“La felicità di non essere per tutti”. Su Seamus Heaney, il poeta-volpe

Pangea - Thursday, September 25, 2025

Riccio o volpe? Era il 1953 quando il filosofo lettone Isaiah Berlin ideò uno dei giochi più riusciti di critica letteraria, dividendo gli scrittori in due tipi, sulla scia di un frammento del poeta greco Archiloco: “la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Da una parte i proteiformi, dai fini diversi, a volte contraddittori, mai unificati da un principio unico ispiratore; dall’altra le visioni centrali, monistiche e monoteistiche; particolari contro universali; la “volpe sublime” Puskin e il riccio purissimo Dostoevskij. In mezzo, il caso Tolstoj, lo scrittore che “era per natura una volpe, ma credeva fermamente di essere un riccio”. Bene, portando questo gioco di società fuori dalla tavola dei grandi russi, potremmo azzardare il caso singolare di Seamus Heaney, poeta-volpe, a cui per decenni hanno tirato la coda – e costretto a tirar fuori gli aculei – per farlo sembrare un riccio.

L’evento centrale della sua biografia, che lo accompagna e tormenta lungo le “dodici fatiche” del suo opus, (per i lettori italiani nell’ampia auto-antologia predisposta dal poeta stesso in occasione del “Meridiano” Mondadori, uscito postumo del 2016 poi totalmente riproposto nello “Specchio”, con la sola dolorosa assenza delle Note – sarebbero bastati dei piccoli a margine per i riferimenti più specialistici alla storia d’Irlanda) è lo scoppio dei Troubles nel 1968, che si protraggono per decenni e hanno il loro culmine nella “Bloody Sunday” del 1972, quando a Derry l’esercito inglese fa fuoco sui manifestanti irlandesi e uccide quattordici persone. Inevitabile, per lui nato nell’Ulster a minoranza cattolica, in una terra dominata e colonizzata da secoli, non essere chiamato a prendere parte, a denunciare, ad essere tirato per la giacchetta e rimproverato per ogni colpevole silenzio: “per un quarto di secolo – scriverà – hanno obbligato i poeti a offrire, implicitamente o esplicitamente, una apologia per la loro arte”. Operazione impossibile, tanto già gravosa quanto più la sua fama di nuovo Yeats e massimo poeta non solo irlandese ma britannico cresceva, grazie anche a una presunta accessibilità e alla dolcezza formale di molte poesie.

Due i passaggi culminanti: il pamphlet poem “An Open Letter” del 1983 nel quale si dissocia dallaggettivo british (dopo essere stato incluso nel “Penguin Book of Contemporary British Poetry”),chiarendo che “la felicità passa per il prendere posizione, scontrarsi, chiarire di non essere per tutti”; e l’incontro – di toni e ambientazioni che ricordano il Luzi purgatoriale – con un esponente del Sinn Féinn in La livella e lo spirito (1996), risolto in un botta e risposta: 

“Quando cazzo scriverai qualcosa 
per noi?” “Se scrivo qualcosa, 
qualunque cosa sia, la scriverò solo per me”. 

Questo “me” non è certo chiusura individualistica o rivendicazione dei diritti dell’arte per l’arte, quanto un ribadire un proprio modo di essere poeta profondamente politico, impegnato – scriverà James Woods sulla “London Review of Books” – a “costruire una nazione dal punto di vista storico, mitologico, etimologico”.

Nella seminale prima poesia del primo libro, la pluri-antologizzata “Scavare”, questa distanza e impossibilità di essere riccio è già affermata in una premonizione non voluta della violenza intestina che sconvolgerà l’Irlanda – intesa come distanza rispetto al suo essere poeta terreno, radicato, lui figlio e nipote di contadini e allevatori, misurando come un lucidissimo agrimensore quanto separa i primi due versi (“Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza penna, comoda come una pistola”) dagli ultimi tre: “Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza penna./ Scaverò con questa”.

È il 1966, la guerra civile è ancora solo nell’aria, ma il volume programmatico Morte di un naturalista è già eversione e riconoscimento di un’altra via. Prendiamo due esempi di dinnseanchas, genere tradizionale irlandese di narrazioni di storie e leggende sulle origini dei nomi di luogo: in “Anahorish” (un analogo gaelico delle nostre “chiare, fresche e dolci acque”) si introduce una distinzione e uno scavare genealogico tra la morbidezza vocalica dell’irlandese e la durezza consonantica dell’inglese colonialista nel quale è costretto a scrivere e pensare; in “Broagh” quel suono finale, impossibile per gli stranieri, fa leva sulla O centrale e la sua immagine tipicamente heaneyana di un “acquazzone / che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno”, per far risuonare una circolarità acquatica e naturalistica da volpe ipersensibile, che con un piccolo balzo ci riporta a un’altra O marina e post-colonialista, quella dell’Omeros di Derek Walcott.

Descrizione è rivelazione, è stato detto: panorama e paesaggio – nella poesia come negli ingenui ma non innocui atlanti delle elementari – implicano rappresentazione cartografica e riscrittura politica di un territorio diviso e spaccato tra nativi e conquistatori prima, cattolici e protestanti poi: ognuno imponendo i propri nomi con la violenza che separa fratelli e amici, per cause antichissime e per nessun motivo (si ripensi al recente film Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh). Ma quella di Heaney è un’Arcadia senza innocenza primigenia, nella quale la frattura sembra il destino originale e i nuovi sacrifici riecheggiano i precedenti, i morti per i diritti civili sepolti sopra le tombe della “gente delle torbiere” riemerse in quegli stessi anni nello Jutland, con i corpi di vittime sacrificate alla dea della fertilità Nerthus durante l’età del ferro.

Da qui le critiche: all’estetizzazione della violenza; a una visione mitica e ciclica della storia, condannata a ripetere forme arcaiche e omicidi rituali; a un immaginario maschilista che raffigura l’Irlanda come donna inerme da possedere attraverso i secoli. A questi attacchi Heaney non risponde mai direttamente, preferendo divincolarsi con fiuto visionario fino ad aprire una seconda fase dalla fine degli anni Settanta, caratterizzata da un verso più ampio e da toni che invecchiando si fanno più lievi, fino al paradosso di quel Seamus Heaney poeta felice usato come estremo trucco per sfuggire alle trappole.

Il poeta-volpe si dedica alle poesie d’amore coniugale, ai viaggi (sarà raggiunto dalla notizia del Nobel durante una vacanza in Grecia), alle traduzioni, come quella del Beowulf finita nella classifica dei best seller del “New York Times”. È il paradosso del Famous Seamus, la pop-star della poesia che deve camuffarsi e trovare nuove formule di rivolta da ogni costrizione, come la vanga del padre rivoltava la terra avara. Così nella luminosissima “Post scriptum”, dove lo ritroviamo in uno stormo di cigni un po’ sinistri, le penne arruffate e “il lungo capo dall’aria ostinata/ nascosto o increstato o indaffarato sott’acqua”: il suo elemento, un altro tipo di ossigeno, via via sempre più rarefatto. Lo stesso di una “Illuminazione” in Vedere le cose, nella quale dei monaci in preghiera vedono comparire una nave, sospesa in alto e incagliata all’altare: un marinaio, invertendo alto e basso – celeste e terreno – si cala giù per liberarla e rischia di annegare prima di riuscire nell’impresa, “uscendo dal meraviglioso/ come l’aveva conosciuto lui”.

Il materiale – una leggenda celtica del VI secolo – viene rielaborato modificando involontariamente nel ricordo alcuni elementi, e scoperchiando il tema finale della poesia di Heaney, quello della memoria. 

Uno degli ultimi capolavori, “In soffitta”, raccontato magistralmente dai successori Tom Sleigh e Paul Muldoon in un podcast, colma proprio quel “golfo misterioso tra infanzia e vecchiaia” che è l’ultimo ponte teso sulla multiformità irriducibile dell’esistenza. Il passo malcerto sulle scale e sui ricordi di letture giovanili (L’isola del tesoro) diventa quello ebbro di un mozzo per la prima volta a bordo di una nave. E in attesa di scoprire o ritrovare un mondo, e “quanto v’è di memorabile tocca il fondo/ dentro l’irrintracciabile”, la poesia è ancora quella “leggera e anomala infrazione e pendenza del mondo/ mentre il vento si alzava e l’ancora veniva salpata”.

Fabrizio Angeli 

**

BROAGH

Sponda di fiume, le lunghe porche
che sfociavano in distese di acetosa
e in un sentiero alberato
giù verso il guado.

Il terriccio del giardino
si illividiva facilmente, l’acquazzone
che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno
era la nera O

di Broagh,
il suo basso rullio
tra i sambuchi battuti dal vento
e le foglie del rabarbaro

finiva quasi
all’improvviso, come quell’ultima
gh che gli stranieri faticavano
a pronunciare.

*

LIMBO

Nelle reti dei pescatori di Ballyshannon
la notte scorsa c’era un neonato
oltre ai salmoni,
Una figliazione illegittima,

un pescetto ributtato
nelle acque. Ma sono sicuro
che, quando lei stava nell’acqua bassa
e lo immergeva con tenerezza

finché i suoi polsi ossuti e gelati
furono insensibili come il ghiaietto,
lui era un pesciolino con ami
che le laceravano il ventre.

Lei entrò in acqua sotto
il segno della sua croce.
Lui fu tirato a riva con il pesce.
Ora il limbo sarà

un luccichio freddo di anime
oltre una lontana zona salmastra.
Là persino i palmi di Cristo, le piaghe ancora aperte,
bruciano e non riescono a pescare.

*

I BAMBINI DELLA FERROVIA

Quando risalivamo i pendii della scarpata
eravamo con gli occhi alla stessa altezza delle tazze
bianche dei pali telegrafici e dei fili sfrigolanti.

Come una bella calligrafia si curvavano per miglia
ad est e per miglia ad ovest oltre noi, cedendo
sotto il peso delle rondini.

Eravamo piccoli e pensavamo di non sapere niente
degno di esser noto. Pensavamo che le parole percorressero
i fili nei lucenti borselli delle gocce piovane,

ciascuna completamente inseminata dalla luce
del cielo, dal luccichio delle rotaie, e noi stessi
ridotti ad una scala così infinitesimale

da poter scorrere attraverso la cruna di un ago.

*

ILLUMINAZIONI VIII.

Dicono gli annali: mentre i monaci di Clonmacnoise
eran tutti in preghiera in oratorio
su di loro, in aria, comparve una nave.

L’ancora, dietro, pendeva tanto a fondo
che s’impigliò nella balaustra dell’altare.
Quando il grosso scafo si fermò oscillando

un marinaio si calò giù per la corda
e cercò di liberarla. Invano.
“Quest’uomo non può sopportare la nostra vita

e annegherà” disse l’abate, “a meno
che non gli si dia aiuto”. Il che fu fatto,
la nave, libera, ripartì e l’uomo

risalì, uscendo dal meraviglioso
come l’aveva conosciuto lui.

*

CATENA UMANA

A vedere in primo piano i sacchi di farina
passati di mano in mano tra i volontari, e i soldati
che sparavano alto oltre la folla, mi ritrovai

con la presa su due angoli di un sacco,
due rigonfi di granaglie di cui avevo fatto orecchie
per trovare un appiglio, pronto al sollevamento – 

gli occhi negli occhi, l’uno due, uno due, hop
sul rimorchio, poi il peso e il salasso
del sollevamento successivo. Nulla ha superato

quel rapido sgravio, di fatica più vera ricompensa,
un lasciare andare che mai più tornerà.
Oppure sì, una volta sola. E per tutte.

*

IN SOFFITTA

I.

Come Jim Hawkins in alto sulle crocette
dell’Hispaniola, nulla sotto di lui
se non immobile acqua verde e sabbia chiara sul fondo,

la nave in secca, l’albero inclinato sporto
sopra un fondale dove pesci a strisce passano in banchi – 
e quando sono passati, la faccia di Israel Hands

che si levò tra le sartie prima che Jim gli sparasse uccidendolo
sembra levarsi ancora… “Ma era ben morto”
dice la storia “centrato da un colpo e poi annegato”.

II.

Una betulla piantata vent’anni addietro
se ne sta tra me e il mare d’Irlanda
al lucernaio della soffitta, un uomo abbandonato

nell’isola della propria mansarda, un ragazzo
ben assettato nella coffa di una vita,
velature d’aria, ubriaco di vento, reso ben saldo

da quanto va riverberando da chiglia a albero maestro,
strofinandosi gli occhi per credere a loro e a questa
leggera, ondosa betulla di velaccio.

III.

A passo di fantasma su quella che allora era la terra firma
del linoleum dell’ingresso, appare il nonno,
la voce tremula come lo schermo sensibile alle correnti

tirato su prima nella sede del Club
per lo spettacolo pomeridiano da cui ho appena fatto ritorno.
“E Isaac Hands” chiede. “C’era Isaac?”

Il suo ricordo di quel nome anch’esso un tremolio,
il suo errore perpetuo, una volta e per sempre,
come il singolo tonfo quando cadde il corpo di Israel.

IV.

Mentre invecchio e dimentico i nomi,
mentre il mio passo incerto per le scale
è sempre più la sottile ebbrezza

di un mozzo per la prima volta sul sartiame,
mentre quanto v’è di memorabile tocca il fondo
dentro l’irrintracciabile,

non per questo non mi riesce più di immaginare
quella leggera e anomala infrazione e pendenza del mondo
mentre il vento si alzava e l’ancora veniva alzata.

Da Seamus Heaney, Poesie, Mondadori, Milano 2023, a cura di Marco Sonzogni

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