
“Che non smetta mai di provare l’angoscia di imparare”. Qualcosa sull’IA (ahilei)
Pangea - Tuesday, September 23, 2025“L’innovazione, come l’evoluzione, è un processo indotto: vuol dire adeguarsi e adattarsi a un ambiente circostante, pena l’estinzione o l’irrilevanza.”
Alla pena dell’estinzione mi ci sto adeguando, adattando, ma all’irrilevanza quella no, perciò per tre giorni consecutivi, dal 15 al 17 settembre, ho comprato “Repubblica” non per leggere “Repubblica” ma per poter leggere i tre allegati-in-regalo, essendo gli allegati fin troppe volte l’unica ragione valida per acquistare i giornali le cui edizioni cartacee immediatamente superate dalle versioni digitali producono un istantaneo effetto nostalgia, assomigliando a quei provvedimenti ministeriali dell’istruzione secondo cui basterebbe impedire agli studenti di entrare con lo smartphone in classe per ostacolare l’onda dall’intelligenza artificiale generativa, sebbene
“immaginare una scuola senza di loro [gli strumenti digitali] significa condannare gli studenti a vivere la scuola come una macchina del tempo capace di viaggiare solo nel passato.”
Gli allegati sono stati L’intelligenza artificiale e lo studio Volume 1 e Volume 2 e L’intelligenza artificiale dallo studio al lavoro, di Federico Ferrazza, direttore di Italian Tech, che firma le tre introduzioni brevi a ciascun volumetto, e di Pier Luigi Pisa, il quale secondo una ricerca online è “un giornalista di Repubblica, un divulgatore e uno storyteller”. A lettura ultimata si sa qualcosa in più delle opportunità date dall’utilizzo dei chatbot nelle loro versioni più aggiornate ma ancora di più ci si può dare una stima su quanto stia aumentando il divario tra l’idea-del-mondo in cui è cresciuta la propria generazione e la nuova idea-del-mondo delle generazioni appresso e in corso – più è grande il divario più si può tirare un sospiro di sollievo per come le generazioni non si stiano dando il cambio solo in apparenza.
(Dubbio: dei chatbot o delle chatbot? Da veloce riscontro online: per lo Zingarelli Zanichelli chatbot è sostantivo maschile, per il Treccani sostantivo femminile. Dimmi che genere preferisci e ti dirò che dizionario online consulti.)
Ci andrei però piano con l’equiparare innovazione e evoluzione, perché se è vero che “Nessuno di noi umani ha scelto di avere due occhi” magari non è altrettanto inevitabile ricorrere alla tecnologia della IA per imparare a leggere e scrivere, vale a dire: per imparare a apprendere, a pensare; specie se si tratta di un tipo di tecnologia che alla lunga potrebbe rendere obsoleto non solo l’imparare a farlo ma anche il fatto stesso di avere due occhi o quattro o nessuno, presumendo la tecnologia di saperli usare comunque meglio lei di te quindi tanto vale li abbia lei e che tu coi tuoi ti affidi solo a quel che ti dice di aver visto, compilato, lei.

Certo, fa peso nel giudizio l’invidia di un lento lettore biologico e che nell’arco della sua intera esistenza non potrà mai competere con le intere bibliografie spazzolate da una IA nell’arco di pochi millisecondi, beata lei, ma si possono chiamare in soccorso i potenziali svantaggi riconosciuti dagli insegnanti che meritoriamente introducono i/le chatbot nei loro metodi didattici, quali la “fiducia cieca negli output dell’IA” e “la continua delega cognitiva”.
Quanta pigrizia nel voler fare le pulci a una tecnologia tra l’altro capace di risolversi i bug da sé e i cui punti di forza sono sotto gli occhi evoluti di tutti, capace com’è di rimodularsi in base alle esigenze e alle competenze di partenza di chiunque. L’interesse collettivo da perseguire, che equivale a quello strettamente personale di chi di quella collettività fa parte, resta perciò il procurarsi una conoscenza dell’IA che “prepara meglio i futuri cittadini ad avere gli strumenti di analisi critica della società che dovranno vivere”, poiché, ricorrendo a del buon senso pratico busiano, è bene avere consapevolezza del fatto che “Allinearsi al resto della società significa vuol dire accorgersi che il mondo è cambiato.”
A proposito (…) di Aldo Busi: quando ho letto dell’esistenza di Character.ai mi sono detto voilà, è fatta, per leggere il romanzo inedito Seminario sul postmortem basterà usarla. “Character.ai sfrutta modelli linguistici avanzati per creare personaggi interattivi – reali, fittizi o inventati – con cui parlare in linguaggio naturale.” A pagina 12 del Volume 2 ci sono le istruzioni: ti registri, fai l’accesso, scrivi il nome e inserisci l’immagine del personaggio, lo costruisci, lo alimenti con la sterminata bibliografia esistente, ed ecco, basterà chiedere all’Aldo-Busi-online di scrivere il suo Seminario sul postmortem per non dover più attendere quello dell’Aldo Busi sempre più offline, la cui ultima versione, del romanzo intendo, a quel che so ha raggiunto le 1420 pagine a schermo che corrisponderebbero all’incirca a 1900 pagine stampate. Per leggere un Seminario sul postmortem non si dovrà più aspettare che muoia Aldo Busi o che l’editoria italiana risorga arrivando per una volta prima e non dopo la morte di chi le dà senso scrivendo in un italiano che non sia la bella brutta copia dell’italiano fin lì già scritto, visto che ormai per quello bastano appunto i chatbot – perché va da sé che un chatbot non può scrivere niente di nuovo, che dunque non sa scrivere, perché non c’è nessuno che scriva, ma per dirlo con il diario della Sylvia Plath ventenne e sopravvissuta al primo tentativo di suicidio:
“Devi inventarti un sogno giusto, la lucida magia adulta: l’illusione che nasce dalla disillusione.”
Nessuno chiede all’Intelligenza Artificiale di scrivere letteratura, per carità, non pubblicamente almeno, basta aiuti a sviluppare mappe concettuali, a correggere i refusi nelle mail, a gamificare a più non posso, però qualcosa sul giudizio degli integrati estimatori dell’IA generativa a proposito della letteratura e delle superstiti facoltà umane del saper leggere e scrivere traspare, per esempio quando scrivono che Character.ai è “dove personaggi come Aristotele non sono volumi polverosi ma una guida capace di rispondere”. Quanto bisogna non-saper-leggere per presumere che con Aristotele si parli meglio dal vivo, mediato cioè dagli algoritmi, che non leggendone le opere, conoscendolo così nell’unico modo in cui sia possibile conoscere qualsiasi cosa, o persona: trascorrendoci assieme il giusto tempo.
È evidente che Ferrazza e Pisa non abbiano letto Il ciclo di vita degli oggetti-software di Ted Chiang, contenuto in Respiro, Sperling & Kupfner. Nelle Note ai racconti Ted Chiang così ne racconta la genesi:
“Basandoci sulla nostra esperienza con la mente, sono necessari almeno vent’anni di sforzi costanti per dare origine a una persona utile attraverso l’insegnamento, e non vedo perché con una creatura artificiale dovrebbe volerci meno.”
Se a un Aldo-Busi-online occorrono almeno venti anni prima di poter produrre una versione utile di Seminario sul postmortem tanto vale aspettare pure qualche anno in più ma poi leggersi quella dell’Aldo-Busi-offline.
Secondo Fezza e Pisa, e secondo gli inventori dei/delle chatbot che leggono prima e meglio di te, utilizzandoli/e “i materiali statici vengono trasformati in contenuti coinvolgenti e multimediali”, grazie a loro è possibile “trasformare testi statici in contenuti dinamici”. Ma statica sarà la mente di chi non legge, non lo impara, e che non imparandolo dinamica non lo diventerà mai più, semmai.

Perché a dirla tutta ora che il/la chatbot ha compiuto il salto di specie “da generatore di risposte a tutor cognitivo” agli studenti tocca tenere il passo e trasformarsi “da consumatori di informazioni a creatori di contenuti assistiti dall’IA” e più che imparare a scrivere dovranno imparare a “scrivere prompt efficaci”. Per intenderci: o diventi un content creator, un influencer in qualche campo, o sei irrilevante, estinguibile?
Difficile escludere queste mie non siano altro che le parole di chi non vuole accettare di aver fatto il suo tempo: perché continuare a leggere in un tempo in cui le macchine possono farlo per te? Il desiderio di farlo, il piacere!, sono un retaggio evolutivo troppo imbarazzante, troppo poco asettico, per farne menzione.Oh, certo, potremmo collaborare con le IA, ma alla lunga smetteremo di leggere quello avremo scritto da noi, gli umani, per leggere quello che ne riscriveranno loro, rimasticandolo e rimasticandolo e rimasticandolo, omogenizzandolo, fino alla logica singolarità conseguente: tutti i/le chatbot scriveranno la stessa cosa ma non se ne accorgerà nessuno perché saranno rimaste le sole a leggersi tra di loro, essendoci noi estinti da chissà quanto tempo, visto l’andazzo.
Disclaimer a questo punto doveroso: nessun/a chatbot gratuito è stato sfruttato per la stesura di questo pezzo, l’andamento oggettivamente sgangherato del testo vale come garanzia, testo che contiene già una quantità allarmante di luddismo per poter riciclare il vecchio detto secondo cui se non paghi per un prodotto, il prodotto sei tu – per accertarmi di starlo riportando correttamente ho preso un passaggio da Google, fidandomi ciecamente di AI Overview. D’altronde dovrà bastare la fiducia siccome “non esiste ancora una tecnologia in grado di determinare con certezza assoluta se un testo sia stato scritto da un chatbot o da un essere umano.” Che ansia.
I tre allegati-gratuiti sull’IA, loro saranno stati scritti con l’ausilio dell’IA stessa? Di sicuro non del tutto se fa fede il refuso a pagina 26 del terzo volumetto, nel passo su “(…) come l’intelligenza artificiale possa semplificare il modo in cui si informano le perosne e diventare uno strumento prezioso per alimentare la creatività e trovare ispirazione nella produzione di contenuti.” L’errore è patente di umanità, perché da una IA certosina non ce lo possiamo aspettare che dia in output perosne se non a costo di attribuirle la raffinatezza machiavellica dello sbagliare-per-finta, per dissimularsi, o di attribuirle un lapsus che ne tradisca il disprezzo per le persone non digitali. Al momento l’IA non risulta si sia saputa inventare un inconscio, mentre il disprezzo intraspecifico è ancora ciò che ci contraddistingue meglio.
In conclusione (cit.): assunto sono secoli che la nostra evoluzione non ha più niente di passivamente naturale, che l’innovazione tecnologica è la nuova versione dell’evoluzione, e che non sta a me stabilire se leggeremo meglio con gli occhi biologici o se con quelli tecnologi, faccio mia l’invocazione a sé stessa di Sylvia Plath in Diari, Adelphi:
“fa che non diventi mai cieca e che non smetta mai di provare l’angoscia di imparare, la terribile fatica di tentare di capire.”
Che belli i diari di Sylvia Plath. T’immagini se ne scrivesse uno una IA? Il diario un’altra cameriera tra tante, irrinunciabile, ma solo se lo scrivesse senza che nessuno glielo avesse chiesto, solo se sapesse essere spudoratamente sincera, suicidale come non potrà mai esserlo, non è stata programmata per questo ahilei.
antonio coda
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