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Interrogando le tenebre. Denis Johnson, il poeta
…è per Simone Cattaneo (1974-2009) Diciamo che il 2012 è il nostro Cape Canaveral. In questo viaggio interstellare – che significa: lacrimare tutte le costellazioni, una per una, fino al vuoto, fino al cosmo in una tazza – cominciamo dal 2012. Settembre 2012, numero 67 di “Atelier”, “La fine dell’opera comune”. Il numero è dedicato a Simone Cattaneo, poeta di lirica violenza, che ha scelto di farla finita nel settembre del 2009. Aveva trentacinque anni, Simone; Atelier aveva pubblicato i suoi libri, di carnivora luce, Nome e soprannome (2001) e Made in Italy (2008). Quell’anno – il 2012 – Il Ponte del Sale pubblica tutte le poesie di Cattaneo, compresa l’ultima raccolta, Peace & Love. Simone mi era amico, fraterno. Compivamo gli anni lo stesso mese, a quattro giorni di distanza: un giorno, in febbraio, mi regalò un concerto di Lou Reed, a Milano. Posti in prima fila. Gli rubarono la macchina. Restò a dormire da me. Scrisse della sua morte sul “Giornale”; il titolo, pur viscerale – “Per essere notati dalla critica bisogna buttarsi dalla finestra” – non sortì alcun effetto: al sistema clientelare e nepotistico della cultura italica, si è sommata, oggi, una generica, sonnambula melassa lirica. Il condono servile di ogni crimine estetico.  Torno in me. Nel numero di “Atelier” del settembre 2012, Riccardo Ielmini scrive una memoria, Simone, Dejan Stankovic, Walter Zenga (e anche io), di commossa bellezza. Ielmini rievoca un incontro con Simone. È venerdì, mezzogiorno, “sei giorni prima che tutto finisca, maledizione”. Simone sale al lago, a Laveno, per un gelato – è sera. A un certo punto, Simone parla di Denis Johnson. “Senti, e quell’idea su Denis Johnson?”. L’idea. “Provare a tradurre le sue poesie inedite in Italia”. Simone adorava Denis Johnson. Amava le sue poesie. Me ne parlava da anni – da quando abbiamo preso a vederci – dal 2001, dall’inizio di questo millennio Cerbero. “Sai che la traduttrice di Johnson è una mia concittadina?”, fa Simone a Riccardo. Silvia Pareschi. Diversi anni dopo, qualche anno fa, nel 2019, ho intervistato Silvia Pareschi.  Denis Johnson ha scritto alcuni dei romanzi più potenti degli ultimi decenni di letteratura americana. Ne cito due. Albero di fumo (2007) e Mostri che ridono (2014). In Italia, Denis Johnson è stato tradotto per la prima volta da Delfina Vezzoli, per Feltrinelli: Angeli (1983) e Fiskadoro (1985) sono ormai dei reperti editoriali. Il libro che più lo rappresenta, però, è Jesus’ Son (1992), allucinata raccolta di racconti che narra di un mondo virgineo all’apocalisse, di lisergica crudeltà. Era il libro preferito da Simone. Silvia Pareschi lo ha ritradotto per Einaudi nel 2018. Per questo l’ho intervistata.  > “È il libro di culto della letteratura americana contemporanea – è scritto in > una lingua spoglia e luminosa che ricorda per certi versi Hemingway e Carver > (il quale era stato insegnante di Denis Johnson all’Iowa Writer’s Workshop). È > proprio grazie a questa lingua che Johnson riesce a trasformare una serie di > personaggi falliti e marginali in angeli dannati di proporzioni mitiche. Le > loro disavventure sono raccontate con una prosa diretta e disadorna, il > prodotto di una mente annebbiata che attribuisce la medesima importanza a ogni > cosa, che sia una nuvola o un cadavere. E ogni tanto, in questa prosa > imperturbabile, spuntano senza preavviso momenti di intensa poesia”. Ecco. Denis Johnson nasce alla letteratura come poeta: esordisce a vent’anni, nel 1969, con The Man Among the Seals. Nel 1982 Mark Strand sceglie The Incognito Lounge (raccolta di Johnson edita da Random House) come miglior libro per i “National Poetry Series”. A differenza di altri romanzieri americani – da Hemingway a Faulkner a una quantità di altri – per cui la poesia è un gioco secondario, un modo per sgranchire la scrittura, Denis Johnson è sostanzialmente un poeta – e il poeta, giudizio mio, è a tratti più grande del romanziere. L’ultima sostanziosa raccolta, The Throne of the Third Heaven of the Nations Millennium General Assembly, è del 1995; pur continuando a tosare il giardino lirico, Johnson ha trasferito la propria natura poetica nel romanzo. È trasmigrato dalla poesia al romanzo. Dai suoi libri hanno tratto dei film. È morto nel 2017, Johnson, per un cancro al fegato. Si è sposato tre volte. A suo tempo, gli cucii il ‘coccodrillo’; attaccava così:  > “Prendi Joseph Conrad, drogalo a dovere, e fagli fare un giro a Las Vegas. Il > risultato ti darà Denis Johnson, il Lord Jim della letteratura contemporanea, > duce nel sottosuolo del romanzo americano. Nato incidentalmente in Germania, > nel 1949, incidentalmente è stato un alunno di Raymond Carver. Faccia da > colosso hollywoodiano, un po’ Michael Madsen un po’ Jeff Bridges, Denis, > speleologo delle ambiguità, comincia – e continua – come poeta… ha fatto > letteratura interrogando le tenebre”.  Alcuni suoi pionieristici reportage – pubblicati su “Esquire”, “Salon”, “Paris Review” – come The Militia in Me, prefigurano con micidiale lungimiranza gli Stati Uniti di oggi (in Italia, li ha raccolti & pubblicati, nel 2004, Alet come Cronache anarchiche, ennesimo libro fuori orbita da tempo). Raymond Carver, poeta ben più modesto di lui, era un fan della poesia di Denis Johnson, “La sua materia lirica, dolorosamente efficace, non è altro che un’analisi nelle zone oscure della condotta umana”.  In università, ogni anno, leggo un racconto di Denis Johnson. S’intitola Incidente durante l’autostop, è il racconto che apre Jesus’ Son. Il protagonista è un tossico. A un certo punto, il tossico è in ospedale, reduce – senza un graffio – dell’incidente che dà il titolo al racconto. Una donna, “magnifica, ardente”, varca la soglia dell’ospedale. Il marito è morto. Lei non lo sa ancora.  > “Il medico l’ha portata in una stanza con una scrivania in fondo al corridoio, > e da sotto la porta chiusa si è sprigionata una lastra di fulgore, come se, > grazie a qualche stupefacente processo, lì dentro stessero incenerendo dei > diamanti. Che polmoni! Strillava come avrebbe potuto strillare un’aquila. Che > meraviglia essere vivo per poterla sentire! Da allora non ho più smesso di > cercare quella sensazione”.  All’immagine abbagliante – incenerire i diamanti – si lega la contorsione morale di un infermo nell’anima che sugge i capezzoli del dolore altrui, li strappa a morsi. L’aula, di solito, a lettura terminata, si trasforma in una ghiacciaia. La grandezza cuce le labbra – l’abnorme umano ci fa lo scalpo.  Ogni volta che leggo le poesie di Denis Johnson mi ricordo una poesia di Simone Cattaneo, quel frantume di versi che detta un codice, una sorta di regola di vita: > “ho scavato la mia carne > come fosse una vela > e ho gettato sabbia sopra il pianto > ho creduto nella pena del silenzio, > nella domanda liscia della fame”. Mi pare che le poesie di Denis Johnson, extracanoniche, apocrife alle mode imperanti, siano tra le più belle della poesia americana di oggi. Mi ricordano i film di David Lynch, gli esseri piumati che appaiono nei sogni dei nativi e che impaniano le visioni dei deliranti. Gli animali aurorali – il corvo, ad esempio, bestia-guida nella poesia di Ted Hughes – hanno perso i poteri ctoni, la mente è un reclusorio, al poeta non basta più costruire una propria mitologia da comodino, un proprio alcolico aldilà. I segni sono sconnessi e questo disequilibrio da cancelli dissigillati e soffitte senza sottana è il regno di parole cannibale, di frasi mercenarie.  In fondo, Denis Johnson è l’ultimo degli sciamani – fa la sua solitaria danza e le stelle si approssimano alla finestra con musi da cerbiatto.  ** Corvo Balugina il corvo sul morto ramo sotto cui siamo passati, forse, tempo fa. Il nostro pastore era un demone e un falsario: ha cosparso sul nostro matrimonio una ghirlanda  di pioggia, quella stessa fredda pioggia adolescente nelle cui raffiche si avvolgono i sempreverdi tra memoria e memorabile.  Oh, certo, nessuno ha assistito a quel triste spettacolo durato notte e giorno – il suo treno fu un treno di anni.  Da quel momento, secondo  i miei calcoli, ho vissuto tre vite, una nella magia, l’altra nel potere, infine nella pace – e ancora la piccola ferita pari a un pozzo nel truce buio e chi dovrebbe respirare vede sogni diventa pallido, contagiato da una musica.  Ma il corvo non è Dio e il vento non è Dio e niente è Dio e questo non ci fa desistere dalle trasgressioni commesse per ignoranza.  * Poesia che mette in discussione l’esistenza del mar nello stesso, esatto modo in cui gli animali sono gettati sulla sabbia, terrorizzati dopo tanti eoni, all’improvviso dall’oscurità del mare un elevato numero  di bambini si tuffa ogni giorno nel grande spasmo evolutivo dell’utero di pallide, disarticolate donne. è ampio e vuoto il luogo dove sono ora, anni dopo, e flottano drasticamente ai fianchi contro il flipper. fuori il gemito detective di quell’ impossibile bimbo che ribalta le strade mentre manovra l’odiosa macchina come una grande nave tra le onde della vita. un po’ confuso, come sempre, osservo le costruzioni crescere sotto il cielo sapendo che presto dovrò diventare lui, eludere i miei figli e schiaffeggiare le onde nella sapiente ebbrezza. tremo  come un vecchio indiano, elemosino un po’ di pioggia su questo deserto. * In una stanza d’affitto questo è un buon sogno, anche se svanisce non è meno reale, anche se i miei piedi si  sbricioleranno sul pavimento in agguato. la gola è arsa e mi sveglio in una stanza vuota quanto la mia presenza: assenza di aspirine. lì  l’asfittica sorpresa del sole, l’alba. là macchine e strade che si snodano secondo il solito criterio. la stanza non vuole vomitarmi. deve aprire il cuore, comunicare con le altre subacquee stanze in cui ho massacrato il mio corpo nel nimbo delle lenzuola e sbando verso le vie per placare l’arsura.  che cosa impari, stanza? che cosa hai detto, perché le macchie gli occhiali accusatori puntati verso il mio ritorno? c’era una ragazza un tempo. vorrebbe sapere da dove viene la colpa che ronza sul letto e crolla come una mano indifferente che mi annienta. vorrebbe aiutarmi mentre l’universo mi ha mentito ancora, lo sberleffo è andato troppo oltre l’arsura, rampicante, profonda, resta dopo bottiglie e bottiglie e sono a un dito dalla morte e devo conficcare il mio corpo in migliaia di vuote oscurità prima di assurgere al sonno, prima di sognare.  * Elogio della distanza è difficile restare poeta quando l’inverno ti scivola dal palmo della mano: questi  sono guai. la macchina scompare inabile al dolore, nel parcheggio. si accartoccia su un ginocchio come un elefante, stupefatta dai proiettili famelici dell’inverno.  il cimitero vacilla lontano. la macchina non starà  ancora a lungo tra me e i debiti che mi attendono davanti a casa. non me  ne andrò più a sfinire le miglia come se la distanza fosse la sola sicurezza come se si potesse sbattere  una portiera in faccia alla pena.  mia moglie dice: trovati un  lavoro. ma una volta avevo un cane i cui organi vitali divennero un caos sotto il vello, e ne morì; non lascerò il regno animale finché non diventerà un albero. tenderò le narici  verso la solitaria giaculatoria del suo collare che crollava sugli edifici: qualche segno mi informerà del suo ritorno. le mie mani non sono quelle di un indovino; l’inverno le gonfia di difficoltà. se si è perso lo troveranno gli agricoltori che sperano nella primavera, scorgeranno la sua voce tra gli oceanici campi di mais, mentre cerca un posto dove riposare. intanto, lo attendo  alla finestra: ho il sospetto che il senso delle cose resterà irrisolvibile.  Traduzione di Federico Scardanelli *Si pubblica per gentile concessione l’articolo che apre l’ultimo numero di “Poesia” (Crocetti Editore, n. 33, settembre-ottobre, 2025), in memoria di Simone Cattaneo L'articolo Interrogando le tenebre. Denis Johnson, il poeta proviene da Pangea.
September 1, 2025 / Pangea