Benché abbia in sé, negli avvallamenti etimologici, qualcosa di irenico, di
edenico, di maliziosamente leggiadro, la parola antologia ha a che fare con il
rischio, l’azzardo, l’assurdo, quando non il pericolo. È vero, antologia
significa ‘raccolta di fiori’: la mente va ai quadri della fratellanza
preraffaellita – Waterhouse per dire –, di donne fatali infestate di boccioli, e
al loro maestro, Botticelli. La raccolta dei fiori si realizza secondo un
metodo antologico: non è possibile raccogliere i fiori più belli in assoluto, ma
anche quelli che ci vengono offerti dal caso, quelli che il singolare capriccio
del raccoglitore ritiene belli. I fiori si preparano per la festa – o perché
quel giorno, senza che vi sia un qualche motivo, sia per noi giorno di festa. I
fiori sono un dono – il loro dramma: sparire in poco tempo. I fiori insegnano
che la festa è transitoria. Diversamente, l’erbario serba ciò che altrimenti è
destino svanisca. L’erbario – arte in cui eccelleva Emily Dickinson, tra le
poetesse più antologizzate di ogni tempo – cristallizza la festa, la fa museo,
mausoleo.
La nostra storia è costellata da antologie: dalla “Corona” di Meleagro alla
“Palatina” compilata a Bisanzio; dalla “Raccolta Aragonese” voluta da Lorenzo il
Magnifico all’antologia dei “Poeti futuristi” ideata da Marinetti al Man’yōshū,
la “raccolta di diecimila foglie” approntata nell’VIII secolo in Giappone,
l’antologia non raccoglie le poesie più belle ma quelle necessarie.
Un’antologia, comunque, promuove una visione del mondo – è, cioè, un atto di
lotta, una dichiarazione di intenti e, a volte, di guerra, più che un invito a
nozze. Più spesso, un’antologia è compilata quando la casa brucia, quando
occorre, in fuga, alle strettoie del pericolo, raccogliere soltanto gli oggetti
più cari, i più cari affetti. Un’antologia è, allora, una zattera: è il minimo
indispensabile per restare vivi. C’è, allora – prima ancora della festa e
dell’assalto all’arma bianca – qualcosa del sopravvivere nell’antologia. Altro
che fiori… l’antologia è il pane spezzato, il pane condiviso. È quell’ultimo,
sopravvissuto libro grazie al quale riusciremo, dopo il disastro, a fondare una
civiltà, a ricostruire il verbo. Proprio come una zattera, l’antologia ci porta
altrove, in un luogo diverso da quello in cui è stata pensata.
L’antologia non è un fiore: è un seme. Piantata in terra di squilibrio, se è
buona, se è ben fatta, sboccerà nel futuro. In un futuro da cui tutti i
protagonisti – poeti antologizzati e antologizzatori – sono esclusi. L’antologia
esiste per chi verrà: agli eredi, alla nuova specie, il compito di fare il
fuoco, di erigere torri o di creare teatri.
Intorno a questi criteri – emergenza, allarme, ‘poesia come vita’ –, nel 1997,
Ted Hughes e Seamus Heaney costruiscono per la Faber The School Bag,
un’antologia – fin nel titolo – rivolta agli studenti – ergo: al futuro –, è
vero, ma che pertiene anche a una rivolta interiore, per così dire. The School
Bag mira, cioè, per spavalderia, a essere l’unico libro dello studente: che con
il suo zaino, per principio di avventatezza, cominci ad esplorare il mondo, a
perimetrarne lo splendore. Nell’introduzione, Heaney parla dell’antologia come
di una “school of poetry” che assembla i versi dei contemporanei insieme ai
“canti dei bardi”; una specie di “compendio di grandi esempi”. C’è qualcosa di
epico nel dire di Heaney. L’antologia non è semplicemente un libro ‘di lettura’:
è un addestramento. A cosa addestra la poesia? A conferire destrezza a ogni
proprio gesto: senza un corpo ben raffinato, ‘marziale’, la voce non esce
limpida, esatta – la poesia è prima di tutto ritmo, musica, voce. E poi, è
palestra spirituale – la poesia non dice soltanto, non è soltanto musica,
‘significa’.
Heaney e Hughes hanno deciso di rappresentare ogni poeta con una poesia
soltanto. “Le nostre scelte saranno oggetto di discussione: un ulteriore
contributo al libro, alla formazione del lettore. Dopo tutto, quella che William
Butler Yeats ha chiamato una volta singing school, è composta da tutti coloro
che danno valore alla poesia e vogliono custodirla perché dà un senso alla
nostra vita”.
In appendice, Ted Hughes firma un testo in cui spiega l’importanza di imparare a
memoria le poesie. Lo leggete in calce all’articolo. Hughes si ribella
all’apprendimento mnemonico in uso nelle scuole – un apprendimento, dice, che
riguarda il cieco obbedire a un ordine imposto – riferendosi all’antica pratica
medioevale. A un imparare, cioè, secondo l’uso di immagini, assecondando la
propria creatività. Finché la poesia non diventa parte del nostro essere,
carne&sangue. E possiamo fare a meno dei libri, diabolico supporto…
Ostinato sciamano dall’esistenza sciamannata, Ted Hughes – forse il più estremo
tra i poeti del secondo Novecento, il più lucidamente ‘druido’ –, all’epoca era
Poet Laureate del regno, sarebbe morto poco dopo, sessantottenne, nell’ottobre
del 1998, poco dopo aver pubblicato la sua più nota – ma non la più bella –
raccolta, Birthday Letters, in memoria della moglie, Sylvia Plath. Seamus
Heaney, più giovane di Hughes – e per certi versi un suo ‘allievo’ – era stato
proclamato Nobel per la letteratura nel ’95; l’ultima edizione di The School
Bag esce vent’anni fa.
Antologia tra le più autorevoli e al contempo spiazzanti mai realizzate in area
anglofona – merito dei due ‘mostruosi’ antologizzatori – The School Bag attacca
con una formidabile poesia di Yeats (il sapiente assoluto), Long-legged Fly:
> “Perché la civiltà non sprofondi,
> Perduta la grande battaglia,
> Acquieta il cane, lega il puledro
> A un palo lontano;
> Il nostro grande Cesare è nella tenda
> Dove le carte sono spiegate,
> Gli occhi fissi nel vuoto,
> Una mano sotto il mento.
> Come un insetto dalle lunghe zampe sopra il fiume
> La sua mente muove sul silenzio”.
L’ultima poesia, di John Dryden, da The Secular Masque, non chiude le danze, ma
le rinnova – una antologia è autentica, in effetti, quando, rotti i sigilli,
continua a vivere e a vibrare: soltanto i brutti libri restano supini nella
stalla della libreria, al giogo del padrone. Fa così:
> “Tutto, dopo tutto, non è stato che questo:
> la tua caccia mirava alla grande belva
> le tue guerre non hanno portato nulla
> gli amori si sono rivelati fasulli:
> è tempo di ricominciare tutto, ancora, ancora.
> Danze di cacciatori, ninfe, guerrieri e amanti)”
Nel mezzo, insieme a poeti ben installati nel canone – Coleridge, Wordsworth,
Shakespeare, Shelley, Keats, Blake, Whitman… –, una sfilza di ballate gaeliche e
di bardi d’Irlanda, tante misconosciute donne (Emilia Lanier, ad esempio,
nobildonna veneziana, cresciuta alla corte di Elisabetta I; Carolina Oliphant;
l’australiana Eve Langley e la micidiale Laura Riding, tra le altre), tantissimi
poeti ‘difficili’ (Elizabeth Bishop e Gerard Manley Hopkins, Basil Bunting e
Robert Penn Warren, Hart Crane, Hugh MacDiarmid, George Barker…), a dilatare il
canone in esiti fino ad allora inusitati, a fare della scuola, davvero, uno
spazio ‘esplosivo’ di esplorazione dell’io, di indagine all’erta. C’è Allen
Ginsberg, padre dei beat, come John Crowe Ransom paladino dei sudisti americani,
dei nuovi conservatori. Di Ezra Pound è antologizzato il primo dei Cantos, di
T.S. Eliot The Hollow Men, di Dylan Thomas Fern Hill. Naturalmente, non mancano
Auden e Frost, Lewis Carroll e D.H. Lawrence, Robert Graves e Rudyard Kipling,
Oscar Wilde e Philip Larkin. C’è una mirabile poesia di David Gascoyne, The
Cubical Domes, con alcuni bellissimi versi:
> “Ma la luce delle stelle è attratta dai fiori trasparenti
> e alla fine gli uomini e le bestie, gli argani
> e gli elmi e le mesmerizzate suore la dimenticano
> perché i confini del mio regno sono sconosciuti”.
Quando l’ha scritta, Gascoyne aveva trent’anni, Hughes ne aveva sei e Heaney non
era ancora nato. Si parla, in quella poesia, anche di “flotte di marinai
cristiani/ i cui cuori ardono nella neve”.
C’è anche Robinson Jeffers, un poeta che amo molto: nella poesia antologizzata
– Fawn’s Foster-mother, la tradurrò, un giorno – si dice di una donna che
allatta un cerbiatto, “mio marito l’ha trovato nascosto in un bosco di felci/
gli misi il muso al seno/ piuttosto che farlo morire/ avevo latte a sufficienza
per tre bambini”.
Che bello andare a scuola così – anzi, fare della poesia la propria scuola di
vita.
***
Imparare le poesie a memoria
Ci sono molti buoni motivi per imparare una poesia a memoria. Memorizzare
dovrebbe essere un gioco. Un piacere. Per chi di noi ha bisogno di aiuto (in
sostanza: tutti), il metodo più comune usato nelle scuole è l’apprendimento
mnemonico. Ma questa è soltanto una tra le numerose tecniche di memorizzazione.
Per la maggior parte delle persone, è la meno efficace. La noia che ci avvinghia
nell’imparare a memoria un testo è stata considerata a lungo una variabile
positiva nelle aule inglesi: disciplinava e forgiava il carattere. Il costo
tuttavia è elevato: può creare un’avversione radicale per la poesia.
Chi non ama imparare pedissequamente a memoria, ma desidera acquisire i numerosi
poteri che derivano dalla sua conoscenza, può scegliere tra diverse altre
tecniche, meno faticose, più produttive e divertenti. Queste tecniche sfruttano
le strategie naturali che il cervello adotta per ricordare qualcosa. Di recente,
ho sentito un tecnico del suono, a teatro, che chiedeva a un altro cosa
significassero le lettere CSB che ricorrevano nella scaletta di uno show. Gli fu
detto che CSB era il nome dell’attore principale. Poiché il tecnico interpellato
non riusciva a ricordare il suo nome, gli aveva affibbiato un nomignolo, Capelli
Spumeggianti come Birra.
Questo è il genere di cose che capita a tutti senza che ce ne accorgiamo. Perché
il tecnico non riusciva proprio a ricordarsi il nome dell’attore mentre pensare
alla sua testa piena di “Capelli Spumeggianti come Birra” lo rendeva
indimenticabile? Semplice. Una delle tecniche spontanee del cervello per fissare
qualcosa nella memoria cosciente è collegarla a un’immagine visiva. Più assurda,
esagerata e grottesca è l’immagine, più indimenticabile è la cosa a cui è
collegata.
Questa tecnica è superba nel ricordare le liste. Di solito, se ogni immagine
viene “fotografata” mentalmente, come su uno schermo, non la dimenticheremo
facilmente. E ogni immagine richiama la successiva, ad essa collegata, e poi
via, di seguito. Così, da un leone si passa al pollaio e dal pollaio al pettine.
È importante che ogni immagine abbia dei legami, per quanto paradossali, con la
seguente. Questa è la tecnica che usa anche chi deve imparare una poesia a
memoria per professione.
Alcuni potrebbero avere qualche difficoltà nello sbrigliare l’immaginazione. Ci
vuole pratica. Il libero sfogo di una immaginazione propensa al gioco, aiuta il
cervello a liberarsi di ogni giogo. Alcuni potrebbero essere riluttanti a
incardinare le sacre parole di una poesia in un arbitrario e ‘volgare’
accompagnamento dell’immaginazione. Il punto è far entrare la poesia, con ogni
mezzo, lecito o illecito, nella propria testa. Dopo un po’, saranno le parole
stesse della poesia a stagliarsi in noi: le immagini – il film che ci siamo
costruiti – svanirà da sé.
Ciò che è essenziale, comunque, è mantenere una facoltà uditiva aperta. Le
parole vanno ‘guardate’, ma soprattutto ascoltate – ascoltandone il suono più
profondo, saggiando ogni sussurro nell’aria, valutando come quei versi risuonano
nel nostro corpo, proprio il nostro, mentre ci impegniamo a costruire per loro
un maniero di immagini.
Tecniche mnemoniche di questo tipo, che utilizzano la visualizzazione, sono
state inventate nel mondo antico, sono state la base dell’apprendimento nel
Medioevo cristiano, quando i libri erano rari. Furono considerate essenziali e
ulteriormente sviluppate da alcuni giganti del sapere come Tommaso d’Aquino, che
pronunciò questa indimenticabile affermazione: “L’uomo non può comprendere senza
immaginare”.
In Inghilterra, l’ascesa puritana/protestante in seguito alla Guerra Civile, nel
XVII secolo, ha scardinato le immagini da ogni aspetto della vita comune,
distruggendo metodicamente le icone religiose dalle chiese, proibendo quel gioco
dell’immaginario che è il teatro. Uno spirito analogo ha bandito dalle scuole le
antiche tecniche di memorizzazione che usavano le immagini, sostituendole
d’ufficio con l’apprendimento meccanico. I metodi precedenti, associati al
paganesimo e al cattolicesimo, furono presto dimenticati. Quando si è tentato di
reintrodurli, li hanno bollati come “trucchi” o “sortilegi”, quando non
“illusioni”. Così, “imparare a memoria” è diventata la norma.
Ted Hughes
*In copertina: Ted Hughes e Sylvia Plath
L'articolo Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus
Heaney proviene da Pangea.
Tag - Seamus Heaney
Riccio o volpe? Era il 1953 quando il filosofo lettone Isaiah Berlin ideò uno
dei giochi più riusciti di critica letteraria, dividendo gli scrittori in due
tipi, sulla scia di un frammento del poeta greco Archiloco: “la volpe sa molte
cose, ma il riccio ne sa una grande”. Da una parte i proteiformi, dai fini
diversi, a volte contraddittori, mai unificati da un principio unico ispiratore;
dall’altra le visioni centrali, monistiche e monoteistiche; particolari contro
universali; la “volpe sublime” Puskin e il riccio purissimo Dostoevskij. In
mezzo, il caso Tolstoj, lo scrittore che “era per natura una volpe, ma credeva
fermamente di essere un riccio”. Bene, portando questo gioco di società fuori
dalla tavola dei grandi russi, potremmo azzardare il caso singolare di Seamus
Heaney, poeta-volpe, a cui per decenni hanno tirato la coda – e costretto a
tirar fuori gli aculei – per farlo sembrare un riccio.
L’evento centrale della sua biografia, che lo accompagna e tormenta lungo le
“dodici fatiche” del suo opus, (per i lettori italiani nell’ampia auto-antologia
predisposta dal poeta stesso in occasione del “Meridiano” Mondadori, uscito
postumo del 2016 poi totalmente riproposto nello “Specchio”, con la sola
dolorosa assenza delle Note – sarebbero bastati dei piccoli a margine per i
riferimenti più specialistici alla storia d’Irlanda) è lo scoppio
dei Troubles nel 1968, che si protraggono per decenni e hanno il loro culmine
nella “Bloody Sunday” del 1972, quando a Derry l’esercito inglese fa fuoco sui
manifestanti irlandesi e uccide quattordici persone. Inevitabile, per lui nato
nell’Ulster a minoranza cattolica, in una terra dominata e colonizzata da
secoli, non essere chiamato a prendere parte, a denunciare, ad essere tirato per
la giacchetta e rimproverato per ogni colpevole silenzio: “per un quarto di
secolo – scriverà – hanno obbligato i poeti a offrire, implicitamente o
esplicitamente, una apologia per la loro arte”. Operazione impossibile, tanto
già gravosa quanto più la sua fama di nuovo Yeats e massimo poeta non solo
irlandese ma britannico cresceva, grazie anche a una presunta accessibilità e
alla dolcezza formale di molte poesie.
Due i passaggi culminanti: il pamphlet poem “An Open Letter” del 1983 nel quale
si dissocia dall’aggettivo british (dopo essere stato incluso nel “Penguin Book
of Contemporary British Poetry”),chiarendo che “la felicità passa per il
prendere posizione, scontrarsi, chiarire di non essere per tutti”; e l’incontro
– di toni e ambientazioni che ricordano il Luzi purgatoriale – con un esponente
del Sinn Féinn in La livella e lo spirito (1996), risolto in un botta e
risposta:
> “Quando cazzo scriverai qualcosa
> per noi?” “Se scrivo qualcosa,
> qualunque cosa sia, la scriverò solo per me”.
Questo “me” non è certo chiusura individualistica o rivendicazione dei diritti
dell’arte per l’arte, quanto un ribadire un proprio modo di essere poeta
profondamente politico, impegnato – scriverà James Woods sulla “London Review of
Books” – a “costruire una nazione dal punto di vista storico, mitologico,
etimologico”.
Nella seminale prima poesia del primo libro, la pluri-antologizzata “Scavare”,
questa distanza e impossibilità di essere riccio è già affermata in una
premonizione non voluta della violenza intestina che sconvolgerà l’Irlanda –
intesa come distanza rispetto al suo essere poeta terreno, radicato, lui figlio
e nipote di contadini e allevatori, misurando come un lucidissimo agrimensore
quanto separa i primi due versi (“Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza
penna, comoda come una pistola”) dagli ultimi tre: “Tra il mio pollice e
l’indice riposa/ la tozza penna./ Scaverò con questa”.
È il 1966, la guerra civile è ancora solo nell’aria, ma il volume
programmatico Morte di un naturalista è già eversione e riconoscimento di
un’altra via. Prendiamo due esempi di dinnseanchas, genere tradizionale
irlandese di narrazioni di storie e leggende sulle origini dei nomi di luogo: in
“Anahorish” (un analogo gaelico delle nostre “chiare, fresche e dolci acque”) si
introduce una distinzione e uno scavare genealogico tra la morbidezza vocalica
dell’irlandese e la durezza consonantica dell’inglese colonialista nel quale è
costretto a scrivere e pensare; in “Broagh” quel suono finale, impossibile per
gli stranieri, fa leva sulla O centrale e la sua immagine tipicamente heaneyana
di un “acquazzone / che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno”, per far
risuonare una circolarità acquatica e naturalistica da volpe ipersensibile, che
con un piccolo balzo ci riporta a un’altra O marina e post-colonialista, quella
dell’Omeros di Derek Walcott.
Descrizione è rivelazione, è stato detto: panorama e paesaggio – nella poesia
come negli ingenui ma non innocui atlanti delle elementari – implicano
rappresentazione cartografica e riscrittura politica di un territorio diviso e
spaccato tra nativi e conquistatori prima, cattolici e protestanti poi: ognuno
imponendo i propri nomi con la violenza che separa fratelli e amici, per cause
antichissime e per nessun motivo (si ripensi al recente film Gli spiriti
dell’isola di Martin McDonagh). Ma quella di Heaney è un’Arcadia senza innocenza
primigenia, nella quale la frattura sembra il destino originale e i nuovi
sacrifici riecheggiano i precedenti, i morti per i diritti civili sepolti sopra
le tombe della “gente delle torbiere” riemerse in quegli stessi anni nello
Jutland, con i corpi di vittime sacrificate alla dea della fertilità Nerthus
durante l’età del ferro.
Da qui le critiche: all’estetizzazione della violenza; a una visione mitica e
ciclica della storia, condannata a ripetere forme arcaiche e omicidi rituali; a
un immaginario maschilista che raffigura l’Irlanda come donna inerme da
possedere attraverso i secoli. A questi attacchi Heaney non risponde mai
direttamente, preferendo divincolarsi con fiuto visionario fino ad aprire una
seconda fase dalla fine degli anni Settanta, caratterizzata da un verso più
ampio e da toni che invecchiando si fanno più lievi, fino al paradosso di quel
Seamus Heaney poeta felice usato come estremo trucco per sfuggire alle trappole.
Il poeta-volpe si dedica alle poesie d’amore coniugale, ai viaggi (sarà
raggiunto dalla notizia del Nobel durante una vacanza in Grecia), alle
traduzioni, come quella del Beowulf finita nella classifica dei best seller del
“New York Times”. È il paradosso del Famous Seamus, la pop-star della poesia che
deve camuffarsi e trovare nuove formule di rivolta da ogni costrizione, come la
vanga del padre rivoltava la terra avara. Così nella luminosissima “Post
scriptum”, dove lo ritroviamo in uno stormo di cigni un po’ sinistri, le penne
arruffate e “il lungo capo dall’aria ostinata/ nascosto o increstato o
indaffarato sott’acqua”: il suo elemento, un altro tipo di ossigeno, via via
sempre più rarefatto. Lo stesso di una “Illuminazione” in Vedere le cose, nella
quale dei monaci in preghiera vedono comparire una nave, sospesa in alto e
incagliata all’altare: un marinaio, invertendo alto e basso – celeste e terreno
– si cala giù per liberarla e rischia di annegare prima di riuscire
nell’impresa, “uscendo dal meraviglioso/ come l’aveva conosciuto lui”.
Il materiale – una leggenda celtica del VI secolo – viene rielaborato
modificando involontariamente nel ricordo alcuni elementi, e scoperchiando il
tema finale della poesia di Heaney, quello della memoria.
Uno degli ultimi capolavori, “In soffitta”, raccontato magistralmente dai
successori Tom Sleigh e Paul Muldoon in un podcast, colma proprio quel “golfo
misterioso tra infanzia e vecchiaia” che è l’ultimo ponte teso sulla
multiformità irriducibile dell’esistenza. Il passo malcerto sulle scale e sui
ricordi di letture giovanili (L’isola del tesoro) diventa quello ebbro di un
mozzo per la prima volta a bordo di una nave. E in attesa di scoprire o
ritrovare un mondo, e “quanto v’è di memorabile tocca il fondo/ dentro
l’irrintracciabile”, la poesia è ancora quella “leggera e anomala infrazione e
pendenza del mondo/ mentre il vento si alzava e l’ancora veniva salpata”.
Fabrizio Angeli
**
BROAGH
Sponda di fiume, le lunghe porche
che sfociavano in distese di acetosa
e in un sentiero alberato
giù verso il guado.
Il terriccio del giardino
si illividiva facilmente, l’acquazzone
che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno
era la nera O
di Broagh,
il suo basso rullio
tra i sambuchi battuti dal vento
e le foglie del rabarbaro
finiva quasi
all’improvviso, come quell’ultima
gh che gli stranieri faticavano
a pronunciare.
*
LIMBO
Nelle reti dei pescatori di Ballyshannon
la notte scorsa c’era un neonato
oltre ai salmoni,
Una figliazione illegittima,
un pescetto ributtato
nelle acque. Ma sono sicuro
che, quando lei stava nell’acqua bassa
e lo immergeva con tenerezza
finché i suoi polsi ossuti e gelati
furono insensibili come il ghiaietto,
lui era un pesciolino con ami
che le laceravano il ventre.
Lei entrò in acqua sotto
il segno della sua croce.
Lui fu tirato a riva con il pesce.
Ora il limbo sarà
un luccichio freddo di anime
oltre una lontana zona salmastra.
Là persino i palmi di Cristo, le piaghe ancora aperte,
bruciano e non riescono a pescare.
*
I BAMBINI DELLA FERROVIA
Quando risalivamo i pendii della scarpata
eravamo con gli occhi alla stessa altezza delle tazze
bianche dei pali telegrafici e dei fili sfrigolanti.
Come una bella calligrafia si curvavano per miglia
ad est e per miglia ad ovest oltre noi, cedendo
sotto il peso delle rondini.
Eravamo piccoli e pensavamo di non sapere niente
degno di esser noto. Pensavamo che le parole percorressero
i fili nei lucenti borselli delle gocce piovane,
ciascuna completamente inseminata dalla luce
del cielo, dal luccichio delle rotaie, e noi stessi
ridotti ad una scala così infinitesimale
da poter scorrere attraverso la cruna di un ago.
*
ILLUMINAZIONI VIII.
Dicono gli annali: mentre i monaci di Clonmacnoise
eran tutti in preghiera in oratorio
su di loro, in aria, comparve una nave.
L’ancora, dietro, pendeva tanto a fondo
che s’impigliò nella balaustra dell’altare.
Quando il grosso scafo si fermò oscillando
un marinaio si calò giù per la corda
e cercò di liberarla. Invano.
“Quest’uomo non può sopportare la nostra vita
e annegherà” disse l’abate, “a meno
che non gli si dia aiuto”. Il che fu fatto,
la nave, libera, ripartì e l’uomo
risalì, uscendo dal meraviglioso
come l’aveva conosciuto lui.
*
CATENA UMANA
A vedere in primo piano i sacchi di farina
passati di mano in mano tra i volontari, e i soldati
che sparavano alto oltre la folla, mi ritrovai
con la presa su due angoli di un sacco,
due rigonfi di granaglie di cui avevo fatto orecchie
per trovare un appiglio, pronto al sollevamento –
gli occhi negli occhi, l’uno due, uno due, hop
sul rimorchio, poi il peso e il salasso
del sollevamento successivo. Nulla ha superato
quel rapido sgravio, di fatica più vera ricompensa,
un lasciare andare che mai più tornerà.
Oppure sì, una volta sola. E per tutte.
*
IN SOFFITTA
I.
Come Jim Hawkins in alto sulle crocette
dell’Hispaniola, nulla sotto di lui
se non immobile acqua verde e sabbia chiara sul fondo,
la nave in secca, l’albero inclinato sporto
sopra un fondale dove pesci a strisce passano in banchi –
e quando sono passati, la faccia di Israel Hands
che si levò tra le sartie prima che Jim gli sparasse uccidendolo
sembra levarsi ancora… “Ma era ben morto”
dice la storia “centrato da un colpo e poi annegato”.
II.
Una betulla piantata vent’anni addietro
se ne sta tra me e il mare d’Irlanda
al lucernaio della soffitta, un uomo abbandonato
nell’isola della propria mansarda, un ragazzo
ben assettato nella coffa di una vita,
velature d’aria, ubriaco di vento, reso ben saldo
da quanto va riverberando da chiglia a albero maestro,
strofinandosi gli occhi per credere a loro e a questa
leggera, ondosa betulla di velaccio.
III.
A passo di fantasma su quella che allora era la terra firma
del linoleum dell’ingresso, appare il nonno,
la voce tremula come lo schermo sensibile alle correnti
tirato su prima nella sede del Club
per lo spettacolo pomeridiano da cui ho appena fatto ritorno.
“E Isaac Hands” chiede. “C’era Isaac?”
Il suo ricordo di quel nome anch’esso un tremolio,
il suo errore perpetuo, una volta e per sempre,
come il singolo tonfo quando cadde il corpo di Israel.
IV.
Mentre invecchio e dimentico i nomi,
mentre il mio passo incerto per le scale
è sempre più la sottile ebbrezza
di un mozzo per la prima volta sul sartiame,
mentre quanto v’è di memorabile tocca il fondo
dentro l’irrintracciabile,
non per questo non mi riesce più di immaginare
quella leggera e anomala infrazione e pendenza del mondo
mentre il vento si alzava e l’ancora veniva alzata.
Da Seamus Heaney, Poesie, Mondadori, Milano 2023, a cura di Marco Sonzogni
L'articolo “La felicità di non essere per tutti”. Su Seamus Heaney, il
poeta-volpe proviene da Pangea.
Nel 1982, per la Faber del loro antico mentore, T.S. Eliot, Ted Hughes e Seamus
Heaney – che senza troppa imprecisione possiamo definire i più autorevoli poeti
in lingua inglese del secondo Novecento – curarono un’antologia folle fin dal
titolo. The Rattle Bag ha a che fare, nello stesso tempo, con una sacca piena di
cose che tintinnano, con un pasticcio – anzi, un pasticciaccio – e con i
serpenti a sonagli. C’è qualcosa, al contempo, cioè, di infantile e di
pericoloso, di carnevalesco e di carnale in quel titolo. Credo che l’antologia
venga venduta ancora oggi – l’ultima edizione risale a un ventennio fa.
Nella brevissima nota introduttiva, gli autori dissero di scelte arbitrarie, di
una estetica del capriccio, di poesie “dal fascino singolare che continuano a
trasmettere il proprio segnale vagabondando in questo vasto e volubile mondo”.
Bisogna sempre dubitare dei poeti: anche quando sorridono, celano coltelli. Per
descrivere un’antologia creata “per accumulo”, quasi per sbaglio e per caso, i
poeti usano la parola cairn. Un cumulo di pietre. Un tumulo. Un segnale d’alta
via di pietre impilate una sull’altra. Un idolo, insomma. Con la pietra si può
lapidare e si può edificare, si distrugge e si costruisce. Chi conosce la poesia
di Heaney e di Hughes, ancorata com’è alla vita a mani nude, al nomadismo
verbale, ai campi e ai boschi, ai primordi, a un andare a rapina, sa il peso
della parola cairn.
Due anni dopo l’uscita di The Rattle Bag, Ted Hughes sarebbe stato eletto “Poet
Laureate” del regno. Molti anni dopo, nel 2003, Seamus Heaney ritornò a
quell’impresa in un saggio che s’intitola Bags of enlightenment. Ritornò,
intendo, sul concetto di capriccio e di arbitrio: “Un’arbitraria ricchezza più
che lavoro istituzionale: questo cercavamo… Il nostro criterio era divertire
prima che educare”. Di qui le scelte – su cui arrivo tra un attimo – dettate dal
desiderio di stupire, orientate all’eccelso, sì, ma anche all’eccentrico. L’idea
era quella di creare una ‘scatola delle meraviglie’ per gli amanti della poesia
e per gli studenti.
> “Se alla fine di un anno scolastico anche soltanto una di queste poesie
> resterà impressa in uno studente, sarà stato un traguardo notevole. Una poesia
> del genere può essere percepita come un possesso prenatale, una garanzia di
> interiorità e di legame con le origini. Può diventare la cruna verbale
> attraverso cui un ragazzo può passare più e più volte, fino a quando non
> l’avrà imparata a memoria, fino a quando non diventerà un sentiero tra il
> cuore e la mente, un sentiero in cui quell’individuo potrà ripetutamente
> entrare, verso il regno della rettitudine e della gentilezza”.
È davvero un maestro, Seamus Heaney. Credeva nella letteratura – secondo gli
insegnamenti di Matthew Arnold – “come mezzo per la diffusione generale della
generosità e della luce”.
In sostanza, The Rattle Bag raduna le poesie preferite da Heaney e da Hughes –
non è un caso che l’ultima poesia della raccolta, You’re, sia di Sylvia Plath.
Tra gli autori antologizzati – tolti alcuni inni dei primordi e certe
filastrocche popolari – spiccano Auden e William Blake, Shakespeare e Emily
Dickinson, Lewis Carroll, Kavafis, Robert Frost. Appaiono, però, soprattutto,
autori per lo più ignoti (almeno a me) come Padraic Colum e Allen Curnow,
Kenneth Fearing, Dafydd Ap Gwilym e Hyam Plutzik. Ancora oggi l’antologia di
Heaney-Hughes è giudicata eclectic, instructive and inspiring.
Uno spazio consistente in The Rattle Bag è dedicato all’‘onda’ dei poeti
dell’Est Europa; tra costoro, uno dei più rappresentati è il poeta ceco Mirolav
Holub, con cinque testi. Nel 1988, con la consueta, violenta enfasi, Ted Hughes
dichiarò che Holub “è tra la mezza dozzina di poeti più importanti al mondo”.
Non l’avevo mai sentito prima di pochi giorni fa. Nato a Plzeň nel settembre del
1923, tradotto in inglese fin dagli anni Sessanta, Miroslav Holub, in realtà,
fece carriera come immunologo. Da qui, l’ispirata nitidezza dei versi, l’ironia
aspra, il fiabesco inchiodato a un ritmo geometrico, il lirismo che si fa
apodittico, ‘scientifico’. Anche Mirslav Holub – secondo i canoni degli
scrittori ‘a Est’ – recinta l’assurdo in una scrittura da stenografo. Fu
tradotto presto e con straordinario successo nel mondo inglese: nel 1967 la
Penguin editò un’antologia di Selected Poems, introdotta da Alfred Alvarez; fu
il primo di molti libri. La Faber radunò i suoi saggi – che oscillano tra
argomenti letterari a temi scientifici – come The Dimension of the Present
Moment (1990); Poems Before & After è uscito nel 2016. In Italia, Holub non ha
attecchito, marginalizzato in uscite sporadiche, di poco peso. Il poeta è morto
a Praga nell’estate del 1998.
Holub fa parte della lunga lista di poeti-scienziati che confortano il canone
della poesia europea. Più di altri – e con una certa dose di spavalderia – ha
ragionato su questi estremi della sua vita, spesso inconciliabili. “Negli
ambienti scientifici cerco di nascondere il fatto che scrivo versi. Gli
scienziati tendono a diffidare dei poeti: ritengono che siano delle persone con
uno scarso senso di responsabilità”. Allo stesso tempo, i poeti diffidavano di
Holub perché era uno scienziato… A Heaney le poesie di Holub piacevano perché
“mettono a nudo le cose, ci mostrano non tanto il cranio sotto la pelle, ma il
cervello che sta sotto il cranio”.
Nel 1967, a Spoleto, Holub incontrò Ezra Pound. Scrisse – lo sketch è tradotto
in calce all’articolo – di una figura statuaria, dei suoi occhi azzurri, di una
mano “gelida, di pietra”. Cesare Cavalleri incontrò Pound a Venezia, nel 1971.
Disse anche lui degli occhi azzurri – “due laghi d’azzurro” – e della “mano
gelata”; disse che Pound era “assorto, rannicchiato, vivo” (in: C.
Cavalleri, “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria. Una
conversazione con Jacopo Guerriero, ELS La Scuola, 2018). In un articolo uscito
sul “Corriere della Sera” l’11 aprile di quello stesso anno (ora in: E. Pound, È
inutile che io parli. Interviste e incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021)
anche Indro Montanelli scrisse degli occhi di Pound, “non ne avevo mai visti di
eguali, una cascata di luce blu”, della sua figura, “marmorea”, di una “bellezza
al di fuori di qualsiasi corrente archetipo”. In questa ricorrenza di ciò che
pietrificato pietrifica c’è il genio di Pound, ultimo della stirpe dei giganti.
Quando l’Unione degli scrittori della Cecoslovacchia propose a Holub uno
stipendio equivalente a quello che aveva come ricercatore scientifico per darsi
alla letteratura, il poeta si negò. “Amo la scienza. Se avessi tutto il tempo
del mondo per scrivere versi, non scriverei più nulla”. Scriveva nei ritagli, da
apolide alla poesia, in affanno, affascinato dal tutto.
***
Discorso sull’angelo canide
Lacrime di luce sull’asfalto: mentono.
Forse pensava a una cagna
o ricordava un osso –
coltelli negli occhi di ruote malvage
che afferrano spaccano schiacciano –
ha la mascella rotta
striscia, guaisce – no!
cade, mugola, geme
resta immobile.
La gente, intorno,
lo fissa:
un angelo cane
peloso e nero
con ali madide di fango
e quell’infinito dolore
che si moltiplica dalla sua aureola
sopra le pozzanghere.
L’oscurità
sfrega le mani
sul corpo e risuona
in colonnati verso il cielo.
Lo dragano via.
È solo una pezza
uno straccio per il cimitero
e nulla più.
L’angelo
delle tegole
annusa i camini
e rosicchia le ossa delle stelle cadenti.
*
Breve riflessione sull’identità
Giorno dopo giorno nulla è uguale a se stesso.
Né i fiumi né le capre né i profeti.
Se l’oggi è uguale a domani
non tutte le cose restano
uguali. Perché quando una cosa
cambia, cambiano anche le altre.
Le cose non sono sole: dipendono
in modo claustrale da altre cose,
per lo meno in parte. Dunque,
sai, non sai mai…
Anche i profeti appartengono a questo
sistema di relazioni fisse. Come le parole. Come
le capre e il latte. Come il sangue.
Per questo, è piuttosto difficile
riconoscere le proprie parole, il proprio
sangue, il proprio profeta e la propria capra.
Molto difficile. Ma ancora e ancora
ci tentiamo, in modo da non ricavare capre
dai profeti o sangue dal latte.
Pretendiamo che le cose abbiano un’identità
mentre ci trasformiamo nel nostro doppio
e marciamo lentamente nell’oscuro abisso del tempo.
*
Il giardino dei vecchi
È scaltra l’edera, cresce
ovunque e dell’erba
incolta nessuno fa più
caso. Sotto gli alberi
l’invasione di frutti gotici.
Crollò l’oscurità, mitologica
e senza denti.
Ma Minotauro l’ha sconfitta
grazie a un buco nella recinzione.
Da qualche parte, Icari
impigliati nella ragnatela.
Durante una luminosa mattina
i cespugli rivelarono
lo spudorato, grigio
osso frontale dei fatti.
Boccheggiava, senza più parole.
*
Breve riflessione sull’accuratezza
I pesci
sanno sempre con precisione dove e quando muoversi,
all’unisono
gli uccelli hanno un innato senso del tempo e
dell’orientamento.
L’umanità
è priva di tali istinti, per questo ricorre alla ricerca
scientifica. La sua natura è illustrata dal seguente esempio.
Un soldato
doveva far esplodere il cannone ogni giorno alle sei di sera.
Era un soldato, obbediva. La sua accuratezza fu spiegata così:
L’orologio
della vetrina, in città: mi baso su quello. Ogni giorno alle
diciassette
e quarantacinque, monto sulla collina dove è pronto il
cannone.
Alle diciassette e cinquantanove mi avvicino al cannone, alle
diciotto in punto sparo.
Ora era chiara
la ragione di quella accuratezza. Non restava
che controllare il cronometro. Fu dunque interrogato
l’orologiaio.
L’orologiaio
disse che quello era uno degli strumenti più precisi in
assoluto.
Immagini, ormai da molti anni un cannone spara ogni giorno
alle sei in punto.
Ogni giorno, nello stesso istante, il mio orologio segna
esattamente le sei.
Gli orologi becchettano, i cannoni esplodono.
*
Incontro con Ezra Pound
Non so se siano stati creati prima i poeti o i festival.
Tuttavia, è stato un festival a farmi incontrare Ezra Pound.
Era seduto su una sedia, in una piazza di Spoleto; mi spinsero verso di lui. Gli
porsi la mano, la afferrò, fissandomi con quegli occhi azzurri che varcarono la
testa, perdendosi, lontani. Non si mosse. Non lasciò la mano, dimenticò gli
occhi. Fu una lunga stretta, come quella di una statua. La sua mano era gelida,
di pietra. Impossibile liberarsi.
Dissi qualcosa. I passeri mi interruppero. Un ragno rampicava sul muro, tastava
la pietra con le zampe anteriori. Un ragno che capiva il linguaggio della
pietra.
Un treno merci si conficcò nel tunnel del mio cranio. Un controllore in blusa
blu mi salutava, cupo, dall’ultimo vagone.
È interessante il tempo che ci vuole perché un treno merci come quello passi.
Poi ci separarono.
Anche la mia mano era fredda: aveva toccato la Via Lattea.
Dunque i treni merci esistono. Un ragno sulla pietra esiste. Esiste la mano e la
mano in sé. Esiste anche un non incontro ed esiste un incontro con una non
persona. Esiste un tunnel – un intero reticolo di tunnel, vuoti e oscuri, che
mettono in contatto la materia vivente che si chiama poesia ai festival.
Potrei avere incontrato Ezra Pound – eppure, in quell’istante non esistevo.
*
Il giudizio finale
Una lavatrice automatica
è accesa – lava
strizza, asciuga.
Come un angelo che mastica
chewing gum. Come il granito
che perfora il quarzo.
Qualcuno maledice il mare
ma non lo senti.
Piume d’oca vagano in cucina.
Le tue piccole dita scompaiono
sotto la porta.
Mosche: piccole Icaro che
tappano le falle del labirinto.
Hai un bell’aspetto, figlio mio
dici mentre ti coglie l’infarto.
La lavatrice lavora.
Vi entrano banchetti luculliani
c’è anche la granola.
E i riflessi. Cadono lettere
bene ordinate. E balene
che nuotano e denti innumerevoli.
Entrano i ricordi, escono
i codici della strada.
Bianco. La lavatrice lavora.
Chi pagherà la banda?
Dov’è il ballo dei pompieri?
Dove suonerà il flauto stretto
dal gelo? Come superare
l’ombra di un libro?
Bianco di fuliggine dilavata.
La lavatrice gira
e tremano le mani di Discobolo.
L’eternità è misurata
con precisione al secondo.
Sì.
In un panorama di giochi
bisogna giocare fino alla fine.
In un panorama di fango
la via d’uscita è
la lavatrice.
Quando è il caos
le vie a senso unico
sono un sollievo.
Quando sei in via d’estinzione
la precisione vale più di un dio.
In questo rumore
bianco esco da una porta
che mi porta
in questa stessa stanza.
*
Una favola
Si costruì una casa
le fondamenta
di pietra
i muri
il tetto sopra la testa
il camino e il fumo
la vista dalla finestra.
Si fece un giardino
il recinto
il timo
il lombrico
la rugiada, a sera.
Si ritagliò un pezzo di cielo.
E avvolse il giardino nel cielo
e la casa nel giardino
e il tutto in un fazzoletto
poi se ne andò
solitario come una volpe artica
varcando il freddo
e quella infinita
pioggia
per il mondo.
Miroslav Holub
L'articolo Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav
Holub proviene da Pangea.