“Diamo i nostri cuori a bestie moribonde”.  J. C. Squire, il critico più odiato degli anni Venti

Pangea - Wednesday, August 6, 2025

La chiamavano Squirearchy: un nome per un sistema, ovvero un’egemonia culturale in grado di dominare l’intero panorama letterario britannico. E se a dirlo erano quelli di Bloomsbury (dando man forte all’amico T.S. Eliot) – state pur certi – il commento poteva diventare legge, per ingiusta che fosse la fama. 

Dagli scribacchini delle maggiori testate giornalistiche ai poeti e critici più influenti del primo Novecento, gli “Squirearchisti” si configurano come gli eredi di un conservatorismo che potremmo definire – con le giuste misure – tipicamente “georgiano”, intriso di nostalgia per un passato nazionale spazzato via dalla Grande Guerra. 

Non era quello del resto il mondo dei garden parties, abbondante di latte e miele, in cui il privilegio di classe si misurava, in primo luogo, sui campi da cricket e nei collegi più prestigiosi, dove venivano formati i figli dell’Impero destinati alle cime dell’establishment? Una sorta di età dell’oro che l’Inghilterra avrebbe provato ciecamente a rianimare durante il «lungo week-end» interbellico (descritto da Robert Graves in A Social History of Great Britain 1918-1939), nascondendo le sue ferite dietro il fascino della tradizione. Eppure, era svanito da secoli il sogno edenico di una «England’s green e pleasant land», eretta sulle colline dell’innocenza di William Blake (And did those feet in ancient time), dal futuro rigoglioso di «fresh woods and pastures new», memore della profezia di Milton (come detta la pastorale Lycidas), lontano anni luce dalla desolazione novecentesca.

Al vertice di questa élite di intellettuali e scrittori controcorrente che, asserviti a un ideale comune, esercitavano ancora piena autorità nel mondo delle lettere, spicca il genio poliedrico di John Collings Squire. Poeta, giornalista e editore di base al “London Statesman” (per cui scrisse recensioni sotto lo pseudonimo di “Solomon Eagle”), all’inizio della sua carriera si distinse sulle colonne della rivista fabiana per la dote eccezionale nella parodia. Riconosciuto ben presto dalla critica come uno degli uomini più colti e versatili del suo tempo, era pure un militante tradizionalista in campo poetico, una vera e propria spina nel fianco per la controparte modernista che avrebbe cambiato una volta per tutte gli orizzonti contemporanei.   

J.C. Squire (1884-1958), l’ultimo leader georgiano

Fra gli studenti di spicco del St John’s College, il talento di Cambridge – laureato in storia e traduttore di Baudelaire – si era fatto strada nella capitale grazie alla serie di antologie curate da Sir Edward Marsh – cinque in tutto e dalla vita breve – sotto il titolo solenne di Georgian Poetry (1911-22)Insieme a Lascelles Abercrombie, Walter de La Mare e al capofila Rupert Brooke, figura negli ultimi tre volumi, trovando posto accanto a penne del calibro di John Masefield, Robert Nichols e John Drinkwater. Sulla scia dei compagni – i quali si consideravano a loro modo moderni e progressisti per l’epoca –, anche Squire, in quella fase, componeva versi ispirati dalla bellezza della natura, profusi d’amor patrio (per ciò additati dai posteri di non poco sentimentalismo) e devoti a un’agreste “Merry England”. Prendendo a modello i classici – dal “Green World” di Shakespeare e l’Arcadia di Sidney alle ballate romantiche –, i giovani Georgians intendevano estirpare dalla poesia inglese la densità stilistica e la carica retorica di un vittorianesimo fuori tempo, riportandola al lessico ordinario e alla purezza formale di un primo Wordsworth. 

Con la ripartenza postbellica, fu proprio Squire ad assumere il ruolo di tenace oppositore delle tendenze radicali (Eliot e Pound erano già sulla scena), difendendo l’esperienza georgiana fino agli ultimi fuochi. Per queste ragioni, diede alle stampe la sua antologia di idoli poetici, Selections from Modern Poets (1921; ristampata a più riprese lungo un decennio). La silloge epocale non mancava di includere alcuni autori sfuggiti volutamente dall’indice di Marsh come dal successivo Oxford Book of Modern Verse 1892–1935 (pubblicato nel ’36 da W.B. Yeats), in specie i poeti di guerra Wilfred Owen e Charles Sorley, per non tacere l’orrore del fronte. Infatti, se non lo si può annoverare strettamente fra i poeti combattenti, il noto curatore (risparmiato dalla leva per problemi alla vista) era comunque un war poet di protesta – a dire il vero, uno dei primi, alla pari di Siegfried Sassoon – attivo sull’home front. In quanto tale, non poté trascurare le pagine più terribili e toccanti della storia umana, ora macchiate dalla descrizione di fetide trincee ora puntellate da invettive di accesa satira politica.   

A interrompere quel filone poetico dalle dimensioni utopiche, il 1922 – ricordato come l’annus mirabilisdella letteratura anglofona – segnò la svolta definitiva, una cesura dirimente sfociata in un dibattito critico tra tradizione e modernità. In sostanza, lo schieramento vedeva l’autore della Waste Land e i suoi fervidi seguaci contro la coterie formata da Robert Bridges (Poeta Laureato fino al ’30) e georgiani: una lotta tra titani, non excludit alterum. Inesorabilmente, dopo gli anni del conflitto, il lavoro monumentale di quei poeti ragazzi precoci e brillanti, che si impegnarono con ardore nel progetto sostenuto dal patrocinio di Marsh – al fianco di Harold Monro che li ospitava presso il suo Poetry Bookshop –, poteva dirsi concluso e superato da istanze sperimentali ritenute più adatte a rappresentare i rapidi mutamenti spirituali, epistemici e culturali del nuovo secolo. Da qui, l’oblio – di cui purtroppo siamo testimoni tutt’oggi – della poesia d’anteguerra, destinata a cadere nel baratro dell’anacronismo perché sintomatica di quel “mondo di ieri” stravolto dalle bombe, che il pubblico di lettori volle allontanare dalla vista e dal cuore. 

All’enorme interesse editoriale del tempo fece quindi seguito una sfortunata ricezione, a cui contriburono i pareri di una critica insofferente a stilemi e toni non più riproducibili nell’era moderna. Al netto delle singole esperienze poetiche pressoché eterogenee (si pensi al camaleontico Brooke e ad altri che vi entrarono di sguincio, come D.H. Lawrence), da una parte le forme metriche ormai desuete apparivano troppo ancorate alla classicità, dall’altra la vena nostalgica e il riparo bucolico entro il confine delle contee assimilavano il profilo del Georgian poet a quello di un arcade moderno. Cantore della vita semplice e abitante di una realtà rurale rimasta ai margini dello spaesamento metropolitano, il timbro imperiale era capace di prestare le proprie corde a un’armonia perduta nel caos contemporaneo, estraneo in definitiva all’apertura trasnazionale del Modernismo.  

In questo complesso scenario, J.C. Squire divenne, assieme ai “suoi”, l’animatore di punta di una polemica incendiaria, arrivando a monopolizzare – fino alla saturazione, secondo l’acuto Alec Waugh – le vette delle principali riviste letterarie, dal “New Age” allo “Statesman”. Con alacrità, il portavoce del gruppo investì tutte le sue energie, come scrittore prima ancora che come editore, per tenere alto lo stendardo reale anche dopo la dispersione dei suoi membri (alcuni dei quali morirono in servizio militare nel fiore dell’età). 

A tarpargli le ali, nell’immediato dopoguerra, il giudizio poco lusinghiero di Virginia Woolf, e con lei quello dissacrante di Lytton Strachey, saettava nell’opinione pubblica come una sentenza che non gli rendeva affatto giustizia come letterato. Per la regina di Bloomsbury, era solamente un tipo “volgare, […] più ripugnante di quanto si possa esprimere a parole, e perfido nei suoi malaffari”, mentre l’eminente Strachey lo definì “un lurido verme”. Molti, poi, ne riconobbero l’enome potere persuasivo, tacciandolo di orientare il parere del pubblico fino a dominare il mondo giornalistico con le sue frivolezze: “Se ce la fa, sarà difficile vedere qualcosa di buono”, affermò l’acerrimo nemico T.S. Eliot (nonché futuro direttore per i tipi Faber). Secondo Robert H. Ross (The Georgian Revolt, 1967), intorno al 1920 Squire era sulla buona strada per creare una cerchia letteraria right-wing tanto influente quanto i circoli di sinistra, in diuturna competizione con l’Athenaeum presieduto da John Middleton Murry (marito di Katherine Mansfield). 

Per coloro che l’avevano conosciuto in amicizia e per contratto, invece, era un modello di dissimulazione e simpatia affettata, dalla scusa sempre pronta, ma anche un uomo generoso, infaticabile nel suo lavoro e, senza ombra di dubbio, un vero intellettuale engagé. Di casa ai ricevimenti dell’aristocratica Lady Ottoline Morrell, l’allegro personaggio mondano dalla parlantina accattivante – espertissimo di formaggio Stilton come dell’ultima uscita editoriale – adunò una larga schiera di giovani promesse (a esclusione dei rivali bloomsburiani). Nel 1927 fu perfino commentatore radiofonico nei tornei di Wimbledon e creò una propria squadra di cricket, The Invalids, composta da reduci di guerra rimasti feriti in azione, che avrebbe fatto invidia ai vecchi Allahakbarries (per intenderci, Conan Doyle, J.K. Jerome, eccetera) capeggiati da James Barrie.

La scalata verso il successo lo aveva lanciato, dal 1919, negli uffici del mensile “London Mercury”, una delle prime riviste a carattere esclusivamente letterario, da lui riportata in auge con un’intensa attività di redattore (che gli valse nel 1933 il titolo di cavaliere del Re, dunque fu eletto Sir). Associato a un sostrato upper-middle class, il periodico diventò sotto la sua ala l’avamposto georgiano per antonomasia. D.H. Lawrence vi contribuì con la poesia Snake (1921) e più tardi tornò sul pezzo in Nettles: 

Quando Mercurio arrivò a Londra
Lo fecero “sistemare”.
Lo salvarono da tante associazioni indesiderate.
A questo punto tutte le ziette lo adorarono 
Perché, vedi, non è “né carne né pesce, mia cara!”

I rapporti altalenanti con l’enfant terrible del romanzo inglese duravano da quando, in una recensione del 1915 a The Rainbow, Squire lo aveva sì difeso dalle accuse di indecenza ma senza nascondere il suo disappunto per lo scarso valore letterario del libro. Così un furioso Lytton Strachey rispose: “Siano dannati i suoi occhi!”. 

A darne un’impietosa caricatura si precipitò anche il maestro della satira Evelyn Waugh nel romanzo d’esordio Decline and Fall (1928). In queste pagine, l’accanito georgiano incarna la figura di editor fazioso dell’immaginario “London Hercules”, Mr Jack Spire, e certi suoi tratti si nascondono dietro l’eccentrico Augustus Fagan, Esquire (Cavaliere), PhD in filosofia e rettore presso il Castello di Llanabba (sede della peggiore public school del Galles). O ancora, nel romanzo England, Their England (1933) è il bersaglio comico di A. G. Macdonellnei panni di Mr. William Hodge, il leader sfacciato del “London Weekly”.

Come i suoi alter ego letterari, quella di Squire è a tutti gli effetti una storia di trionfo e fallimento. Dal bel mondo di Londra alla consunzione fatale per alcolismo, una volta caduto in disgrazia, si ritrovò isolato dal giro dell’alta società conosciuta in gioventù. Dopo essere stato lettore per Macmillan e tornato a recensire per il settimanale “Illustrated London News”, col tempo la fiaschetta facile prese il posto della penna. Avversato dagli augusti Sitwell e assalito da violente accuse di fascismo (per aver incontrato il Duce in qualità di membro dell’esclusivo January Club) si ritirò in un remoto cottage, che andò distrutto in un incendio, e da lì in una magione del Weald. Ma il crollo finale giunse alla perdita del figlio Maurice, ucciso nella Seconda guerra mondiale. 

Tra successi e dispute letterarie, il vecchio Jack scomparve nel 1958 dopo una lunga e mirabile carriera. Degli anni ruggenti che lo videro protagonista era scomparso quasi tutto, compreso l’ideale per cui aveva combattuto. Ciononostante, la sua apologia resta scritta, come una rivelazione, ne La legge del più forte (1916):

“Questi erano i miei amici; Strachey, tu non li conoscevi,
Perché erano uomini semplici, senza pretese […]
Se solo avessero avuto il privilegio di radunarsi
Ai piedi di Gamaliele, avrebbero capito
Che anche l’odio e il massacro hanno il loro splendore,
E che l’uomo non può vivere di solo Amore […]
Davanti ai loro occhi si ergeva
L’Inghilterra, crociata immemoriale,
Una grande statua-sogno, assisa e serena,
Che molto sangue aveva versato, e figli traditori, 
Ma ancora risplendeva con mani e vesti intatte […]
E Lei, pur significando un passaggio amaro e veloce,
Dovevano servire, poiché Lei serviva la Libertà,
Romanzo e retorica! Eppure, nutriti da tali sciocchezze,
Affrontarono i cannoni, i morti, i topi e la pioggia.
E tutti, in un mese, mentre l’estate svaniva, perirono;
Avevano occhi limpidi, corpi forti, e anche un po’ di cervello.
Strachey, questi sono morti. Che bisogno c’è di dire altro?”

*

Un canto

I teneri petali cadono e l’albero che ondeggia lieve  
Ha conosciuto molte primavere e ha visto molti petali, 
Anno dopo anno, spargersi sui verdi sentieri silenziosi,
Sulla statua, lo stagno e il basso muro pieno di crepe. 

Sbiadito è il ricordo delle vecchie cose che furono,
La pace aleggia sulle rovine di antichi banchetti;
Esse giacciono e scoloriscono nel calore del sole,
E un cielo azzurro-argenteo si incurva su tutte loro.

Così dolcemente, teneramente, adesso il cuore si desta
Con desideri lievi e informi; e, senza cercare, trovo
Pensieri quieti che guizzano come martin pescatori azzurri
Sul placido specchio illuminato della mente.

*

Sonetto

C’era un indiano, rimasto sempre giovane,
Che vagava sereno lungo una spiaggia assolata
Raccogliendo conchiglie. D’improvviso udì uno strano
Rumore confuso: alzò lo sguardo; e restò senza fiato.
Perché nella baia, dove non c’era niente prima, 
Avanzavano sul mare, come per magia, grandi canoe,
Con le vele gonfie sugli alberi, senza neanche un remo,
Le insegne colorate sventolavano e le ciurme si arrampicavano.

E lui, impaurito, quell’uomo solo e senza vesti,
Le mani cadute, dimentiche di tutte le conchiglie,
Le labbra impallidite, si inginocchiò dietro una roccia,
Fissava, vedeva, ma non comprendeva,
Le caravelle di Colombo, gravide di destino,
Inclinarsi verso la riva, e tutti i loro marinai pronti allo sbarco.

*

Paradiso perduto

Quali colori possedeva la luce del sole e quant’erano ricche le ombre,
Le ombre azzurre e intricate che cadevano dai rami incrostati
Di meli deformi sull’erba del frutteto.

Quale blu celestiale era il colore di due uova lisce e morbide 
Immerse nel fango arrotondato che rivestiva il nido del tordo:
E quale profondo piacere davano le macchie che le punteggiavano.

E quel piccolo ruscello che correva da siepe a siepe,
Ombreggiato dagli alberi e scintillante nei raggi del sole,
Quant’era limpida l’acqua, i letti piatti di sabbia 
Con bolle di riflessi vaghi, ciascuno un piccolo mondo dorato
Ai miei occhi incantati. Allora la terra mi appariva nuova.

Ma ora cammino su questa terra come fosse un ripostiglio,
E a volte vivo una settimana, vedendo solo semplici erbe,
Pietre e uccelli migratori: né guardo qualcosa
Per abbastanza tempo da sentirne l’assalto calmo e deliberato:
La sua forza, la sua parola, il suo cuore regale.

L’infanzia non tornerà; ma non ho forse la volontà
Di tendere la mia mente torbida, che fertilizza ogni cosa esteriore,
E, aperto di nuovo a tutti i miracoli della luce,
Vedere il mondo con gli occhi di un cieco che torna a vedere?

*

Luce stellare

Ieri notte giacevo in un campo solitario
E guardavo le stelle con le labbra sigillate;
Nessun rumore muoveva l’aria senza vento,
E guardavo le stelle con sguardo fisso.

Ce n’erano alcune che scintillavano e altre che brillavano
Con un bagliore morbido e uniforme, e una 
Che regnava sul circolo sparso,
Oscillando la schiera con tacito suono.

“Calme creature,” pensai, “nella vostra caverna azzurra,
Imparerò a conoscervi, a trattenervi e a dominarvi;
Vi metterò al giogo e vi irriderò come posso,
Perché l’orgoglio del mio cuore è l’orgoglio di un uomo.”

Con l’erba sulla guancia nel campo rugiadoso,
Giacevo immobile, le labbra serrate
E l’orgoglio di un uomo dallo sguardo rigido
Che cavalcavano come spade i sentieri del cielo.

Attraverso un varco imprevedibile si insinuò
L’Universo, spargendosi sulla mia anima;
Veloci andarono il respiro e il cuore,
E guardai le stelle a labbra socchiuse.

*

La morte di un cane

La grossa zolla di terra cade nella fossa come un respiro tranquillo e regolare;
Troppo simile al suo, per un attimo il suono mi inganna:
Copre il mucchio di felci che il giardiniere ha posto sopra di lui;
Il badile oscilla silenzioso: eccola la sua tomba.

Una chiazza di terra fresca sul pavimento della camera fertile del bosco:
Tutto intorno l’erba, il muschio e i germogli verde scuro del giacinto;
E sopra gli alberi, querce già vecchie quando il suo cinquantesimo antenato era un cucciolo;
E distanti, nel giardino, sento le grida dei bambini.

La loro gioia è lontana come un sogno. È strano come comperiamo il nostro dolore
Per toccare cose che periscono, oziosamente, con gli occhi aperti;
Come diamo i nostri cuori a bestie moribonde che durano poche stagioni,
Senza curarci di ciò che facciamo quando lo facciamo; né vorremmo altro.

*L’introduzione, la scelta e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo.

*Per approfondire la vita e l’opera di J.C. Squire si consigliano i seguenti volumi:

P. Howart, Squire. ‘Most generous of men’, Hutchinson, 1963.

J. Smart, Shores of Paradise. The Life of Sir John Squire: The Last Man of Letters, Troubador, 2021.

T. Rogers, a cura di, Georgian Poetry 1911-22: The Critical Heritage, Routledge, 2013.

K. Hale, a cura di, A Compilation of Georgian Poetry 1911-22, Watersgreen House, 2016.

In copertina: John Mansbridge, Ritratto di Sir John Collings Squire, 1933-34.

L'articolo “Diamo i nostri cuori a bestie moribonde”.  J. C. Squire, il critico più odiato degli anni Venti proviene da Pangea.