
Interrogando le tenebre. Denis Johnson, il poeta
Pangea - Monday, September 1, 2025…è per Simone Cattaneo (1974-2009)
Diciamo che il 2012 è il nostro Cape Canaveral. In questo viaggio interstellare – che significa: lacrimare tutte le costellazioni, una per una, fino al vuoto, fino al cosmo in una tazza – cominciamo dal 2012. Settembre 2012, numero 67 di “Atelier”, “La fine dell’opera comune”. Il numero è dedicato a Simone Cattaneo, poeta di lirica violenza, che ha scelto di farla finita nel settembre del 2009. Aveva trentacinque anni, Simone; Atelier aveva pubblicato i suoi libri, di carnivora luce, Nome e soprannome (2001) e Made in Italy (2008). Quell’anno – il 2012 – Il Ponte del Sale pubblica tutte le poesie di Cattaneo, compresa l’ultima raccolta, Peace & Love. Simone mi era amico, fraterno. Compivamo gli anni lo stesso mese, a quattro giorni di distanza: un giorno, in febbraio, mi regalò un concerto di Lou Reed, a Milano. Posti in prima fila. Gli rubarono la macchina. Restò a dormire da me. Scrisse della sua morte sul “Giornale”; il titolo, pur viscerale – “Per essere notati dalla critica bisogna buttarsi dalla finestra” – non sortì alcun effetto: al sistema clientelare e nepotistico della cultura italica, si è sommata, oggi, una generica, sonnambula melassa lirica. Il condono servile di ogni crimine estetico.
Torno in me. Nel numero di “Atelier” del settembre 2012, Riccardo Ielmini scrive una memoria, Simone, Dejan Stankovic, Walter Zenga (e anche io), di commossa bellezza. Ielmini rievoca un incontro con Simone. È venerdì, mezzogiorno, “sei giorni prima che tutto finisca, maledizione”. Simone sale al lago, a Laveno, per un gelato – è sera. A un certo punto, Simone parla di Denis Johnson. “Senti, e quell’idea su Denis Johnson?”. L’idea. “Provare a tradurre le sue poesie inedite in Italia”. Simone adorava Denis Johnson. Amava le sue poesie. Me ne parlava da anni – da quando abbiamo preso a vederci – dal 2001, dall’inizio di questo millennio Cerbero. “Sai che la traduttrice di Johnson è una mia concittadina?”, fa Simone a Riccardo. Silvia Pareschi. Diversi anni dopo, qualche anno fa, nel 2019, ho intervistato Silvia Pareschi.
Denis Johnson ha scritto alcuni dei romanzi più potenti degli ultimi decenni di letteratura americana. Ne cito due. Albero di fumo (2007) e Mostri che ridono (2014). In Italia, Denis Johnson è stato tradotto per la prima volta da Delfina Vezzoli, per Feltrinelli: Angeli (1983) e Fiskadoro (1985) sono ormai dei reperti editoriali. Il libro che più lo rappresenta, però, è Jesus’ Son (1992), allucinata raccolta di racconti che narra di un mondo virgineo all’apocalisse, di lisergica crudeltà. Era il libro preferito da Simone. Silvia Pareschi lo ha ritradotto per Einaudi nel 2018. Per questo l’ho intervistata.
“È il libro di culto della letteratura americana contemporanea – è scritto in una lingua spoglia e luminosa che ricorda per certi versi Hemingway e Carver (il quale era stato insegnante di Denis Johnson all’Iowa Writer’s Workshop). È proprio grazie a questa lingua che Johnson riesce a trasformare una serie di personaggi falliti e marginali in angeli dannati di proporzioni mitiche. Le loro disavventure sono raccontate con una prosa diretta e disadorna, il prodotto di una mente annebbiata che attribuisce la medesima importanza a ogni cosa, che sia una nuvola o un cadavere. E ogni tanto, in questa prosa imperturbabile, spuntano senza preavviso momenti di intensa poesia”.
Ecco. Denis Johnson nasce alla letteratura come poeta: esordisce a vent’anni, nel 1969, con The Man Among the Seals. Nel 1982 Mark Strand sceglie The Incognito Lounge (raccolta di Johnson edita da Random House) come miglior libro per i “National Poetry Series”. A differenza di altri romanzieri americani – da Hemingway a Faulkner a una quantità di altri – per cui la poesia è un gioco secondario, un modo per sgranchire la scrittura, Denis Johnson è sostanzialmente un poeta – e il poeta, giudizio mio, è a tratti più grande del romanziere. L’ultima sostanziosa raccolta, The Throne of the Third Heaven of the Nations Millennium General Assembly, è del 1995; pur continuando a tosare il giardino lirico, Johnson ha trasferito la propria natura poetica nel romanzo. È trasmigrato dalla poesia al romanzo. Dai suoi libri hanno tratto dei film. È morto nel 2017, Johnson, per un cancro al fegato. Si è sposato tre volte. A suo tempo, gli cucii il ‘coccodrillo’; attaccava così:
“Prendi Joseph Conrad, drogalo a dovere, e fagli fare un giro a Las Vegas. Il risultato ti darà Denis Johnson, il Lord Jim della letteratura contemporanea, duce nel sottosuolo del romanzo americano. Nato incidentalmente in Germania, nel 1949, incidentalmente è stato un alunno di Raymond Carver. Faccia da colosso hollywoodiano, un po’ Michael Madsen un po’ Jeff Bridges, Denis, speleologo delle ambiguità, comincia – e continua – come poeta… ha fatto letteratura interrogando le tenebre”.
Alcuni suoi pionieristici reportage – pubblicati su “Esquire”, “Salon”, “Paris Review” – come The Militia in Me, prefigurano con micidiale lungimiranza gli Stati Uniti di oggi (in Italia, li ha raccolti & pubblicati, nel 2004, Alet come Cronache anarchiche, ennesimo libro fuori orbita da tempo). Raymond Carver, poeta ben più modesto di lui, era un fan della poesia di Denis Johnson, “La sua materia lirica, dolorosamente efficace, non è altro che un’analisi nelle zone oscure della condotta umana”.

In università, ogni anno, leggo un racconto di Denis Johnson. S’intitola Incidente durante l’autostop, è il racconto che apre Jesus’ Son. Il protagonista è un tossico. A un certo punto, il tossico è in ospedale, reduce – senza un graffio – dell’incidente che dà il titolo al racconto. Una donna, “magnifica, ardente”, varca la soglia dell’ospedale. Il marito è morto. Lei non lo sa ancora.
“Il medico l’ha portata in una stanza con una scrivania in fondo al corridoio, e da sotto la porta chiusa si è sprigionata una lastra di fulgore, come se, grazie a qualche stupefacente processo, lì dentro stessero incenerendo dei diamanti. Che polmoni! Strillava come avrebbe potuto strillare un’aquila. Che meraviglia essere vivo per poterla sentire! Da allora non ho più smesso di cercare quella sensazione”.
All’immagine abbagliante – incenerire i diamanti – si lega la contorsione morale di un infermo nell’anima che sugge i capezzoli del dolore altrui, li strappa a morsi. L’aula, di solito, a lettura terminata, si trasforma in una ghiacciaia. La grandezza cuce le labbra – l’abnorme umano ci fa lo scalpo.
Ogni volta che leggo le poesie di Denis Johnson mi ricordo una poesia di Simone Cattaneo, quel frantume di versi che detta un codice, una sorta di regola di vita:
“ho scavato la mia carne
come fosse una vela
e ho gettato sabbia sopra il pianto
ho creduto nella pena del silenzio,
nella domanda liscia della fame”.
Mi pare che le poesie di Denis Johnson, extracanoniche, apocrife alle mode imperanti, siano tra le più belle della poesia americana di oggi. Mi ricordano i film di David Lynch, gli esseri piumati che appaiono nei sogni dei nativi e che impaniano le visioni dei deliranti. Gli animali aurorali – il corvo, ad esempio, bestia-guida nella poesia di Ted Hughes – hanno perso i poteri ctoni, la mente è un reclusorio, al poeta non basta più costruire una propria mitologia da comodino, un proprio alcolico aldilà. I segni sono sconnessi e questo disequilibrio da cancelli dissigillati e soffitte senza sottana è il regno di parole cannibale, di frasi mercenarie.
In fondo, Denis Johnson è l’ultimo degli sciamani – fa la sua solitaria danza e le stelle si approssimano alla finestra con musi da cerbiatto.

**
Corvo
Balugina il corvo sul morto ramo
sotto cui siamo passati, forse, tempo fa.
Il nostro pastore era un demone e un falsario:
ha cosparso sul nostro matrimonio una ghirlanda
di pioggia, quella stessa fredda pioggia adolescente
nelle cui raffiche si avvolgono i sempreverdi
tra memoria e memorabile.
Oh, certo, nessuno ha assistito a quel triste spettacolo
durato notte e giorno – il suo treno fu un treno di anni.
Da quel momento, secondo
i miei calcoli, ho vissuto tre vite,
una nella magia, l’altra nel potere, infine
nella pace – e ancora
la piccola ferita pari a un pozzo
nel truce buio e chi
dovrebbe respirare vede sogni
diventa pallido, contagiato da una musica.
Ma il corvo non è Dio e il vento
non è Dio e niente è Dio
e questo non ci fa desistere
dalle trasgressioni commesse per ignoranza.
*
Poesia che mette in discussione l’esistenza del mar
nello stesso, esatto modo
in cui gli animali sono gettati
sulla sabbia, terrorizzati
dopo tanti eoni, all’improvviso
dall’oscurità del mare
un elevato numero
di bambini si tuffa ogni giorno nel grande
spasmo evolutivo dell’utero
di pallide, disarticolate donne. è ampio
e vuoto il luogo dove sono
ora, anni dopo, e flottano
drasticamente ai fianchi
contro il flipper. fuori
il gemito detective di quell’
impossibile bimbo che ribalta le strade
mentre manovra l’odiosa macchina
come una grande nave
tra le onde della vita. un po’
confuso, come sempre, osservo
le costruzioni crescere sotto il cielo
sapendo che presto dovrò
diventare lui, eludere
i miei figli e schiaffeggiare le onde
nella sapiente ebbrezza. tremo
come un vecchio indiano, elemosino
un po’ di pioggia su questo deserto.
*
In una stanza d’affitto
questo è un buon sogno, anche se svanisce
non è meno reale, anche se i miei piedi si
sbricioleranno sul pavimento in agguato. la gola
è arsa e mi sveglio in una stanza vuota quanto
la mia presenza: assenza di aspirine. lì
l’asfittica sorpresa del sole, l’alba. là
macchine e strade che si snodano secondo
il solito criterio. la stanza non vuole vomitarmi. deve
aprire il cuore, comunicare con le altre subacquee
stanze in cui ho massacrato il mio corpo nel nimbo
delle lenzuola e sbando verso le vie per placare l’arsura.
che cosa impari, stanza? che cosa hai detto, perché le macchie
gli occhiali accusatori puntati verso il mio
ritorno? c’era una ragazza un tempo. vorrebbe
sapere da dove viene la colpa che ronza
sul letto e crolla come una mano indifferente
che mi annienta. vorrebbe aiutarmi mentre l’universo
mi ha mentito ancora, lo sberleffo è andato troppo oltre
l’arsura, rampicante, profonda, resta dopo bottiglie
e bottiglie e sono a un dito dalla morte e devo
conficcare il mio corpo in migliaia di vuote
oscurità prima di assurgere al sonno, prima di sognare.
*
Elogio della distanza
è difficile restare poeta
quando l’inverno ti scivola
dal palmo della mano: questi
sono guai. la macchina scompare
inabile al dolore, nel parcheggio. si
accartoccia su un ginocchio come
un elefante, stupefatta
dai proiettili famelici dell’inverno.
il cimitero vacilla
lontano. la macchina non starà
ancora a lungo tra me e i debiti
che mi attendono davanti a casa. non me
ne andrò più a sfinire le miglia come
se la distanza fosse la sola sicurezza
come se si potesse sbattere
una portiera in faccia alla pena.
mia moglie dice: trovati un
lavoro. ma una volta avevo un cane
i cui organi vitali divennero
un caos sotto il vello, e ne morì;
non lascerò il regno animale
finché non diventerà un albero.
tenderò le narici
verso la solitaria giaculatoria
del suo collare che crollava sugli edifici:
qualche segno mi informerà del suo
ritorno. le mie mani non
sono quelle di un indovino; l’inverno
le gonfia di difficoltà. se si è perso
lo troveranno gli agricoltori che sperano
nella primavera, scorgeranno la sua voce
tra gli oceanici campi di mais,
mentre cerca un posto dove
riposare. intanto, lo attendo
alla finestra:
ho il sospetto che il senso delle cose
resterà irrisolvibile.
Traduzione di Federico Scardanelli
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