere preso per cornucopia o brocca – impone i temi della contemporaneità: divenire, polemos padre di tutte le cose, coincidenza degli opposti, esistere da sonnambuli, cibarsi di illusioni e di superstizioni, confondere il dio con l’idolo, la forma con l’immagine, la figura con lo sfigurato. Soprattutto, il potere del logos. Le cose esistono perché acquartierate in un nome; ma di quel nome, di cui impunemente ci appropriamo, sappiamo la superfice. Siamo noi, i creati, il cibo del linguaggio, che continuamente ci mastica e rigurgita. Da qui: ordalia dell’oracolo.  Secondo la storia tramandata da Diogene Laerzio, Eraclito rifiuta di dettare le leggi agli abitanti di Efeso: preferisce ritrarsi all’ombra del tempio di Artemide – la dea che presiede l’arco, la caccia, la luna, una bene armata verginità – giocando a dadi con i bambini, per poi volgersi al bosco, dimentico del linguaggio, rientrando nel ferino. Volta le spalle all’ordine della polis, il pensatore, predilige il caos, l’innocenza violenta e inviolata, il lallare dei bimbi e il detto sacro, a sobillare umana lingua.  Da qui, eterna lotta tra dire e comprendere: cosa può la poesia se non mutilarsi mentre ascende – o spezzarsi in frammenti dopo il crollo?  Le svariate traduzioni di Eraclito in italiano – una leccornia per i classicisti, immagino, un rebus – ne dicono l’onnipotenza. Si dice oscuro intendendo – come Hölderlin – una chiarezza possibile soltanto a chi ha occhio d’aquila – a chi sa fissare il sole, “grande quanto il piede di un uomo”. Al di là di Colli, preferisco la versione di Angelo Tonelli (Eraclito, Dell’origine, Feltrinelli, 2005) e quella di Luciano Parinetto (Eraclito, I frammenti, Marcos y Marcos, 1982), di particolare bellezza lirica, spiazzante per sprezzatura. Il poeta più eracliteo del secolo è stato René Char: la Sorgue la sua Efeso, la sua Delfi. Le mutilazioni di Char, però, sono greto pieno di latte, costato che, volto al contrario, disincastrato, diventa culla.  > “Chi crede l’enigma rinnovabile, lo diventa. Scalando liberamente l’erosione > spalancata, ora luminosa, ora buia, sapere senza fondare sarà la sua legge. > Legge che osserverà ma che avrà ragione di lui; fondazione di cui non vorrà > sapere ma che lui stesso porrà in opera.  > > Si deve tornare senza posa all’erosione. Il dolore contro la perfezione.  > > (da In una casa murata a secco, in: R. Char, Ritorno Supramonte e altre > poesie, a cura di Vittorio Sereni, Mondadori, 1974; 2002) Il poeta parla di erosione: mutilazione operata goccia a goccia. Opera d’acqua, dunque – in contrasto all’opera del fuoco di Eraclito. Il buco in vece della cenere. Erosione del verbo, che del perfetto è il bandito, l’effetto. Una sete anima il poeta – ho sete, latra il Nazareno.   Eraclito è l’opposto di ermetico: verbo solare, il suo – come l’angelologia dello Pseudo-Dionigi. Per questo: dubitare dei poeti complici della complicanza. Se appare oscuro è per difetto di nostra vista – anzi: di slancio, di elan, di audacia nell’ascolto. Char scrive l’introduzione alle traduzioni di Eraclito dell’amico Yves Battistini (Cahiers d’art, 1948, con quindici acqueforti di Georges Braque; ora in: Trois présocratiques, Gallimard, 1988; qui tradotta in appendice); nel 1966, a Le Thor, invita Martin Heidegger a parlare di Eraclito.  Il frammento è ciò che resta dell’unico – voi siete le parti di un unico corpo, dice San Paolo. Di quel corpo di cui non sappiamo più vedere il volto, il sorriso.  D’altro lato, nel 1953 Gallimard pubblica un insieme di scritti di Simone Weil come La source grecque, nella “Collection Espoir” diretta da Albert Camus. In particolare, sono raccolti alcuni tra i testi più noti di Simone Weil: la riflessione su Antigone e L’Iliade, ou le poème de la force. In appendice, le sue nude versioni dai “Frammenti di Eraclito”, di cui qui – tra sussurro e tradimento – si offrono alcuni brani. Simone Weil tentava di compiere una sintesi immedicabile tra pensiero greco, intuizione cristiana, sapienza indiana. Più che un enciclopedista di aforismi, l’Eraclito di Simone Weil pare il traditore del Verbo, il gran bugiardo che per gioco svela il vero – e ci scaglia il dio/leone addosso.  Cosa trarre da questi incroci? Spoliazione immediata di sé – entrare, da mutilati, nel canto, e che questa mano, senza medicamento alcuno, sia il nostro sole.   ** Fragments d’Héraclite 1  Quanto al logos, questo logos eternamente reale, gli uomini non ne hanno alcuna comprensione finché non ne parlano e non cominciano a parlarlo. Benché tutte le cose accadano conformi al logos, potremmo pensare che non ne abbiano fatto esperienza. Eppure, fanno esperienza di parole e fatti analoghi a quelli che descrivo e distinguono ogni cosa secondo la sua natura, spiegando com’è. Gli uomini non sanno cosa fanno da svegli come non sanno più cosa hanno fatto [in sogno] durante il sonno.  * 2  …dunque non resta che avvinghiarsi al comune. Perché il comune unisce. Ma quando il logos è comune agli esseri viventi, la maggior parte se ne appropria nel pensare, come fosse cosa sua.  * 3  Il sole: grande quanto il piede di un uomo.  * 4  Se la felicità risiede nei piaceri del corpo, dovremmo credere che i buoi siano felici quando hanno fieno da masticare.  * 5 Invano, uomini lordi di sangue si purificano; come se qualcuno piombato nel fango si lavasse con il fango. Se vedessimo un uomo agire così, gli daremmo del pazzo. E pregano immagini di dèi, come si chiacchiera in una casa. Non sanno cosa sia un eroe né un dio.  * 6 Il sole è nuovo ogni giorno. * 7 Se tutti gli esseri diventassero fumo, le narici li distinguerebbero.  * 8 Ciò che si oppone coopera, e da ciò che contrasta procede la più bella armonia, è la lotta a generare tutte le cose.  * 9 Un asino sceglie il cardo più che l’oro. * 10 Tutte le cose sono e non sono unite, convergono e contrastano, consuonano e sono dissonanti; da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose.  * 12 Per chi entra negli stessi fiumi, altra e continuamente altra è l’acqua che scorre; e le anime dal liquido si voltano ai vapori (caldi e secchi) * 13 Lussuria nella lordura.  * 16 Chiarità che mai passa, come sfuggirle? * 18 Se non lo si spera non si troverà mai l’insperabile; non lo si può cercare e non c’è modo di volgersi a lui.  * 21 Tutto ciò che vediamo da svegli è morto, ciò che vediamo dormienti è sonno.  * 23 Se non esistesse il crimine non saprebbero il nome Giustizia. * 25 Al grande male la più larga parte. * 26 Di notte un uomo tocca la luce, morto a se stesso eppure vivo. Dormiente, tocca ciò che è morto, la sua vista è spenta. Desto, tocca il dormiente.  * 27 Ciò che attende i morti è diverso da ciò che sperano, da ciò che pensano.  * 30 Questo mondo (ovvero: kosmos, ordine del mondo) è lo stesso per tutti, nessun dio e nessun uomo l’ha creato, ma è da sempre e sempre sarà, eterno fuoco vivente, acceso secondo misura, spento secondo misura.  * 32 L’uno, quest’unico sapiente, che vuole e non vuole essere nominato Zeus.  * 40 La conoscenza non insegna a diventare sapienti.  * 44 Il popolo difenda la legge come una muraglia. * 45  Non puoi tracciare limiti all’anima, nemmeno percorrendo tutta la via, tanto è profondo il suo logos.  * 46  Del pensiero disse: è il male sacro.  * 48 Il nome della freccia è vita, ma opera la morte.  * 49 Entriamo e non entriamo, siamo e non siamo negli stessi fiumi.  * 50 Chi non ha prestato ascolto a me ma al logos concorda sulla sapienza: uno è tutto.  * 51 Non comprendono come l’opposto si accordi in una identità. L’armonia è cambiamento di fronte, come l’arco nella lira.  * 53 Guerra è madre di tutte le cose, di tutte le cose regina, e fa apparire alcuni come dèi altri come uomini, e rende alcuni liberi e altri fa schiavi.  * 54 Invisibile armonia è più dell’armonia manifesta.  * 60 Sentiero che sale o che scende è uno, è lo stesso.  * 62 Immortali mortali, mortali immortali: sperimentano morte, muoiono gli uni nella vita degli altri.  * 63 [Resurrezione della carne]. Si levano davanti all’essere che è là e ne diventano i guardiani, vegliano sui vivi e sui cadaveri.  * 64 Il fulmine governa il tutto. Il fulmine è fuoco eterno, fuoco sapiente e autore dell’amministrazione del mondo. *** Su Eraclito  Pare impossibile conferire a una filosofia il volto netto, vittorioso di un uomo e, viceversa, adattare i tratti precisi di un essere al carattere, pur sovrano, di un’idea. Ciò che intravediamo: la cosa che ascende, assalti di passaggio. L’anima si fa periodicamente affascinare da questo alato montanaro, il filosofo che si propone di farle raggiungere una guglia più trasparente, per conquistare la quale l’anima si presume mondana. Ma poiché le leggi proposte sono, almeno in parte, smentite dall’opposto, dall’esperienza e dalla stanchezza – una funzione universale –, l’obbiettivo sperato è, infine, una delusione, una remissione, un rimettersi in gioco della coscienza. La finestra così clamorosamente aperta sul prossimo era invero aperta solo all’interno, nel più labirintico interiore. Fu così fino ad Eraclito. È così che il mondo continua per coloro che ignorano l’Efesino.  Il nostro gusto, la nostra voglia, le nostre molteplici soddisfazioni sono tali che alcune particelle di sofismo possono stringerci, in un lampo; e toccare la nostra fame. Ma presto la verità riprende il suo posto come guida dell’assoluto e noi ricominciamo a seguirla, avviluppati dall’uragano e dal vuoto, dal dubbio e da una altezzosa supremazia. Tanto è ingegnosa la speranza! Tra tutti, Eraclito è colui che, rifiutandosi di molare la prodigiosa domanda, l’ha condotta ai gesti, all’intelligenza e alle abitudini dell’uomo senza attenuarne il fuoco, senza interromperne la complessità né comprometterne il mistero o opprimere la sua giovinezza.  Sapeva che la verità è nobile, che l’immagine che la rivela è la tragedia. Non si accontentò di definire la libertà, la scoprì inestirpabile, che coinvolge la tracotanza dei tiranni, che perde il suo sangue accrescendo le forze, al centro del perpetuo. La sua vista da aquila solare, quella particolare sensibilità lo hanno persuaso una volta per tutte che la sola certezza che noi possediamo sulla realtà del domani è il pessimismo, una forma perfetta del segreto in cui ci rifugiamo per rinfrancarci, in cui stiamo in guardia e dormiamo.  Il divenire progredisce dentro e intorno a noi. Non è subordinato alle evidenze della natura: vi si aggiunge e agisce su di essa. Salva è l’occasione dell’evento magico che si produce davanti ai nostri occhi. Che sconvolge e arricchisce un ordine troppo spesso ingrato.  La percezione del fatale, la continua presenza del rischio, questa oscurità che è come un grande remo nelle acque, mantengono l’ora in sospeso e noi tesi e disponibili alla sua altezza.  La questione se dire il giusto o dire meglio, è irrilevante. Dicendo il giusto, sulla punta o nella scia della freccia, la poesia si lancia immediatamente verso le vette, perché Eraclito possiede il potere sovrano che ascende, che spezza e muove il linguaggio, servendolo al proprio pasto, al proprio bene.  Condivide con altri la trascendenza che gli è assente. Al di là della sua lezione, una bellezza senza tempo rimane, come il sole che matura sui bastioni ma porta altrove il frutto dei suoi raggi. Eraclito chiude il ciclo della modernità che, alla luce di Dioniso e della tragedia, avanza verso il canto finale e il finale confronto. La sua marcia culmina sull’oscuro e folgorante palco dei nostri giorni. Come un insetto effimero e appagato, fermo su un dito – sulle nostre labbra, il suo indice dall’unghia strappata.  René Char L'articolo “Eterno fuoco vivente”. Eraclito il pensatore Sfinge amato da Simone Weil  proviene da Pangea.
August 9, 2025 / Pangea
“La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale
Non lontano dal tempio – d’intorno. René Char cela i suoi vangeli – come altro chiamare quel vestibolo di versi, quel sudario? – presso l’aia, presso le stalle. Così si consolidano i campi, chini al girasole, il fiore leonino.  Colossale nel corpo, René Char rimedita l’era dei Titani: in quella violenza, l’assurdo della compassione. L’armonia contrapposta dagli olimpici è, invero, una tirannia.  È il poeta a tal punto nel proprio tempo da scansarlo, da fargli lo scalpo. Così, è toccato dal mondo restando intoccabile – i suoi fari: Rimbaud ed Eraclito, Hölderlin e gli alchimisti del Rinascimento.  È un poeta, cioè, per indole, sempre in lotta. In lui, l’elemento primo – il pane, il sole, l’acqua – è sempre l’esito di un sacrificio. La vera gioia: sacrificarsi. Ospitare, cioè: partorire un patto.  Poiché il linguaggio è l’agone, è l’agonia, è il principio del malinteso, l’arena dei malintenzionati, bisogna – come fa il fabbro, come fa l’alchimista – fonderlo e rifondarlo. Con la stessa lega del verbo, nuove armi, nuove forme. In René Char, allo stesso tempo, la severità del legiferante e la ribalderia del bandito. Per questo va continuamente ‘scoperto’, come artiglieria di contrabbando; va continuamente tradotto – sentieri sempre sotto assedio di redini erbe, di irredente felci: non bastano le belle prove di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, di per sé poeti. Char apre la sua casa avita perché sia messa sottosopra.  Diffidava degli scrittori ‘impegnati’, che spesso hanno di mira la carriera quando non la convivenza con la convenienza, un convenire di pettegole. I suoi scritti sono pienamente ‘politici’, nel senso arcano: orientare il corpo civico a quello spirituale. Che è poi: consegnarsi all’assoluto.  Tra il 1966 e il 1969, a Le Thor, René Char invita Martin Heidegger a realizzare un seminario su Eraclito. In quegli anni, il poeta si ribella all’installazione di missili atomici presso il Plateau d’Albion, all’urlo di Non aux fusées atomiques.   Eliminare ogni distanza tra atto e verbo, trasmutare la parola ferrosa nell’oro della promessa mantenuta. L’estremo René Char – il recluso nei suoi luoghi, l’anziano eroe di infinite guerriglie – è il più giovane, ragazzino il linguaggio sempre a figliare ribellioni. Nel 1979, per Gallimard, esce Fenêtres dormantes et porte sur le toit: come sempre, un libro definitivo. Così ne scrive Char: > “Tracciare un cammino tentando di ristabilire la speranza come atto che > orienta, d’istinto, nel visibile e nell’invisibile. Ci sono compagni di > vendette dai volti avvertiti e belli, pittori, viandanti della buona sorte, > sconosciuti dalle mani glassate di schizzi abbandonati: mostrano che questo > nostro mondo, tragico o comico, è diversamente abitabile, nella cerca > dell’arte. Una compagnia che s’infittisce lungo obliati vagabondaggi, e > ovunque, dunque, l’inimicizia delle nazioni, degli individui, delle cose e > degli eventi che conduce all’estremo della voce che si impenna: ‘Al termine di > questo turbine di marce, la porta senza chiuse di sicurezza: il tetto. Sono > per mia gioia al cuore della cosa, il mio dolore è ormai inutile’. Tutte > queste parti assemblando pietra su pietra, abusando della realtà per altri > fini, come i gradini scolpiti del teatro di Epidauro”.  A teatro, si sa, la verità accade; infine, ne restano le spoglie, il sole in carcassa, qualche briglia che chiameranno legge.  In Char: lapidare la letteratura, restare nell’allarme.  Il libro si apre con un testo, Faire du chemin avec…, qui tradotto. All’ingresso, l’ultima poesia di Melville, The return of the Sire de Nesle, a fare da faro in una vita che fu da bucaniere, che fu inseguimento e fuga, in amore del bianco.  Il paese di Char, L’Isle-sur-la-Sorgue, sorge non lontano da Fontaine-de-Vaucluse, Valchiusa, uno dei luoghi di Petrarca, quello delle “Chiare, fresche et dolci acque”. Che di questa lotta – poesia è anche energumena messe di vendette –, nel fiorire, sia l’amare, e sia innumerevole.  Si legge continuamente, René Char, per capire come onorare la vita: è palestra – e mai rendere domestico il dire.  *** Mettersi in marcia Infine, le mie torri! Che l’erranza si archivi Che si plachi la sete della loro manchevolezza: Se desideri l’infinito con troppa forza, si ritira Perché è terribile la terra. Hermann Melville A monte, non fu commesso un crimine. Ci hanno espropriati del ghiacciaio; allo stesso tempo, accusati, marchiati di incontinenza. Pochi fuggiaschi vagano, qua e là, banditi di banlieu. La giovinezza dei nostri affetti li mostra intatti.  Così ci si estrae dall’inspessimento della sera, ci si inabissa sotto la superficie dei libri perché la primavera migratoria possa crogiolarsi, ospite che il nostro non molteplice corpo ferisce.  Avevano riscoperto con soave gioia l’istinto di strisciare nella boscaglia: a vedere una trama di serpe sul sentiero chiamavamo quel passato “il perduto rettile”. Con gelosia paludata.  Guarda la cannaiola sui giunchi scossi dal vento, ha gambe di mare! La poesia che magnifica i suoi ingressi distruggendoli mentre si eleva l’oggetto. Buona notte! Ancora buona sia questa notte, tastata dalla forza che soccorre, tenuta sulle genitrici ginocchia del Tempo recidivo. Nessun interdetto prima dell’inatteso rifugio, quando ci sei.  La poesia riversa, donna alla bisogna per la quale i minuti oggetti domestici sono indispensabili. La ricchezza e la parsimonia.  Prima di polverizzarsi, tutto è pronto a incontrare i nostri sensi. Questo tempo di preparativi è la nostra occasione senza rivali.  Montare, arrampicarsi… ma… issarsi? Oh, com’è difficile. La spinta luminosa delle reni, la forza bassa che razzola nella tana, che irrompe e nonostante la gravità delira in allegria.  Come liberare il rondone dai pidocchi? Resta il domandare dacché il rondone sorvola la città. Lunatico afillante. Il suo fiore sigillato. Ci ha visto. È di un blu onnipotente. Afillante, nostra padrona! Il suo sudario all’albero maestro del Vascello fantasma, fedele fino alla morte, e bianca. Ah, ci ha in suo possesso. Veridica nei ranghi di una breve giovinezza. E poi, pietrificata. Alcuni direbbero, mendace. Graffiandosi le labbra murmuri…  Le sanguinose utopie del XX secolo.   Né il corno totalitario né il paralogismo si sono conficcati nelle nostre fronti. La nozione di giusto e di ingiusto negli usuali fatti ha tenuto in scacco la simpatia.  L’emofilia politica delle persone che si pensano emancipate. In troppi sono innamorati dell’umanità disprezzando l’uomo! Per elevare la prima, degradano il secondo. Uguaglianza che fa patti con l’aggressore. Questa è la maledizione. E la nostra figura si accomoda.  Quanto vorremmo che la cronaca universale non si interrompa, se non una sola notte, per l’obliquo impulso del faro d’amore! Così ci devia il desiderio. Sovviene la parola, quel grande rifugio da tutti i venti.  L’esplosione atomica è la coscienza della materia e il segno dell’ilare uomo quando si esprime. La sua permanenza spirituale ha cominciato a produrre. Strappiamone svergognati l’ipogeo.  Non incitate le parole alla politica di massa. Il greto di questo oceano deriso è lastricato dai cristalli del nostro sangue.  Dall’opera totalitaria non siamo più annodati al nostro io personale ma a un io collettivo, assassino, assassinato. Il profitto della morte condanna a vivere senza immaginazione, fuori dallo spazio tattile, in miscele avvilenti.  Ciò che sembrano tenere così risolutamente nelle loro mani gli sarà strappato dagli occhi. È la legge, la paglia nella legge.  La poesia può riscattare il ricatto? René Char L'articolo “La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale proviene da Pangea.
July 24, 2025 / Pangea