Non era tornato a casa. I compagni di plotone non lo avevano trovato. Nemmeno le
squadre di cercatori inviate a Hulluch, nell’Alta Francia, riportarono notizie
certe su di lui. Disperso tra le ceneri della battaglia in qualche fossa comune,
il suo nome arrivò in tondo su un telegramma che i genitori, in Inghilterra,
lessero in lacrime. Il biglietto avvisava la dipartita del capitano Charles
Hamilton Sorley, colpito in testa da un cecchino durante i combattimenti a Loos,
nell’ottobre 1915. Ucciso all’istante, il loro ragazzo se ne era andato con la
promessa del congedo previsto di lì a qualche mese. Aveva appena vent’anni.
Così la sua scomparsa si univa alla fine di un’intera generazione di giovani
vittime in un massacro senza precedenti. Difatti, era da secoli che l’antica
menzogna del «dolce morire per la patria» – il dictum latino trapiantato nel
suolo d’Albione – aveva preparato schiere di figli devoti, mossi all’azione dai
valori dei padri ed allevati nel grembo delle public schools, da immolare al
momento opportuno sui campi di battaglia.
Che il capitano Sorley componesse versi è una storia altrettanto amara quanto
avventurosa. Annoverato fra i sedici war poets della Prima guerra onorati sulla
lapide di Westminster, ne è il più giovane rappresentante, forse uno dei meno
noti per l’opera rimasta incompiuta, benché prolifica, addirittura sorprendente
se si considera l’età anagrafica. La sua voce singolare è attestata in una vasta
messe di componimenti – quelli d’anteguerra i migliori – che rivelano un’esperta
caratura tecnica d’impronta tradizionale, una combinazione di perfezione
stilistica nel dettato e auscultazione del ritmo interno alla strofa, sempre
attento alla rima e sostenuto dalla profonda cultura classica. La lucidità di
visione e il rigore metrico ne fanno, in definitiva, uno dei lirici più dotati
nell’eterogeneo coro di talenti che sbocciarono – per essere infine soffocati –
sotto le bombe. Tuttavia, il suo profilo tende a sfuggire ad ogni etichetta
affibbiata nel tentativo di inquadrarne la posizione verso il conflitto in un
anello di congiunzione tra filone eroico-patriottico e svolta
realistico-satirica, di per sé fallace se si considera la risposta di ciascun
autore all’evolversi degli eventi, oltre la caratteristica linea d’azione.
Per circostanze storiche indubbie, i primi poeti-combattenti volontari cantavano
la guerra in versi idealistici e patriottici, celeri a scattare al segnale della
propaganda per partecipare al “gioco” o show (come incitava la sciovinista
Jessie Pope, Who’s for the Game?) tenuto sull’impietoso palcoscenico del mondo.
Se per un guerriero di razza come l’aristocratico Julian Grenfell era facile
osannare la morte onorevole dalle «soffici ali» (Into Battle), un immaturo
Rupert Brooke – non avendo conosciuto la vita di trincea – elogiava l’impresa
virtuosa che avrebbe restituito la gloria eterna al milite sepolto in un campo
straniero (The Soldier). Contro i grandi ideali dei suoi contemporanei, Charles
Sorley – scozzese di origini e inglese per elezione – scaglia con coraggio la
sua abiura, eppure non da subito. Agli inizi della campagna, aveva nutrito anche
lui vaghe fantasie cavalleresche rispetto al pericolo della caduta, tra canti
enfatici e ingenuità romantiche: «Ricoprite di gioia il letto della terra/ E
così morite, siate felici.» (All the Hills and Vales Along).
Sorley studente a Marlborough (fila inferiore al centro) © reserved Marlborough
College
Il testo più famoso e antologizzato, distante dai toni esultanti del 1914, sarà
l’ultimo vergato al fronte, rinvenuto dai commilitoni nel suo kit, che, assieme
ad altri frammenti e abbozzi di prose, lascia ai posteri un monito potente di
fronte a ogni mistificazione della carneficina reale. Crollata l’edulcorata
visione della guerra, la poesia apre uno slargo inaspettato nel panorama
dell’epoca, un bagliore di verità nella critica al sistema bellicista
dell’Impero, messa a segno in versi crudi e irriverenti, tesi a guardare la
morte dritta negli occhi:
> “Quando vedrai milioni di morti senza parole
> Che incedono nei tuoi sogni in pallidi battaglioni,
> Non dire loro cose dolci come hanno fatto altri uomini,
> Rammenta questo. Perché non è necessario.
> Non concedere lodi. Sordi ormai, come potrebbero capire
> Che soltanto le maledizioni si addensano sopra ogni testa squartata?
> Né lacrime. I loro occhi ciechi non vedono scorrere le tue lacrime.
> Né onore. È facile morire…”
Dinanzi al culto vittoriano degli eroi, il blasone di Scozia fa sentire senza
orpelli la sua natura indocile, rinunciando alla fedeltà dogmatica verso la
corona. Fuori dalle gesta eroiche del mito, l’orrore della strage si poteva
raccontare solamente nei resti umani risucchiati dentro la waste land della
Terra di Nessuno, ovvero l’altra faccia dell’epopea. Dopo gli eccidi della
Somme, la percezione del conflitto – e di conseguenza la sua rappresentazione
letteraria, specie in poesia – non sarebbe stata più la stessa. La tragedia che
aveva sperperato il fiore della gioventù britannica sui terreni delle Fiandre si
annunciava agli occhi dei conterranei al netto di tutte le possibili distorsioni
della memoria. Secondo Siegfried Sasson, il “sicuro” mondo d’anteguerra si era
ridotto a un «inferno dove finiscono risate e ragazzi», e lo stesso Rudyard
Kipling – il figlio John caduto anch’egli a Loos – avrebbe parlato, nei
suoi Epitaphs of War (1914-18), a nome dei «giovani arrabbiati e traditi» (A
Dead Statesman) nelle loro illusioni, derubati degli anni di innocenza con un
sacrificio ingiusto.
In questo solco di condanna dei mali inferti dal conflitto, il timbro di Sorley,
col suo grido all’internazionalismo (To Germany), spicca per drammaticità e
premonizione circa la futilità dell’impresa che vanifica ogni azione umana
(Such, Such is Death), ponendosi da antesignano: una vena sovversiva precedente
alla virata antimilitarista di un Siegfried Sassoon, degli epigoni Wilfred Owen
e Isaac Rosenberg. Per questo, nella sua autobiografia Good-Bye to All That,
Robert Graves lo pianse come la perdita più dolorosa di cui avesse sofferto la
moderna poesia inglese.
La raccolta che gli diede la fama – giunta postuma e limitata alle liriche a
tema bellico –, dal titolo Marlborough & Other Poems, venne pubblicata nel 1916
per volere della famiglia ed ebbe una tiratura altissima, con varie ristampe,
nel primo dopoguerra. Nonostante ciò, colui al quale non spettò una
canonizzazione simile all’apollineo Brooke merita di essere ricordato senza armi
e divisa.
Frontespizio della raccolta Marlborough and Other Poems con un ritratto in
gessetto di Cecil Jameson
Discendente di una stirpe illustre sorta tra i fiumi Tay e Tweed, conta fra i
suoi avi eminenti Scots del calibro di William Sorley, reverendo della Chiesa di
provincia, e George Smith, uomo di lettere edimburghese rinomato per il suo
“passaggio in India”. Il padre William Ritchie Sorley è professore emerito di
filosofia all’Università di Aberdeen, le cui idee rivoluzionarie nel campo della
morale gli valgono una cattedra a Cambridge nel 1900. Da questo momento, tutta
la famiglia, d’indole eclettica e apertura cosmopolita, decide di avvicinarsi
alla venerata città universitaria.
Fin dalla tenera età, i piccoli Sorley – la sorella Jean e i due gemelli Charles
e Kenneth – vengono allevati dalla madre con una buona dose di grammatica
francese e letteratura nazionale: passi di Shakespeare, brani di Scott e canti
di Blake sono di casa. Da ragazzino, Charles divora i classici greci e tutti i
drammi elisabettiani sugli scaffali, legge le odi di Keats come un salterio e
allena l’orecchio sulle note di A. E. Housman (A Shropshire Lad, fra i suoi
libri preferiti) fino a comporre versi propri. L’istruzione migliore a cui
poteva aspirare lo vede dapprima allievo diurno alla King’s College Choir School
di Cambridge e dal 1908 nel convitto privato di Marlborough, trampolino di
lancio per le cime oxbridge. Qui viene eletto ai principali club studenteschi,
conteso tra la Debating Society e la Junior Literary Society.
Il talento precoce nella scrittura lo condurrà ben presto alle prime
pubblicazioni sulle riviste collegiali, tra cui il Marlburian. Nello stesso
tempo, si distingue fuori dalle aule per l’eccezionale talento sportivo: nella
corsa è una meteora. Sembra inoltre non badare a premi, medaglie e
riconoscimenti poetico-letterari che si succedono sul suo cammino. Umile di
carattere, fa anche fatica a riconoscere il fascino che emana crescendo. Alla
soglia della maggiore età, è diventato un ragazzo bellissimo, dalla dizione
perfetta e magnetico nei modi. Alle prese con le nuove consapevolezze, si ritrae
come un privilegiato (come per gli estratti successivi, si fa riferimento al
volume a cura di W. R. Sorley, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, 1919):
> “Mi sento terribilmente indegno e inesperto perché la vita non mi ha dato
> difficoltà in casa né grossi problemi da risolvere, soltanto quelli possono
> rafforzare davvero un uomo…”
Si rende conto, a quell’altezza, che la vita è stata fin troppo buona con lui. E
per restituire al mondo il dono ricevuto avrebbe fatto del suo meglio in tutto.
Il nervo resistente della sua personalità, temprato sulle prediche evangeliche e
addestrato al valore della disciplina, trovava in ogni cosa una prova da
affrontare, in ogni difficoltà una sfida, come ricorderà il padre orgoglioso:
> “Voleva sempre crescere. Ogni nuova esperienza, che fosse un gioco, un libro,
> un luogo o una persona da conoscere — era per lui un’avventura; dava la sua
> opinione con entusiasmo, mentre coglieva soltanto il meglio, nient’altro
> contava. Qualunque delusione, apprensione o senso di sconfitta, per qualsiasi
> fallimento, lo teneva per sé, andando incontro alle sue imprese, soprattutto
> la più grande di tutte – nell’agosto 1914 – con un’allegra prontezza e un
> umorismo che regalavano un senso di conforto e sicurezza a tutti quelli che lo
> vedevano. ‘Ecco Charlie, sempre brillante e coraggioso,’ diceva la nostra
> vecchia padrona di casa dello Yorkshire alla fine di ogni vacanza.”
Alla luce dei successi scolastici, i versi della fase Marlborough raccontano
slanci d’ebbrezza giovanile, l’abitudine alla camaraderie contratta dalla vita
di collegio e, più di tutto, un desiderio indomabile di libertà, il bisogno di
solitudine nella natura selvaggia e incontaminata, a contatto con burrasche e
temporali. Lungo i pendii delle vicine Downs o sulle native Highlands, Charles
ama ritirarsi, come un asceta, percorrendo ampie distese a lunghi passi,
attirato dai misteri dei glen, in maratone da cui torna rigenerato:
> “Era solito fare lunghe passeggiate, come quando spariva per correre in
> maglietta e pantaloncini sulle Downs. Aveva scelto di starsene per conto suo.”
Il cognome Sorley – in gaelico sta per pellegrino o viandante – lo aveva
predestinato, imprimendo nel suo spirito il desiderio di un riparo dell’anima,
l’istinto animale a fuggire “via dalla pazza folla”. A quell’atteggiamento
romantico verso l’esistenza si sarebbe aggrappato per capire sé stesso nel
profondo del cuore, ma soprattutto per scrivere. Corsa, pioggia, vento e poesia
sono per lui un tutt’uno.
> “[…] nello Yorkshire, dove le brughiere discendono verso il mare, oppure in
> qualche luogo delle sue origini – Selkirk, Dunbar o Aberdeen; […] attraverso
> la Francia, in bici, cavalcò la costa della Normandia e le sponde della Senna.
> Una volta, in un pomeriggio di tempesta, dopo aver percorso a fatica una
> scarpata, sul punto di attraversare le colline, ci imbattemmo improvvisamente
> in un campo coperto da grandi selci bianche. Ma Charlie, che in genere
> rispondeva prontamente, non disse una parola; fissava il campo come se ci
> vedesse scritto qualcosa.”
Più tardi, il talento di famiglia viene ammesso a Oxford con una borsa di studio
e grazie all’intervento paterno gli è concessa l’interruzione prematura degli
studi. Al giovane spettava la gioia di un Grand Tour, o almeno una breve
esperienza formativa all’estero, prima di precipitarsi nel mondo dei college.
Non perde tempo e all’inizio del 1914 è a Jena per frequentare i corsi di
filologia all’università locale. Dopo un tour mitteleuropeo, si cala appieno
nella vita della città. La lingua gli dà la fame della scoperta, trasmettendogli
la ricchezza di una cultura che non smetterà mai di affascinarlo. In questo
periodo, la visita del fratello e dei genitori, che coinvolge in passeggiate
campestri e giri turistici, viene a ricordargli il calore della patria, a
rinsaldare il rapporto sincero custodito per lettera. Una sera, in cima a un
colle, guarda insieme a loro una Jena luccicante sotto il crepuscolo, e in
quell’istante si sente al sicuro.
Basterà la notizia della dichiarazione di guerra a richiamarlo al di là della
Manica dopo una rocambolesca giornata di carcere a Treviri (nel frattempo Russia
e Germania sono diventate nemiche). Non appena tocca terra, firma convinto le
liste di coscrizione. L’invasione tedesca del Belgio è una mossa troppo
oltraggiosa per resistere alla tentazione. Arruolato come secondo tenente nei
reparti del Suffolk Regiment, viene da qui mobilitato in fretta sul Fronte
occidentale, a marcia indietro sul continente.
A sostenerlo durante l’addestramento militare sarà l’amicizia fraterna di Arthur
Watts (soldato del battaglione alleato ed ex lettore di inglese a Jena), più
dolce dei vecchi legami camerateschi, che riaccende in lui l’amore dei miti
greci. Uniti da comuni interessi letterari, i loro scambi epistolari celano, in
sordina, intense vibrazioni romantiche, scintille di intimità che tentano di
ricucire la distanza sulla scia dell’epica. Tra le righe cifrate in greco e
tedesco, come un appassionato codice segreto, un adorante Charles trasfigura il
compagno nei panni di Ulisse per sentirlo più vicino:
> “Dammi l’Odissea e restituirò il Nuovo Testamento. Indicami la strada, sia
> fisica che spirituale. Solo qualche volta l’orribile visione di pane e burro
> viene ad eclissare il mio sogno; […] In questi sogni mi appari come il
> sergente-pioniere. Forse sei tu l’Odisseo, mentre io non sono altro che uno di
> quei fedeli ἑταῖροι [compagni]… Ma comunque sia, le nostre vite saranno
> πολύπλαγκτοι [agitate dal Fato]. E noi verremo sepolti dal mare – […]
> Dall’inizio di questa lettera, sento un certo profumo di romanticismo durante
> la ronda notturna.”
Mentre si scrivono, i due amici separati dalla guerra guardano lo stesso cielo
inondato di malinconia, l’uno al lume di un fiammifero, l’altro proiettato verso
le stelle:
> “Tu, al telescopio, vedi la strada verso la stella nella sua vastità, senza
> l’ingombro degli atomi che soffiano negli occhi e riempiono i nostri pori di
> linfa vitale – metà strada verso quella stella – ad ogni curva. […] E così
> fino al nostro prossimo incontro!”
Negli ultimi mesi in trincea, Sorley non ha perso il suo umorismo né la
nostalgia degli affetti. Ciò che lo tiene sveglio di notte è il pensiero di aver
dimenticato a casa la sua copia di Omero – come detta il frammento Non ho
portato la mia Odissea con me sul mare [XXXVI] – e il desiderio di una colazione
rigorosamente inglese.
Irrequieto e in preda all’attesa spasmodica nelle retrovie, ha il tempo di
scrivere ai propri cari che la firma della pace sembra «un brutto scherzo» sulla
bocca di tutti. Il suo addio alle armi, del resto, lo ha già annotato nel
taccuino impolverato che porta in tasca. Esegue quindi l’ultimo comando, butta
giù una lettera per Arthur e a qualche giorno dall’azione saluta l’Inghilterra
con Auf Wiedersehen.
*
Per riscoprire la penna di Charles Sorley, si propone qui di seguito una
selezione di testi inediti e rappresentativi della sua opera poetica, tratti
ciascuno da una sezione della raccolta Marlborough e altre poesie:
Il canto dei corridori spogli
Agitiamo i fianchi discinti
Con la luce negli occhi,
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
Non sappiamo di chi fidarci,
Ma non torniamo indietro,
Perché è nostro dovere correre
Attraverso l’immensità dell’aria.
Le acque dei mari
Si agitano come in tempesta.
La tempesta spezza gli alberi
E non li lascia al caldo.
Eppure, si ferma forse la lacerante tempesta?
Si chiedono perché le cime degli alberi?
Così, noi corriamo senza una ragione
Sotto la grandezza del cielo terso.
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
La tempesta frusta l’acqua
E l’onda ulula ai cieli.
S’alzano i venti, che la colpiscono
E la infrangono come sabbia,
E noi corriamo perché ci dà piacere
Lungo la radiosa vastità della terra.
*
Pioggia (estratto)
C’è qualcosa nella pioggia
Che mi invita a rimanere:
C’è qualcosa nel vento
Che mi sussurra “Lasciati alle spalle
Questa terra di tempi e regole,
Terra di campane e lezioni mattutine.
Il latino, il greco e il cibo del collegio
Non ti servono a molto.
Lasciali: se vuoi essere libero
Seguimi, seguimi, vieni con me!”
Quando raggiungo i quattro chilometri,
Per guardare di nuovo là fuori
Sui cieli bianco opaco
E il velo di pioggia alla deriva,
E il mucchio di siepi sparse
Che ondeggia debole sul dirupo,
E l’infinita distesa di colline
Ricoperte di vesti verdi e d’argento;
C’è qualcosa nella loro foggia
Di desolante e sterile bruttezza,
Che mi sussurra “Hai letto
di una terra di luce e gloria:
Ma non credere a ciò che dicono.
È un regno tetro e desolato,
Dove i venti e le tempeste ti chiamano
E la pioggia spazza via ogni cosa.
Non dar retta ai predicatori
Che parlano di una terra dolce e remota.
Qui c’è una terra migliore e più gentile
E non si trova lontano”.
*
Due sonetti (Parte I)
I santi hanno adorato la nobiltà della tua anima.
I poeti sono diventati pallidi davanti alla tua gloria.
Noi siamo tra i milioni di anime che in ogni ora
Attendono di percorrere il tuo cammino.
Tu, così familiare, un tempo diverso: abbiamo tentato
Di vivere senza pensare alla tua presenza.
Ma in ogni strada, da ogni parte, adesso
Vediamo la tua insegna dritta e ferma.
La immagino come quel cartello nella mia terra,
Alto e canuto, che mi indicava di andare
In alto, sulle colline, a destra,
Dove nuotano le nebbie e i venti urlano e soffiano,
Una terra senza casa e senza amici, ma pur sempre
Una terra ignota che desideravo conoscere.
*
Smarrito
Sulle fantasie del mio passato
È calata una cecità grave e silente.
Adesso il mio sguardo si volge ad altre cose,
Non quelle che un tempo vide e conobbe.
Non posso pensare a quelle terre a me care
(O laggiù, i tempi andati!)
Dove il vecchio cartello malconcio resta in piedi
E le quattro strade vanno in silenzio
Verso est, ovest, sud e nord,
Dove spirano i freddi venti invernali.
E cosa porterà con sé la sera
Non spetta a me né a voi saperlo.
*Il servizio e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo
Riferimenti bibliografici:
– C. H. Sorley, Marlborough: and other poems, a cura di W. R. Sorley, Cambridge
University Press, Cambridge 1916.
– C. H. Sorley, Collected Poems, a cura di J. Moorcroft Wilson, Cecil Woolf,
London 1985.
– J. Moorcroft Wilson, Charles Hamilton Sorley: A Biography, Cecil Woolf, London
1985.
– W. R. Sorley, a cura di, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, Cambridge 1919.
– J. Moorcroft Wilson, a cura di, The Collected Letters of Charles Hamilton
Sorley, Cecil Woolf, London 1990.
– N. McPherson, It Is Easy to Be Dead, Oberon Books, 2016.
*In copertina: Charles Hamilton Sorley, fotografo sconosciuto, circa 1914.
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La storia della letteratura è costellata di nomi invisi alla critica e destinati
a un immeritato oblio. Spesso scavalcati dalle righe antologiche, censurati o
macchiati dallo stigma di un castigo morale imposto dalla propria epoca, la cui
eco grava a tutt’oggi sulla loro eredità artistica, costituiscono un lavoro
avventuroso – e quanto mai necessario – per molti esegeti. È certamente questo
il caso di Jacques d’Adelswärd-Fersen, il poeta barone francese ritratto con
scrupolosa attenzione da Roger Peyrefitte – autore delle pubescenti Amitiés
particulières (1943) – ne L’Exilé de Capri[1] (Edizioni La Conchiglia, Capri
2020).
Dalla precisione di un testamento, la biografia romanzata rende omaggio a uno
scrittore considerato assai controverso, oltretutto ancora poco noto,
restituendo al contempo l’affresco di un mondo perduto, quello dei primi del
Novecento, al confine tra Italia e Oltralpe.
Nella prefazione al romanzo, un impietoso Jean Cocteau lo etichettava
ingiustamente come «Eros Apteros». Per dirla col Vate, il
disdegnato maudit incarnava una sorta di Cupido «larvato e senz’ali» (Il Fuoco,
1900), una razza di impotente lirico al quale sono state tarpate le ali alla
nascita, che è riuscito tuttavia a tramutare la propria vita in un’opera
d’arte. Sotto questa luce, l’elegante damerino della Belle Époque rassomiglia a
prima vista a “uno di quei personaggi emersi direttamente dalla letteratura, uno
di quei protagonisti tipici che non è difficile incontrare in certi libri di
Baudelaire e di Flaubert, una via di mezzo tra Dorian Gray e Andrea
Sperelli.”[2]
Eppure, colui che fu definito a suo tempo un «Oscar Wilde au petit pied»[3] era
in realtà molto più complesso dell’esteta apollineo modellato sullo stereotipo.
Come ribadisce il suo più tenace studioso Gianpaolo Furgiuele (Jacques
d’Adelswärd-Fersen. La cospirazione delle sirene[4], Ladolfi, 2021), promotore
di una riscoperta del talento artistico così come della assoluta modernità della
voce – coraggiosa, vibrante e fuori da ogni regola – di questo «ultimo dandy»
della sua generazione, Jacques Fersen è stato testimone di un Decadentismo ormai
agli sgoccioli ed è riuscito ad attirare attorno alla sua figura una colonia di
artisti e intellettuali rinnegati in patria.
Poeta mercuriale e ramingo, compose versi carichi di spleen poggiandosi su
eclettiche commistioni metriche. Il sogno irrealizzabile di ritorno al
paganesimo in un mondo di pregiudizi lo avrebbe perlomeno elevato al ruolo di
cantore del passato classico. Non esente dall’invettiva polemica, in aperta
sfida delle convenzioni, fu anche direttore di una delle prime riviste europee a
carattere marcatamente omosessuale, la “Revue Mensuelle d’Art Libre et de
Critique” (in vita un anno, 1909), che raccolse, tra gli altri, contributi di
Anatole France, Achille Essebac, Colette e del nostro Tommaso Marinetti.
Finito ben presto sulle liste di proscrizione francesi come “persona non grata”,
il beniamino diurno dei salotti mondani, schiavo di orde fameliche di ragazzi
(tra cui molti minorenni) e libertino sfrenato durante la notte, pensò bene di
lanciare una satira alla «maschera infiacchita e grottesca» della società
benpensante, la stessa che l’aveva condannato – in modo non dissimile dal caso
wildiano in Inghilterra – per oltraggio alla morale pubblica, in Voi siete i
borghesi:
> “[…] Contro un male sconosciuto
> Mettete alla porta Ganimede, e nudo,
> Benché segretamente ne conserviate la brama;
> Insensati, pensate di avere un gesto d’artisti
> E vi scagliate sui nostri pretesi vizi.
> Credete di cancellare il riso di Narciso,
> Scapini che non siete, valletti di Cesare?”
In seguito agli scandali delle sue “Messe nere” (difese in Lord
Lyllian[5], 1905) – nient’altro che innocenti tableaux vivants più che cortei di
giovinetti in panni di efebi – inscenate nei suoi appartamenti parigini, si
rifugiò in esilio volontario nella terra del Grand Tour, da qui alla volta di
Napoli fino a Capri. Nel 1904 tornava sull’isola dei piaceri segreti della sua
giovinezza, a cui era stato iniziato dal nobile Robert de Tournel, immortalata
da Norman Douglas[6] in Vento del Sud (1917) e da Compton McKenzie[7] nel
romanzo caprese Le vestali del fuoco (1927). Intorno a lui, i contemporanei
conosciuti sul posto, vittime sofisticate dell’etica nordica che popolano
l’aneddotica del sogno italiano d’inizio secolo, erano le “sorelle”
Walcott-Perry – le inquiline saffiche di Villa Torricella – al braccio
dell’amatissima marchesa Casati (detta la Semiramide), la principessa Ephi
Lovatelli e Godfrey Henry Thornton, l’ufficiale in congedo coinvolto in
malaffari con giovanotti locali, tutti invitati speciali ai suoi festini, dove
passò la crème de la crème di quegli anni.
L’episodio, riportato da Peyrefitte, che imprime la parabola all’intera storia,
reale e immaginaria, del giovane aristocratico fu però l’incontro folgorante con
gli sventurati amanti inglesi, ‘Bosie’ Douglas e Wilde (appena liberato da
Reading), apparsi in un breve cameo vacanziero del 1897, quando questi ultimi
vennero cacciati dal ristorante Quisisana:
> “Robert gli prese la mano sotto la tovaglia. ‘Calmatevi, ragazzo mio,
> calmatevi.’ Con aria ironica, il giovane Lord toccò la spalla del maître
> d’hôtel con il suo bastone. ‘Vi faccio i miei complimenti in nome
> dell’Inghilterra’, disse. Se ne andò con il suo amico e gli ospiti tornarono a
> sedersi, senza domandargli spiegazione per quelle parole. Negli occhi di
> Jacques brillavano le lacrime, e le aveva viste brillare in quelli di Oscar
> Wilde”.
Dopo un turbinoso giro del Mediterraneo, il tragico Fersen – spogliatosi del
primo cognome d’alto lignaggio – oserà scappare definitivamente sull’isola blu
con l’amato Nino Cesarini, un manovale quindicenne conosciuto per le vie
dell’Urbe e «più bello della luce di Roma», perfetto per gli scatti iconici dei
fotografi Plüschow e Von Gloeden. Assunto il piccolo Adone come “segretario”
privato, a tratti algido eppure fedele in lunghi pellegrinaggi orientali e
divertimenti oppiacei, l’illustrissimo conte (così per gli amici) creò a
Capri il suo paradiso artificiale: un paesaggio «infernale e divino insieme», ma
anche un riparo fatto di silenzio e pace per poter scrivere e amare come
desiderava, senza ostacoli di perbenismo borghese o riprovazione di sorta. Per
coltivare le sue passioni più intime, fece costruire su un eremo dell’isola una
magnifica residenza in stile rocaille, «sacra al dolore e all’amore»,
ribattezzata poi Villa Lysis da La Gloriette. Un tempio d’amicizia platonica,
divenuto il simbolo di una personale Acropoli della bellezza, comunicante con la
gloriosa Villa Jovis di Tiberio (due passi più in alto), dove riceveva file di
accoliti.
Allo stesso tempo, l’amara realtà lo risvegliava col fardello di un’angoscia
insaziabile derivata in gran parte dall’ostracismo sociale. Nell’autunno 1923,
recluso dentro il suo fumoir sotterraneo, dal cuore stanco di ogni frenesia e
reprobo degli isolani, ingiuriato a più riprese dalla stampa scandalistica in
quanto omosessuale e “mangiatore di oppio”, decise di tagliare corto con
un’overdose di coca affondata in un bicchiere di champagne.
Gli ultimi fleurs du mal, sparsi come anatemi sugli altari dell’invocato Angelo
della morte, fanno eco alle litanie di Lionel Johnson (The Dark Angel, 1894),
mentre cade allucinato:
“O bell’Angelo del male che vivi nelle tenebre
Per esaltarmi la dolcezza dell’amore maledetto;
Angelo triste, esule dai divini paradisi,
Quale ombra serra il tuo funebre sorriso?
Eppure, hai conosciuto i baci più sanguinanti,
L’abbraccio urlante e tenero dei giovani.
In te si è riflesso il loro più bel sonno
Come il chiaro di luna in mare nelle sere dei poeti.
I fanciulli ti hanno offerto la freschezza della loro bocca
E la loro anima innocente in cui tremava l’ignoto.
Il mondo intero ha vibrato nelle tue braccia nude
Sul tuo ventre, O Satana, che sogghigni truce,
Perché tu passi, vai, disprezzi, muori, rinasci,
Spazzando la terra con le tue ali,
Mentre si prova, nell’eterno errore, a colmare
Attraverso un dio il vuoto dei nostri cuori.”
Nella sua casa dell’anima, a distanza di più di cent’anni, lo spettro
malinconico del barone sembra risalire dai marosi e aleggiare tra le stanze
desolate, sopra gli occhi dei visitatori che in ogni stagione accorrono a
quell’antica dimora attratti dalla sua fama. La targa apposta a strapiombo
sull’azzurro intorno alla villa, da lui consacrata «alla gioventù d’amore», reca
il monito di una vita consumata al limite della vertigine. Dopotutto, come detta
la Morante nella vicina Achilleide, fuori del limbo non v’è eliso.
Pierluigi Piscopo
*****
Messi da parte i versi della maturità, si propone qui una manciata di poesie
giovanili di Jacques Fersen, tratte da L’innario di Adone: alla maniera del
signor marchese de Sade (1902), dove la tipica provocazione del verbo si
stempera in un’insueta dolcezza, con echi ai maestri simbolisti e decadenti
prediletti, da Rimbaud a d’Aurevilly.
L’innario di Adone (Proemio)
Per le aurore d’oro dove l’erba giace addormentata
Sotto la rugiada caduta dalle labbra della notte,
Per le aurore d’oro quando canti amici
Si svegliano nei nidi con un frullo d’ali e di voci,
Son partito leggero, più leggero d’un capro,
Attraverso i campi arati e i boschi tremanti,
Con nastri chiari e munito d’un arco in legno bianco,
Per venire a conquistare, O giovane Adone, la tua bocca!
Udivo i richiami dei fiori e dei pastori,
– il riflesso del tuo sorriso negli stagni che attraversavo –
E qua e là dei canti modulati da lire,
Le uniche a celebrare la tua viva dolcezza.
Vedevo fanciulli, come me, mormorare
Parole d’amore alle tue statue, a cui rassomigli;
Offrendo lillà, profumi e latte.
E tutto ciò vagando, bello, fra i verzieri.
E il cielo infinito, quel cielo dei templi ellenici,
Che rende gli Dèi più belli e le preghiere più caste,
Stendeva sui tuoi proseliti un velo di luce,
Dove i cuori crepitavano come legna secca al fuoco.
Ma a sera, triste e dolce, tornai più fedele,
Meno gioioso e più calmo, ch’avevo dentro al cuore
Il fermento sconosciuto dei dolori divini
Con cui tu sai domare gli schiavi ribelli:
I campi lontani lasciavano svolazzi nell’oblio
Tra fuochi brillanti sulle alte montagne,
Un riposo virgiliano accarezzava i campi
E io mi sentivo puro, il male annientato.
I miti antichi in cui avevi creato il tuo Impero
Palpitavano nella mia carne con vaga sorpresa;
Avrei voluto morire di un bacio nel momento
Di quella sera mesta e dolce come l’inizio di un delirio!
Per ciò mi trovo qui, in lacrime ai tuoi piedi,
Ai tuoi piedi più setosi dell’ala di una colomba,
Per offrirti il mio cuore come una coppa cadente
Satolla dei frutti vermigli raccolti dal pastore.
E ti offro le mie grida, i miei sogni, la mia supplica,
Deboli lamenti d’amore in baci di sillabe,
Sogni infantili simili al cielo roseo
E la mia bocca umida per proferire questi inni!
*
Innocenza
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa,
I nostri cuori bambini han spiegato le ali,
Sogni confusi, ignari d’ogni nevrosi,
Li han fatti tremare come tortorelle;
Sugli occhi addormentati, sulle manine richiuse,
La lampada notturna ha posato il suo chiarore,
E sulle labbra inebriate da una preghiera pia,
I nostri piccoli cuori bambini sanno che Dio li chiama.
A momenti, come il suono di una viola lontana,
Che vibra sulla pace di candide visioni,
Un brivido, un sospiro infantile si diffonde
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa.
*
Schoolboy
Era un liceo vecchio e cupo,
Mi ricordo, e come mi ricordo…
Nei miei occhi calarono le ombre,
La prima volta che vi entrai,
Il direttore era austero e duro,
Mi pareva un Dio,
E quando dovetti dire addio,
Separandomi dalla mamma,
Il mio cuore bambino non osò
Gridare dolore né incertezza,
Proseguii da solo sul selciato,
Fra ricordi di antiche carezze.
Un ragazzino mi condusse in aula,
Tutti a fissare il novizio,
Credendolo un vitellino,
E da solo trovai un posto.
Aprii un libro a caso,
Sentendo ronzare nella testa,
I giorni andati, come tamburi,
Che mi cantavano il caro abbandono.
Rivedevo la casa serrata,
Il grande sole la riscaldava,
E il giardino tremante
Di uccelli, insetti e rose.
Allora, non appena una lacrima
Stillò lungo il viso,
Per evitare scherni
E risate sulla mia tristezza,
Cercai qualcosa da scrivere
Laggiù, alla mia cara mamma,
Da scrivere a singhiozzi,
Che mi annoio senza il suo sorriso!
*Le traduzioni delle poesie in calce sono di Pierluigi Piscopo. Per le citazioni
dalle opere restanti, si fa riferimento al romanzo di Roger Peyrefitte e ai
volumi su Jacques Fersen indicati in bibliografia.
Bibliografia consigliata:
J. Fersen, Amori et dolori sacrum, La Conchiglia, Capri 1990 (prefazione di
Roger Peyrefitte).
F. Esposito, I misteri di villa Lysis. Testamento e morte del barone Jacques
Fersen, La Conchiglia, Capri 1996.
R. Ciuni, I peccati di Capri, Longanesi, Milano 1998.
J. Fersen, E il fuoco si spense sul mare…, La Conchiglia, Capri 2005.
AA. VV., À la jeunesse d’amour. Villa Lysis a Capri: 1905-2005, La Conchiglia,
Capri 2005.
T.M. Pellicanò, Villa Lysis, Abrabooks, 2021.
C.M. d’Ambrosìa, Nino, il sole di Roma, la luna di Capri. Vita reale ed
immaginata di Nino Cesarini, La Conchiglia, Capri 2023.
*In copertina: Jacques d’Adelswärd-Fersen nel 1901
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[1] https://laconchigliacapri.it/prodotto/lesule-di-capri-2/
[2] https://caprinews.it/?p=22986
[3] Philip J., Pourriture, in «L’Aurore», 14 luglio 1904, p. 1.
[4]https://www.ladolfieditore.it/index.php/it/catalogo/agata/jacques-d-adelswaerd-fersen-la-cospirazione-delle-sirene.html
[5] https://www.pendragon.it/catalogo/narrativa-1/linferno/lord-lyllian-detail.html
[6] https://isoladicapriportal.com/norman-douglas-alla-scoperta-di-capri/
[7] https://isoladicapriportal.com/compton-mackenzie-luomo-che-amava-le-isole/
L'articolo “La dolcezza dell’amore maledetto”. Jacques Fersen, l’esule di Capri
proviene da Pangea.
Nella storia del cinema il 1955 fu l’anno di James Dean. Prima di scomparire
alla velocità di una meteora, il giovane ribelle statunitense lasciò dietro la
sua scia tre film indimenticabili, la promessa della fama mondiale e il sogno di
diventare regista.
Eletto a idolo romantico della gioventù degli anni Cinquanta, Dean diede corpo e
voce a personaggi fuori da ogni schema. Per Elia Kazan aveva vestito i panni del
rancoroso ma dolce eroe steinbeckiano di East of Eden (La Valle dell’Eden), nel
superbo Rebel Without A Cause (Gioventù bruciata) di Nicholas Ray si era
trasformato nell’intrepido Jim Stark, chiudendo con aplomb nella parte
dell’orgoglioso Jett Rink in Giant (Il Gigante postumo), a coronare la triade
per cui è ricordato come il “ragazzo d’oro” del cinema americano.
Nello stesso anno, la promessa di Broadway – il debutto in See the Jaguar è del
’52 – fuggiva dalle luci del successo e da lunghe notti insonni, trascinate sui
marciapiedi di New York, per tornare alle sue radici, a Fairmount. Qui poté
finalmente respirare, ancora per qualche tempo, l’aria di casa. Non appena
giunto nella cittadina sonnolenta dell’Indiana s’immerse a capofitto nel torpore
della vita rurale, confondendosi fra i contadini e i manovali del paese.
James ‘Byron’ Dean in compagnia del suo border collie Tuck a Fairmount, Indiana,
1955.
Nato nella vicina Marion, il piccolo Jimmy era cresciuto nella fattoria di
proprietà dello zio Mark Winslow, il quale tornava prodigamente ad ospitarlo.
Accolto a braccia aperte da tutti i suoi cari, riunì attorno a sé i membri di
almeno tre generazioni. L’avrebbe seguito ovunque, dal selciato bagnato di
Times Square ai suoi frugali ambienti domestici, l’obiettivo di Dennis Stock
(lo stesso che ispirerà le pose di Kate Moss e Liz Tyler dopo di lui). Deciso a
tracciarne le orme, per immortalarlo sotto un aspetto più intimo, il cronista
mondano gli avrebbe dedicato una celebre serie di ritratti destinata alle
prestigiose testate di Life. Come riporta l’editor Eliza Berman, l’incontro tra
il fotografo e la futura star ebbe un effetto folgorante:
> “Mentre Stock ascoltava Dean parlare con nostalgia della sua educazione a
> Fairmount, nell’Indiana, pensò bene di cogliere il ritratto di un giovane uomo
> sospeso tra due mondi: quello della fattoria di famiglia, dove i suoi zii lo
> avevano allevato dopo la morte della madre, e quello di Hollywood in cui
> sarebbe stato presto accolto”.
A metterne in luce i turbolenti rapporti si aggiunge in tempi recenti il tributo
offerto da Anton Corbijn ai due artisti, interpretati dai brillanti Robert
Pattinson e Dane DeHann, nel film Life (2015).
Nel febbraio 1955, alla domanda “Dove scattiamo le foto?” Stock aveva proposto
“dove sei più felice”. Da quel momento, l’appeal del saltimbanco nottambulo e
del selvaggio contadino andava fissato in una delle maggiori icone di bellezza
maschile del secolo.
Unico nel suo genere, il volume che raccoglie le fotografie di Stock – ironiche,
stravaganti e familiari –, uscito in Italia come James Dean. Per sempre
giovane (Contrasto, 2005), include anche una nota biografica sull’amico modello,
seguendone passo dopo passo il profilo anticonformista.
> “Jimmy non teneva minimamente al proprio aspetto: due volte su tre si vestiva
> in modo più che trasandato, che si trattasse di una riunione formale o
> informale”.
Aggirato il volto da leggenda, questi scatti delicati e spontanei lanciano uno
sguardo lucido sul ragazzo più autentico, legato alla sua terra e teneramente
devoto alla famiglia.
In quei giorni, la vita dai Winslow procedeva al suo ritmo regolare, essenziale
e aromatica, proprio come l’aveva lasciata prima di ascendere alla luce di Santa
Monica o ai ritmi sfrenati della vita newyorkese. Le ore più calde trascorrevano
in un’atmosfera rustica e serena, imbevuta di reminiscenze d’infanzia di stampo
quacchero e circondato dai suoi affetti.
Steso a pancia in giù sul tappetto del salotto e preso dall’entusiasmo nei
giochi del cuginetto Markie, che aveva visto crescere, Jim si sentiva racchiuso
nel grembo di un’alcova, un rifugio sicuro dove poter essere l’eterno fanciullo
dei suoi sogni. Adesso, più di tutto, il caos della metropoli era svanito
lontano come un’isola del Pacifico, scacciato dal suono del bongo che portava
sempre con sé.
Per sempre giovane. Dean gioca insieme al cugino Marcus Winslow Jr.
Durante il breve soggiorno, l’orgoglio d’Indianapolis ebbe anche il tempo di
visitare le aule della vecchia high school, venendo travolto da un’ondata di
nostalgia per gli anni dell’adolescenza consumati da vero campione tra
eccezionali partite di basket e prime produzioni teatrali. Più tardi, la sua
insegnante di recitazione e prima fan Adeline Nall avrebbe ricordato in toni
sinceri e commossi lo studente di genio che lasciò il segno sul palco
scolastico:
> “Jimmy Dean amava sentire il suolo dell’Indiana sotto ai suoi piedi, e credo
> che traesse da lì gran parte della sua energia.”
Un famoso scatto di Stock, poi rimasto iconico, lo vede davanti a tutta la
famiglia raccolta attorno alla tavola imbandita per il pranzo della domenica. A
un tratto, il nuovo arrivato prese a recitare un noto componimento del sommo
poeta locale James Whitcomb Riley: il preferito della madre che scelse di
chiamarlo James Byron in onore alle proprie passioni letterarie.
Con timbro enfatico e strampalato, la personalissima lettura
di Home-Going (1910), attestava il ritorno a casa attraverso la via diretta
della poesia:
> “Oh! Siamo così bisognosi di casa
> La risata del mondo è come un gemito
> Nei nostri orecchi stanchi, e pure i suoi canti son vani,
> Dobbiamo tornare a casa – dobbiamo tornare di nuovo a casa!
> Dobbiamo tornare a casa:
>
> […] Là dove tutto riposa:
> Il tocco di tenere mani su fronte e capelli –
> Stanze buie, in cui più dolce è la luce del sole –
> L’amore perduto di madre e figlio…”
James Dean declama i versi di James Whitcomb Riley, il poeta dell’Indiana.
Per una singolare nemesi, il giovane eroe del cinema avrebbe fatto nuovamente
ritorno in Indiana, ma stipato dentro un feretro più scomodo di quello in cui si
era adagiato, solo sette mesi prima, durante una buffa visita alle vicine
imprese funebri. La lente incredula dell’amico lo catturava allora, nel presagio
d’un eccesso burlesco, con l’espressione da bambino ferito stampata per sempre
sul volto.
Ma come ha scritto Oriana Fallaci, agli occhi del pubblico e dell’industria
cinematografica, James Dean non poteva rassomigliare in toto a un ingenuo
contadino del suo Stato natale, tanto sfaccettato era il talento che gli
spianava la strada per il mito. Da fervido seguace di Brando, si sarebbe
avvicinato di ruolo in ruolo ai divi moderni come ai vecchi idoli europei:
> “Era la Sagan tradotta in americano, l’adolescente pazzo per noia romantica,
> più vicino all’europeissimo Truman Capote e a Oscar Wilde che ai personaggi
> contadineschi di Peyton Place o ai giovani pazzi ma paesani che si riscontrano
> nei romanzi americani”.
Fissato nell’icona di Hollywood e del viveur di Manhattan, il nuovo “bello e
dannato” sfrecciava verso le stelle di una carriera tutta in ascesa.
A stroncare tragicamente la parabola della sua breve esistenza, sancendone la
consacrazione all’Olimpo californiano, una corsa maledetta sull’asfalto della
U.S. Route 466, sul sedile della temibile “piccola bastarda”, la sua Porsche 550
Spyder. In un amplesso di euforia e bagliori di gloria, rapido come aveva
vissuto, se ne andava in un lampo, direzione Salinas.
Pierluigi Piscopo
L'articolo “Dove sei più felice”. James Dean, il fanciullo dell’Indiana proviene
da Pangea.
Rugby, dicembre 1905. Nella cappella della scuola locale, due ragazzi si
scrutano da lontano, in ginocchio sui banchi in posizione di preghiera. Gli
occhi, trepidi, seguono il luccichio delle candele, al ritmo dei salmi e degli
inni. Dalle ombre basse delle navate, sguardi di attesa e stupore si incrociano
per un istante, poi fuggono al primo brivido, tornando in orbita come magneti.
I loro nomi, da adulti, sarebbero diventati leggenda, ricordati come assoluti
protagonisti del mondo della cultura di inizio Novecento: erano Rupert
Brooke e Michael Sadleir. Da un lato, l’Adone anglosassone immortalato da
Leonard Woolf, e non solo “il ragazzo più bello d’Inghilterra” – a detta di W.
B. Yeats – ma anche lo scrittore georgiano annoverato fra i più amati war poets;
dall’altro, un’autorità nella storia della critica vittoriana, magnifico esperto
di Trollope e appassionato bibliofilo. Della fama nazionale del primo
testimonia, com’è noto, la lapide in ardesia posta nel Poets’ Corner a
Westminster; del compagno (distintosi per aggiunta di una lettera dal padre
Michael Sadler, eminente educatore) vanno quantomeno citati i romanzi di
successo Fanny by Gaslight (1940) e Forlorn Sunset (1947), ambientati nei
bassifondi della capitale, oltre alla sterminata collezione di volumi
ottocenteschi raccolti nella sua biblioteca, ancora un punto di riferimento
negli studi vittoriani.
Rupert Brooke fotografato da George Augustus Dean Jr, Rugby, 1905
Studenti nella scuola privata della cittadina del Warwickshire, nota dalla metà
del secolo precedente come il “tempio della mente e del corpo” di Thomas Arnold
e campo di formazione tout court dei più dotati figli dell’Impero, Brooke e
Sadler divennero ben presto amici affiatati, formando un branco inseparabile
insieme ad altri Rugbeians: Hugh Russell- Smith e Geoffrey Keynes (fratello
dell’economista Maynard). Le loro attività preferite comprendevano cricket,
riunioni di gruppo e letture raffinate.
Il legame più intimo che univa Rupert e Michael era nato nei primi giorni del
1906 e sin dall’inizio lasciò trasparire un’amicizia esclusiva. Tutto cominciò
quando Sadler chiese al fotografo G. A. Dean di acquistare uno scatto dello
studente più attraente di School Field stampato sull’annuario scolastico qualche
mese prima. Messo a conoscenza degli eventi dallo stesso Dean, la star della
scuola – atleta provetto e precoce talento letterario già insignito di premi e
riconoscimenti – esibì un’ansiosa curiosità verso la faccenda, sentendosi al
centro di un piccolo scandalo privato. Si trattenne comunque dall’esternare la
sorpresa per non sollevare commenti inopportuni, guardando con sospetto le mosse
dell’ammiratore segreto, venuto timidamente allo scoperto, e interrogandosi
sulle sue reali intenzioni.
Il resoconto dell’accaduto è in una lettera all’amico Keynes, dove Brooke
tratteggia una sognante descrizione del giovane:
> “Un tipo dall’aspetto di un dio greco, il volto di Giacinto, la bocca di
> Antinoo, occhi come il tramonto, un sorriso d’aurora… Sadler. Sembra che il
> folle mi adori a una pallida distanza.”
Da quel momento in poi gli incontri si fecero sempre più frequenti, nettamente
più calorosi dei sorrisi furtivi scambiati in fugaci incontri per strada e in
cappella, durati appena il tempo di un’affannosa corsa sui campi da gioco.
Appartenendo a due Case distinte, nell’ambiente serrato dal ritmo delle lezioni,
era infatti molto difficile – o quasi raro – interagire con studenti distanti
dalla propria divisione, se non durante le attività sportive, in occasione degli
eventi ufficiali e nelle ore di ricreazione. In ogni momento erano tenuti sotto
il controllo dei tutori, dietro l’occhio vigile degli insegnanti e dei prefetti,
anche in una posizione privilegiata come quella di Brooke, figlio del maestro a
capo della sua stessa Casa d’appartenenza.
Da parte sua, lo studente modello chiese a Sadler di ricambiarlo con una
fotografia, ottenuta senza troppe remore, seguitando l’azzardo osato dal più
coraggioso. Durante il loro ultimo anno a Rugby, i due compagni presero dunque
contatti più stretti e coltivarono un affettuoso scambio epistolare che
raggiunse intensi toni malinconici e candide venature romantiche. Sempre a
Keynes, Rupert attestava la paura che una simile intesa potesse finire come ogni
altra cosa bella e insieme rimpiangeva la gioia avvertita nell’istante al tempo
rubato:
> “Un giorno forse saremo vecchi e saggi, e dimenticheremo. Ma adesso siamo
> giovani e lui è bellissimo. Ed è primavera. Anche se fosse soltanto una
> commedia romantica, una fantasia, che importa? La Giovinezza è più strana
> della fantasia… Al momento lui – l’adorabile, cinto di rose – è a Roma, mentre
> io ricevo pallide e tenere lettere ogniqualvolta gli Dèi o le poste italiane
> lo permettono.”
L’adorazione aveva ormai superato il limite di pruderie concesso all’epoca in
qualsiasi legame tra coetanei maschi, con eccessi di tormento giovanile per la
distanza lancinante capace di sprofondarlo nell’abisso della solitudine, a
tratti colmato dall’esaltazione estatica provata in presenza dell’amico del
cuore. Ricusava, d’altro canto, i segni di un rapporto impossibile, negato nella
sua stessa essenza, spinto al confine dell’idillio romantico e mai veramente
compreso fino in fondo: un groviglio di emozioni contrastanti, assecondate fuori
ogni logica al risveglio dei sensi liberamente tesi sulla corda dell’amicizia.
Michael Sadleir (Oxford, 1888 – Londra, 1957)
Da fervido alunno di Rugby, Rupert Brooke non era estraneo ai clichés scolastici
e alle esperienze di molti conterranei del suo status. Per l’abitudine contratta
dalla vita di gruppo all’insegna dello spirito di camaraderie, la segregazione
nella fratria della scuola a frequenza esclusivamente maschile e il bisogno
d’affetto che ad essa si accompagnava sul piano individuale, il mondo
delle public schools inglesi ospitava e alimentava una forte componente di
tendenza omoerotica, in cui pure influiva l’allontanamento dall’altro sesso
durante un delicato momento della crescita. Numerose sono infatti le
testimonianze di intimi rapporti tra giovani convittori, designati per la loro
estensione nazionale come «amicizie romantiche degli inglesi» – secondo il
satirico Evelyn Waugh (Brideshead Revisited, 1945) – e simili a quelle «amicizie
particolari» osannate come le più perfette da Roger Peyrefitte in terra
francese. Immerse nel sogno di giovinezza dimentico dell’idea di un futuro ben
diverso, in larga misura fondamentalmente etero-normato, alcune amicizie
maschili potevano perlomeno assolvere altri ruoli possibili nella richiesta di
calore e di un tenero riparo dal mondo esterno, proveniente dal legame fraterno
con un ami de tout o offerto dal migliore bosom friend, ed essere quindi
“permesse”, talvolta finanche incoraggiate, purché – s’intende – non durassero
troppo a lungo. Va da sé che alcune di queste venivano percepite come primordi
di vere e proprie relazioni sentimentali, quindi osteggiate, finite in preda
alla sanzione del pervicace stigma morale, oggetto di punizioni corporali,
espulsioni per scandali messi immediatamente a tacere, o addirittura concluse in
tragedia come estrema conseguenza di complici patti suicidi orditi dai
rispettivi sodali.
Un sottomondo omosociale naturalmente esisteva dietro le porte strette delle
aule e dentro le barricate claustrali di quegli antichi collegi – chiamati in
inglese boarding schools – in maniera analoga, seppure più rigidamente
consolidata, rispetto agli istituti sparsi sul continente. Nascondendosi nelle
cucce dei dormitori e nelle cosiddette “camerate”, l’oltraggio alla regola era
da aspettarsi sia tra gli allievi che tra i membri del corpo insegnante, e il
più delle volte da violenti contatti forzati tra i due fronti. Dichiarati
punitori della corruzione del corpo e dell’animo infantile, fra gli attenti
tutori non mancavano casti custodi della lezione dei classici ed eletti
continuatori dell’arte paideutica, in mezzo ai quali si celavano rapaci
“pederasti” trafilati nel dominio dell’amore greco – ossia «l’indicibile vizio
dei greci» aggirato da E. M. Forster in Maurice (1914 – pubbl. 1971) e
condannato ancora a crimine contro natura nell’Inghilterra edoardiana – che nel
mondo chiuso della scuola ravvivava l’antica fiamma in nome dell’immacolato
amore per i ragazzi.
Della sotterranea etica omoerotica alla base dell’educazione standard dei
giovani inglesi, non sempre amorevole e lieta, Brooke era di fatto consapevole,
pur dipingendo la scuola come il suo personale Olimpo:
> “Finalmente ho capito dove sono finiti gli Dèi greci al giorno d’oggi. Si
> possono trovare nelle scuole private. Li vedo di continuo, immersi nel sole a
> primavera, velatamente camuffati, dai lombi morbidi e gli occhi vivi, mentre
> corrono sull’erba, giovani e belli. L’Olimpo è qui e ora. Mi nutro del nettare
> della vita, dalle mani di Ganimede, e in mezzo ai miei giovani Dèi ignari
> adesso ti scrivo estasiato.”
Avrebbe invece parodiato senza soggezione il vorticoso regime scolastico,
avvertendo in esso qualcosa di paradossale: un silenzio gravido di colpe che
racchiudeva rischi nefasti ammessi dai suoi stessi giudici obiettori.
Preoccupato di ricoprire, anni dopo, il posto di sostituto del padre appena
deceduto e così ripiombare nella vecchia scuola, questa volta in veste di
insegnante (quando fu perfino obbligato a fustigare un ragazzino colpevole,
finendo lui stesso in lacrime), riporterà in tono ironico e beffardo a James
Strachey, il confidente di sempre ed ex compagno di studi nella scuola
preparatoria di Hillbrow: “Questo mi renderà un bravo maestro di prep-school? Mi
farà tornare forse all’antica e ortodossa pratica della pederastia?”
Convinto della sua purezza di cuore, per preservare le sue emozioni
dall’ingiusto bollo di indecenza, il poeta in erba aveva scelto per il suo amico
adorato l’appellativo di “Antinoo”. Entrato in possesso di una stampa
dell’antico prototipo, conservava la fotografia della sua reincarnazione,
lontano da occhi indiscreti, all’interno del suo armadio. Per trasfigurare il
compagno in panni greci, come solo si poteva nello spazio immortale della
lirica, proprio a Sadler dedicò un inno votato al tragico bitinio, dopo aver
letto tutto d’un fiato e in segreto la struggente epistola De Profundis di Oscar
Wilde, fra le opere degli idoli decadenti alle cui fonti il neofita si
abbeverava negli anni di formazione. Il testo della poesia non ci è pervenuto,
almeno integralmente, ne resta però un frammento ritrovato nei suoi quaderni
giovanili, che detta nella chiusa: «Meglio che tu [Antinoo] rimanga sempre al
nostro fianco».
Una pletora di materiali inediti è tenuta, tra l’altro, ancora sotto chiave nei
cassetti degli archivi universitari del King’s College Cambridge e nei meandri
di fondi privati. Finito in mezzo a svariati componimenti, fogli d’appunti
sparsi, diari segreti e numerosissime lettere, comprendenti gli stessi scambi
con Michael, il manoscritto andò disperso alla morte dell’autore, probabilmente
bruciato per mano di Geoffrey Keynes. Zelante erede testamentario del Brooke
Trustee, l’amico premuroso assunse il ruolo di più accanito difensore delle sue
carte, preferendo occultare la presenza di materiale ritenuto altamente
compromettente circa la sessualità del nobile poeta-eroe, appena scomparso in
Grecia, per non macchiarne la reputazione creata, dal lato pubblico, sull’onda
della canonizzazione postuma.
Solamente a partire dagli anni Ottanta, importanti rivelazioni sui legami
maschili della fase Rugby di Brooke sono venute alla luce dallo spoglio
capillare dei suoi epistolari, da qui svelate nelle più accreditate biografie.
Le amicizie romantiche di quegli anni sono nutrite di tenerezza e pulsioni
ludiche, condivise con l’affascinante Charles Lascelles e il più giovane Denham
Russell-Smith. Con quest’ultimo, una notte d’autunno del 1909, il ragazzo ancora
immaturo avrebbe compiuto il decisivo passo iniziatico durante una leggera
«Danza delle lenzuola» nella libertà della sua casa di campagna a Grantchester.
Il racconto sincopato e catartico di quella esperienza irripetibile si può
leggere in una lunga confessione indirizzata per lettera a James Strachey,
datata al luglio 1912, nel carteggio tra i due (Friends and Apostles: The
Correspondence of Rupert Brooke and James Strachey, 1905-1914, a cura di Keith
Hale, 1998). Ma se la liaison con il fidato Denham bastò come attardato rito di
passaggio e di transizione al mondo adulto, dopo aver ripetuto a suo modo – al
di fuori della cappa scolastica – i vecchi e imprescindibili codici che
giustificavano una tale passione, l’affetto per Sadler sarebbe rimasto soffocato
negli abissi del tempo, relegato al ricordo di una forma d’amore puro e
inviolato.
Amici e Apostoli. Le lettere di Rupert Brooke e James Strachey
Queste relazioni maschili si limitano, tuttavia, alla sola fase giovanile degli
anni di scuola, inquadrate nell’ottica di un preciso sistema socio-culturale
permeato dal tipo di educazione d’impronta public school, perfettamente
riconoscibile nell’Inghilterra del tempo, con tutte le coercizioni etiche che
comportava, insieme alla messe di sentimenti inespressi dai giovani camerati.
Diverso è il caso delle amicizie intellettuali formate nei circoli a stampo
omoerotico di Cambridge, dove la tradizione classica continuava entro gruppi
elitari e confraternite segrete animate da cori autonomi, come i discepoli
Neo-platonici radunati attorno a G. M. Moore (il celebre filosofo autore
dei Principia Ethica) e Goldsworthy Lowes Dickinson (A Modern Symposium; A Greek
view of Life), o con le dolci attrazioni di George Mallory (maestro nella
sontuosa Charterhouse e primo scalatore dell’Everest), del matematico Harry
Norton e le file di ragazzi che il bellissimo studente del King’s attirava di
continuo con la sua avvenenza fuori dal comune. Eppure, per quanto se ne sappia,
il Brooke maturo non ebbe mai più il desiderio – per tacere dell’unica avventura
di Grantchester – di riportare quegli amori proibiti alla luce della fase
adulta. Il passato restava immerso in una crisalide dorata e il suo ricordo
rimaneva intatto nei versi, dove i compagni vengono proiettati nell’etere
poetico in visioni di arcangeli e dèi pagani dipinti come «angeli adoranti» o
«impassibili immortali» (In Examination, 1908).
Sebbene la cultura omosessuale abbia cercato ostinatamente di appropriarsi della
sua icona, sollevandolo a corifeo di un movimento di liberazione ante litteram e
accomunandolo ai più radicali Bloomsburiani come alle embrionali discussioni
intorno all’amore al maschile di Uraniani e Apostoli, Brooke sfugge ancora una
volta a ogni possibile definizione, superando fragili etichette, categorie
marcate e tendenze che non condivideva del tutto e in cui non si lascia
incasellare per sua natura. Com’è riuscito in vita a partecipare ad ogni
occasione di scambio intellettuale coi suoi contemporanei e ad oltrepassare ogni
cerchia racchiusa in un sistema univoco di pensiero e di condotta, conservando
sempre il suo spirito, la sua assoluta individualità e la forte abilità
mimetica, egli resta – in tutti i suoi aspetti, dubbi e conflitti irrisolti
– una creatura umana dal profilo del camaleonte, capace di essere – a suo dire –
«una cosa diversa con ognuno»: un outsidernascosto dietro il membro
dell’élite calato nel pieno del sistema. La sua raison d’être risiede invero nel
porsi al limite di tutte le contraddizioni, accettando di volta in volta le mute
naturali e le diverse maschere, giocando con esse in posa tipicamente byroniana,
consapevole della propria unicità. Rifiutando ogni ruolo imposto dall’esterno e
facendo sentire la sua posizione di taglio netto, comprensibile in parte per la
cornice storica in cui s’iscrive e per via delle sue complesse inclinazioni
personali, in una nota privata su “Shakespeare e il Puritanesimo” richiamava la
natura anfibia di altri personaggi di genio:
> “La verità è che certi grandi uomini sono sia sodomiti sia dongiovanni:
> Shakespeare, Michelangelo, e via dicendo. La pura sodomia è soltanto un dolce
> vezzo dei giovani […] Questa è la regola generale…”
Prima di trovare sé stesso, la propria forza poetica e voce d’artista sotto le
guglie di Cambridge, Rupert Brooke era stato davvero felice soltanto nella
casa-scuola di Rugby, dove incarnava l’enfant roi immerso in un’aura di
spensieratezza respirata a pieni polmoni, a cui invano avrebbe cercato di fare
ritorno dopo i vent’anni, rifugiandosi in un immaginario di fanciullezza eterna
e fantasticherie fiabesche à la Peter Pan: la sua ossessione fuori e dentro le
sale di teatro solcate innumerevoli volte. Mai più ci sarebbe stata per lui una
simile innocenza, un giardino delle delizie aperto a tutti i suoi sogni ad occhi
aperti.
> “Sono stato felice a Rugby più di quanto riesca a trovare parole per
> esprimerlo. Se ripenso a quei cinque anni, ogni ora mi appare dorata e
> raggiante, sempre più carica in bellezza man mano che me ne rendessi conto.
> Non riuscirei e non riesco a sperare, né a immaginare, così tanta felicità
> altrove.”
Terminato il puerile gioco con Sadler e dovendo adesso rinunciare all’«oro del
Paradiso di Rugby» da cui si sentiva bandito, l’allontanamento dalle amicizie
sorte tra i banchi di scuola si sommava alle perdite di quegli anni che gli
risuonavano come la caduta delle illusioni della prima giovinezza. Il dolore per
l’assenza e la separazione dagli amici – per primi Charles e Michael – contribuì
al senso di sperdimento emotivo reso più acuto dalla notizia della loro partenza
per l’altra prestigiosa università. “Sono fatto per Oxford”, dichiarerà Rupert
alla fine dell’estate. Ciononostante, il suo cammino era tracciato per
Cambridge, dov’è era diretto in ottobre al college frequentato dalle cime della
famiglia.
Avviluppato nell’importante passaggio tra due mondi, non era pronto a lasciarsi
alle spalle ciò che di più bello e puro aveva conosciuto e amato lì a Rugby.
Ormai tutto faceva parte del passato e del tempo trascorso con gli amici non
rimaneva che un tumulo di ricordi pronto a sommergerlo di tristezza, ma a questi
si aggrappava nei momenti di sconforto con un angoscioso rimorso per quello che
non era stato, intervallato dalla nostalgia per la felicità dei giorni di
scuola. Era il patto unico che aveva stretto con loro a rimanere, a consumarlo
nella memoria, a spingere ardore e desiderio nelle sue vene, offrendogli
sollievo quando più si sentiva solo nelle lunghe e fredde notti insonni,
tormentato dai fantasmi. Questa ondata di malinconia cedette presto il passo
all’arida consapevolezza che quegli istanti e tutti loro erano andati via per
sempre, prendendo ciascuno la propria strada, e neppure l’attesa più fedele
avrebbe colmato il vuoto dell’assenza che avvertiva dentro di sé, a scavargli il
cuore. Scomparsi uno ad uno come spettri, tramutati in strane ombre nel ricordo,
per tutta la vita li avrebbe portati nei suoi sogni di innocenza. Come se non
bastasse, la realizzazione precoce che il meglio della giovinezza fosse svanito
fra le sue «ore dorate» (Second Best, 1908) lo dilaniava con terribile
sconcerto, portandolo a descriversi nei periodi più bui come un ragazzo dal
cuore spezzato o “un pallido fantasma che ha vissuto un tempo e ora può
solamente sognare”.
Messi da parte i propri dolori, i due vecchi amici di Rugby ebbero l’occasione
di ritessere i rapporti negli anni a venire, riprendendo a scriversi con
disinvoltura e frequentando comuni circoli intellettuali nella Londra
d’anteguerra. Mentre Brooke vedeva pubblicati i suoi primi Poems (1911) e
parallelamente eccelleva nella vita accademica, concentrato nella sua tesi su
Webster (John Webster and the Elizabethan Drama, 1916), il geniale Sadleir
sfrecciava come una saetta sul trampolino di lancio di una brillante carriera
letteraria, cominciando la collaborazione con gli uffici della rinomata casa
editrice Constable, di cui prese le redini a soli ventiquattro anni. Interessati
non solo alle materie letterarie, entrambi aderirono con entusiasmo al progetto
promosso da John Middleton Murry (marito di Katherine Mansfield) nella rivista
d’avanguardia Rhythm, impegnandosi su più fronti nella ricezione delle opere di
artisti moderni come Vasilij Kandinskij: da Cambridge, Brooke informò il lontano
pittore russo del suo successo in Inghilterra, mentre Sadleir tradusse per lui
il saggio Concerning the Spiritual in Art (1912) sulle «vibrazioni dell’anima»
in pittura. Assieme parteciparono alle mostre più importanti dell’epoca, tra cui
l’oscena retrospettiva post-impressionista del 1910, organizzata da Roger Fry
alle Grafton Galleries (e recensita da Brooke sul Cambridge Magazine), che
cambiò il volto dell’arte moderna scuotendo gli occhi scettici degli inglesi con
un duro colpo.
Al termine dell’inverno 1913, nel pubblico finemente selezionato per la lettura
della prima e unica opera teatrale del poeta-drammaturgo, la sua
tetra Lithuania (pubblicata postuma; tr. Nora Menascé, 2004), siederà fra i vari
ospiti accorsi ad ascoltarlo nelle sue stanze – il musicista Denis Browne e il
pittore Duncan Grant, dietro Sir Edward Marsh e George Mallory – anche il
cresciuto Antinoo in prima fila.
New Paths: Verse, Prose, Pictures (1918), a cura di Michael Sadleir
Infine, dopo la scomparsa in guerra del giovane volontario nell’aprile 1915,
devastato dalla sua perdita, Sadleir stese di suo pugno un “In Memoriam” per
l’ammirato poeta, circolante per qualche tempo su un periodico indiano (di cui
purtroppo si è perduta ogni traccia) e accluso da lui in una tenera lettera di
condoglianze alla madre, Mrs. Brooke o, per gli amici, la “Rani”. D’altra parte,
il vecchio compagno di scuola, ormai famoso collezionista, editore e dichiarato
pacifista (assunto finanche al ruolo di delegato britannico al tavolo della
Conferenza di Parigi), tenne fede al compito di curare, sotto la sua firma e
quella di Cyril W. Beaumont, una maestosa raccolta che avrebbe riunito le opere
scelte fra i più influenti poeti, scrittori e artisti della modernità. New
Paths: Verse, Prose, Pictures 1917-1918 nasceva nel ’18 da un formidabile elenco
di personalità di spicco nel panorama artistico britannico: piume del calibro di
Harold Monro, Aldous Huxley e D. H. Lawrence, miste ai pennelli di Augustus
John, Walter Sickert, Mark Gertler e altri talenti pronti a bussare alle porte
del nuovo secolo, sempre ricordando il nome di coloro che avevano speso la vita
in difesa dell’arte prima di sacrificarla per amore della patria, i quali
certamente si sarebbero aggiunti agli ultimi «pionieri lungo nuove rotte in
campo di arti e letteratura». La prima pagina del volume riporta, in doveroso
tributo, l’iscrizione dedicata «Alla memoria di Rupert Brooke».
Pierluigi Piscopo
In copertina: Rupert Brooke (1887-1915)
*La scelta e la traduzione degli estratti dalle lettere sono di Pierluigi
Piscopo
L'articolo “Mi nutro del nettare della vita”. Rupert Brooke e il genio della
giovinezza proviene da Pangea.