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Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus Heaney
Benché abbia in sé, negli avvallamenti etimologici, qualcosa di irenico, di edenico, di maliziosamente leggiadro, la parola antologia ha a che fare con il rischio, l’azzardo, l’assurdo, quando non il pericolo. È vero, antologia significa ‘raccolta di fiori’: la mente va ai quadri della fratellanza preraffaellita – Waterhouse per dire –, di donne fatali infestate di boccioli, e al loro maestro, Botticelli. La raccolta dei fiori si realizza secondo un metodo antologico: non è possibile raccogliere i fiori più belli in assoluto, ma anche quelli che ci vengono offerti dal caso, quelli che il singolare capriccio del raccoglitore ritiene belli. I fiori si preparano per la festa – o perché quel giorno, senza che vi sia un qualche motivo, sia per noi giorno di festa. I fiori sono un dono – il loro dramma: sparire in poco tempo. I fiori insegnano che la festa è transitoria. Diversamente, l’erbario serba ciò che altrimenti è destino svanisca. L’erbario – arte in cui eccelleva Emily Dickinson, tra le poetesse più antologizzate di ogni tempo – cristallizza la festa, la fa museo, mausoleo.  La nostra storia è costellata da antologie: dalla “Corona” di Meleagro alla “Palatina” compilata a Bisanzio; dalla “Raccolta Aragonese” voluta da Lorenzo il Magnifico all’antologia dei “Poeti futuristi” ideata da Marinetti al Man’yōshū, la “raccolta di diecimila foglie” approntata nell’VIII secolo in Giappone, l’antologia non raccoglie le poesie più belle ma quelle necessarie. Un’antologia, comunque, promuove una visione del mondo – è, cioè, un atto di lotta, una dichiarazione di intenti e, a volte, di guerra, più che un invito a nozze. Più spesso, un’antologia è compilata quando la casa brucia, quando occorre, in fuga, alle strettoie del pericolo, raccogliere soltanto gli oggetti più cari, i più cari affetti. Un’antologia è, allora, una zattera: è il minimo indispensabile per restare vivi. C’è, allora – prima ancora della festa e dell’assalto all’arma bianca – qualcosa del sopravvivere nell’antologia. Altro che fiori… l’antologia è il pane spezzato, il pane condiviso. È quell’ultimo, sopravvissuto libro grazie al quale riusciremo, dopo il disastro, a fondare una civiltà, a ricostruire il verbo. Proprio come una zattera, l’antologia ci porta altrove, in un luogo diverso da quello in cui è stata pensata.  L’antologia non è un fiore: è un seme. Piantata in terra di squilibrio, se è buona, se è ben fatta, sboccerà nel futuro. In un futuro da cui tutti i protagonisti – poeti antologizzati e antologizzatori – sono esclusi. L’antologia esiste per chi verrà: agli eredi, alla nuova specie, il compito di fare il fuoco, di erigere torri o di creare teatri.  Intorno a questi criteri – emergenza, allarme, ‘poesia come vita’ –, nel 1997, Ted Hughes e Seamus Heaney costruiscono per la Faber The School Bag, un’antologia – fin nel titolo – rivolta agli studenti – ergo: al futuro –, è vero, ma che pertiene anche a una rivolta interiore, per così dire. The School Bag mira, cioè, per spavalderia, a essere l’unico libro dello studente: che con il suo zaino, per principio di avventatezza, cominci ad esplorare il mondo, a perimetrarne lo splendore. Nell’introduzione, Heaney parla dell’antologia come di una “school of poetry” che assembla i versi dei contemporanei insieme ai “canti dei bardi”; una specie di “compendio di grandi esempi”. C’è qualcosa di epico nel dire di Heaney. L’antologia non è semplicemente un libro ‘di lettura’: è un addestramento. A cosa addestra la poesia? A conferire destrezza a ogni proprio gesto: senza un corpo ben raffinato, ‘marziale’, la voce non esce limpida, esatta – la poesia è prima di tutto ritmo, musica, voce. E poi, è palestra spirituale – la poesia non dice soltanto, non è soltanto musica, ‘significa’. Heaney e Hughes hanno deciso di rappresentare ogni poeta con una poesia soltanto. “Le nostre scelte saranno oggetto di discussione: un ulteriore contributo al libro, alla formazione del lettore. Dopo tutto, quella che William Butler Yeats ha chiamato una volta singing school, è composta da tutti coloro che danno valore alla poesia e vogliono custodirla perché dà un senso alla nostra vita”. In appendice, Ted Hughes firma un testo in cui spiega l’importanza di imparare a memoria le poesie. Lo leggete in calce all’articolo. Hughes si ribella all’apprendimento mnemonico in uso nelle scuole – un apprendimento, dice, che riguarda il cieco obbedire a un ordine imposto – riferendosi all’antica pratica medioevale. A un imparare, cioè, secondo l’uso di immagini, assecondando la propria creatività. Finché la poesia non diventa parte del nostro essere, carne&sangue. E possiamo fare a meno dei libri, diabolico supporto… Ostinato sciamano dall’esistenza sciamannata, Ted Hughes – forse il più estremo tra i poeti del secondo Novecento, il più lucidamente ‘druido’ –, all’epoca era Poet Laureate del regno, sarebbe morto poco dopo, sessantottenne, nell’ottobre del 1998, poco dopo aver pubblicato la sua più nota – ma non la più bella – raccolta, Birthday Letters, in memoria della moglie, Sylvia Plath. Seamus Heaney, più giovane di Hughes – e per certi versi un suo ‘allievo’ – era stato proclamato Nobel per la letteratura nel ’95; l’ultima edizione di The School Bag esce vent’anni fa.  Antologia tra le più autorevoli e al contempo spiazzanti mai realizzate in area anglofona – merito dei due ‘mostruosi’ antologizzatori – The School Bag attacca con una formidabile poesia di Yeats (il sapiente assoluto), Long-legged Fly: > “Perché la civiltà non sprofondi, > Perduta la grande battaglia, > Acquieta il cane, lega il puledro > A un palo lontano; > Il nostro grande Cesare è nella tenda > Dove le carte sono spiegate, > Gli occhi fissi nel vuoto, > Una mano sotto il mento. > Come un insetto dalle lunghe zampe sopra il fiume > La sua mente muove sul silenzio”. L’ultima poesia, di John Dryden, da The Secular Masque, non chiude le danze, ma le rinnova – una antologia è autentica, in effetti, quando, rotti i sigilli, continua a vivere e a vibrare: soltanto i brutti libri restano supini nella stalla della libreria, al giogo del padrone. Fa così: > “Tutto, dopo tutto, non è stato che questo: > la tua caccia mirava alla grande belva > le tue guerre non hanno portato nulla > gli amori si sono rivelati fasulli: > è tempo di ricominciare tutto, ancora, ancora. > Danze di cacciatori, ninfe, guerrieri e amanti)” Nel mezzo, insieme a poeti ben installati nel canone – Coleridge, Wordsworth, Shakespeare, Shelley, Keats, Blake, Whitman… –, una sfilza di ballate gaeliche e di bardi d’Irlanda, tante misconosciute donne (Emilia Lanier, ad esempio, nobildonna veneziana, cresciuta alla corte di Elisabetta I; Carolina Oliphant; l’australiana Eve Langley e la micidiale Laura Riding, tra le altre), tantissimi poeti ‘difficili’ (Elizabeth Bishop e Gerard Manley Hopkins, Basil Bunting e Robert Penn Warren, Hart Crane, Hugh MacDiarmid, George Barker…), a dilatare il canone in esiti fino ad allora inusitati, a fare della scuola, davvero, uno spazio ‘esplosivo’ di esplorazione dell’io, di indagine all’erta. C’è Allen Ginsberg, padre dei beat, come John Crowe Ransom paladino dei sudisti americani, dei nuovi conservatori. Di Ezra Pound è antologizzato il primo dei Cantos, di T.S. Eliot The Hollow Men, di Dylan Thomas Fern Hill. Naturalmente, non mancano Auden e Frost, Lewis Carroll e D.H. Lawrence, Robert Graves e Rudyard Kipling, Oscar Wilde e Philip Larkin. C’è una mirabile poesia di David Gascoyne, The Cubical Domes, con alcuni bellissimi versi: > “Ma la luce delle stelle è attratta dai fiori trasparenti > e alla fine gli uomini e le bestie, gli argani  > e gli elmi e le mesmerizzate suore la dimenticano > perché i confini del mio regno sono sconosciuti”.  Quando l’ha scritta, Gascoyne aveva trent’anni, Hughes ne aveva sei e Heaney non era ancora nato. Si parla, in quella poesia, anche di “flotte di marinai cristiani/ i cui cuori ardono nella neve”.  C’è anche Robinson Jeffers, un poeta che amo molto: nella poesia antologizzata – Fawn’s Foster-mother, la tradurrò, un giorno – si dice di una donna che allatta un cerbiatto, “mio marito l’ha trovato nascosto in un bosco di felci/ gli misi il muso al seno/ piuttosto che farlo morire/ avevo latte a sufficienza per tre bambini”.  Che bello andare a scuola così – anzi, fare della poesia la propria scuola di vita.  *** Imparare le poesie a memoria Ci sono molti buoni motivi per imparare una poesia a memoria. Memorizzare dovrebbe essere un gioco. Un piacere. Per chi di noi ha bisogno di aiuto (in sostanza: tutti), il metodo più comune usato nelle scuole è l’apprendimento mnemonico. Ma questa è soltanto una tra le numerose tecniche di memorizzazione. Per la maggior parte delle persone, è la meno efficace. La noia che ci avvinghia nell’imparare a memoria un testo è stata considerata a lungo una variabile positiva nelle aule inglesi: disciplinava e forgiava il carattere. Il costo tuttavia è elevato: può creare un’avversione radicale per la poesia.  Chi non ama imparare pedissequamente a memoria, ma desidera acquisire i numerosi poteri che derivano dalla sua conoscenza, può scegliere tra diverse altre tecniche, meno faticose, più produttive e divertenti. Queste tecniche sfruttano le strategie naturali che il cervello adotta per ricordare qualcosa. Di recente, ho sentito un tecnico del suono, a teatro, che chiedeva a un altro cosa significassero le lettere CSB che ricorrevano nella scaletta di uno show. Gli fu detto che CSB era il nome dell’attore principale. Poiché il tecnico interpellato non riusciva a ricordare il suo nome, gli aveva affibbiato un nomignolo, Capelli Spumeggianti come Birra. Questo è il genere di cose che capita a tutti senza che ce ne accorgiamo. Perché il tecnico non riusciva proprio a ricordarsi il nome dell’attore mentre pensare alla sua testa piena di “Capelli Spumeggianti come Birra” lo rendeva indimenticabile? Semplice. Una delle tecniche spontanee del cervello per fissare qualcosa nella memoria cosciente è collegarla a un’immagine visiva. Più assurda, esagerata e grottesca è l’immagine, più indimenticabile è la cosa a cui è collegata.  Questa tecnica è superba nel ricordare le liste. Di solito, se ogni immagine viene “fotografata” mentalmente, come su uno schermo, non la dimenticheremo facilmente. E ogni immagine richiama la successiva, ad essa collegata, e poi via, di seguito. Così, da un leone si passa al pollaio e dal pollaio al pettine. È importante che ogni immagine abbia dei legami, per quanto paradossali, con la seguente. Questa è la tecnica che usa anche chi deve imparare una poesia a memoria per professione.  Alcuni potrebbero avere qualche difficoltà nello sbrigliare l’immaginazione. Ci vuole pratica. Il libero sfogo di una immaginazione propensa al gioco, aiuta il cervello a liberarsi di ogni giogo. Alcuni potrebbero essere riluttanti a incardinare le sacre parole di una poesia in un arbitrario e ‘volgare’ accompagnamento dell’immaginazione. Il punto è far entrare la poesia, con ogni mezzo, lecito o illecito, nella propria testa. Dopo un po’, saranno le parole stesse della poesia a stagliarsi in noi: le immagini – il film che ci siamo costruiti – svanirà da sé. Ciò che è essenziale, comunque, è mantenere una facoltà uditiva aperta. Le parole vanno ‘guardate’, ma soprattutto ascoltate – ascoltandone il suono più profondo, saggiando ogni sussurro nell’aria, valutando come quei versi risuonano nel nostro corpo, proprio il nostro, mentre ci impegniamo a costruire per loro un maniero di immagini.  Tecniche mnemoniche di questo tipo, che utilizzano la visualizzazione, sono state inventate nel mondo antico, sono state la base dell’apprendimento nel Medioevo cristiano, quando i libri erano rari. Furono considerate essenziali e ulteriormente sviluppate da alcuni giganti del sapere come Tommaso d’Aquino, che pronunciò questa indimenticabile affermazione: “L’uomo non può comprendere senza immaginare”.  In Inghilterra, l’ascesa puritana/protestante in seguito alla Guerra Civile, nel XVII secolo, ha scardinato le immagini da ogni aspetto della vita comune, distruggendo metodicamente le icone religiose dalle chiese, proibendo quel gioco dell’immaginario che è il teatro. Uno spirito analogo ha bandito dalle scuole le antiche tecniche di memorizzazione che usavano le immagini, sostituendole d’ufficio con l’apprendimento meccanico. I metodi precedenti, associati al paganesimo e al cattolicesimo, furono presto dimenticati. Quando si è tentato di reintrodurli, li hanno bollati come “trucchi” o “sortilegi”, quando non “illusioni”. Così, “imparare a memoria” è diventata la norma.  Ted Hughes *In copertina: Ted Hughes e Sylvia Plath L'articolo Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus Heaney proviene da Pangea.
September 29, 2025 / Pangea
“La felicità di non essere per tutti”. Su Seamus Heaney, il poeta-volpe
Riccio o volpe? Era il 1953 quando il filosofo lettone Isaiah Berlin ideò uno dei giochi più riusciti di critica letteraria, dividendo gli scrittori in due tipi, sulla scia di un frammento del poeta greco Archiloco: “la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Da una parte i proteiformi, dai fini diversi, a volte contraddittori, mai unificati da un principio unico ispiratore; dall’altra le visioni centrali, monistiche e monoteistiche; particolari contro universali; la “volpe sublime” Puskin e il riccio purissimo Dostoevskij. In mezzo, il caso Tolstoj, lo scrittore che “era per natura una volpe, ma credeva fermamente di essere un riccio”. Bene, portando questo gioco di società fuori dalla tavola dei grandi russi, potremmo azzardare il caso singolare di Seamus Heaney, poeta-volpe, a cui per decenni hanno tirato la coda – e costretto a tirar fuori gli aculei – per farlo sembrare un riccio. L’evento centrale della sua biografia, che lo accompagna e tormenta lungo le “dodici fatiche” del suo opus, (per i lettori italiani nell’ampia auto-antologia predisposta dal poeta stesso in occasione del “Meridiano” Mondadori, uscito postumo del 2016 poi totalmente riproposto nello “Specchio”, con la sola dolorosa assenza delle Note – sarebbero bastati dei piccoli a margine per i riferimenti più specialistici alla storia d’Irlanda) è lo scoppio dei Troubles nel 1968, che si protraggono per decenni e hanno il loro culmine nella “Bloody Sunday” del 1972, quando a Derry l’esercito inglese fa fuoco sui manifestanti irlandesi e uccide quattordici persone. Inevitabile, per lui nato nell’Ulster a minoranza cattolica, in una terra dominata e colonizzata da secoli, non essere chiamato a prendere parte, a denunciare, ad essere tirato per la giacchetta e rimproverato per ogni colpevole silenzio: “per un quarto di secolo – scriverà – hanno obbligato i poeti a offrire, implicitamente o esplicitamente, una apologia per la loro arte”. Operazione impossibile, tanto già gravosa quanto più la sua fama di nuovo Yeats e massimo poeta non solo irlandese ma britannico cresceva, grazie anche a una presunta accessibilità e alla dolcezza formale di molte poesie. Due i passaggi culminanti: il pamphlet poem “An Open Letter” del 1983 nel quale si dissocia dall’aggettivo british (dopo essere stato incluso nel “Penguin Book of Contemporary British Poetry”),chiarendo che “la felicità passa per il prendere posizione, scontrarsi, chiarire di non essere per tutti”; e l’incontro – di toni e ambientazioni che ricordano il Luzi purgatoriale – con un esponente del Sinn Féinn in La livella e lo spirito (1996), risolto in un botta e risposta:  > “Quando cazzo scriverai qualcosa  > per noi?” “Se scrivo qualcosa,  > qualunque cosa sia, la scriverò solo per me”.  Questo “me” non è certo chiusura individualistica o rivendicazione dei diritti dell’arte per l’arte, quanto un ribadire un proprio modo di essere poeta profondamente politico, impegnato – scriverà James Woods sulla “London Review of Books” – a “costruire una nazione dal punto di vista storico, mitologico, etimologico”. Nella seminale prima poesia del primo libro, la pluri-antologizzata “Scavare”, questa distanza e impossibilità di essere riccio è già affermata in una premonizione non voluta della violenza intestina che sconvolgerà l’Irlanda – intesa come distanza rispetto al suo essere poeta terreno, radicato, lui figlio e nipote di contadini e allevatori, misurando come un lucidissimo agrimensore quanto separa i primi due versi (“Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza penna, comoda come una pistola”) dagli ultimi tre: “Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza penna./ Scaverò con questa”. È il 1966, la guerra civile è ancora solo nell’aria, ma il volume programmatico Morte di un naturalista è già eversione e riconoscimento di un’altra via. Prendiamo due esempi di dinnseanchas, genere tradizionale irlandese di narrazioni di storie e leggende sulle origini dei nomi di luogo: in “Anahorish” (un analogo gaelico delle nostre “chiare, fresche e dolci acque”) si introduce una distinzione e uno scavare genealogico tra la morbidezza vocalica dell’irlandese e la durezza consonantica dell’inglese colonialista nel quale è costretto a scrivere e pensare; in “Broagh” quel suono finale, impossibile per gli stranieri, fa leva sulla O centrale e la sua immagine tipicamente heaneyana di un “acquazzone / che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno”, per far risuonare una circolarità acquatica e naturalistica da volpe ipersensibile, che con un piccolo balzo ci riporta a un’altra O marina e post-colonialista, quella dell’Omeros di Derek Walcott. Descrizione è rivelazione, è stato detto: panorama e paesaggio – nella poesia come negli ingenui ma non innocui atlanti delle elementari – implicano rappresentazione cartografica e riscrittura politica di un territorio diviso e spaccato tra nativi e conquistatori prima, cattolici e protestanti poi: ognuno imponendo i propri nomi con la violenza che separa fratelli e amici, per cause antichissime e per nessun motivo (si ripensi al recente film Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh). Ma quella di Heaney è un’Arcadia senza innocenza primigenia, nella quale la frattura sembra il destino originale e i nuovi sacrifici riecheggiano i precedenti, i morti per i diritti civili sepolti sopra le tombe della “gente delle torbiere” riemerse in quegli stessi anni nello Jutland, con i corpi di vittime sacrificate alla dea della fertilità Nerthus durante l’età del ferro. Da qui le critiche: all’estetizzazione della violenza; a una visione mitica e ciclica della storia, condannata a ripetere forme arcaiche e omicidi rituali; a un immaginario maschilista che raffigura l’Irlanda come donna inerme da possedere attraverso i secoli. A questi attacchi Heaney non risponde mai direttamente, preferendo divincolarsi con fiuto visionario fino ad aprire una seconda fase dalla fine degli anni Settanta, caratterizzata da un verso più ampio e da toni che invecchiando si fanno più lievi, fino al paradosso di quel Seamus Heaney poeta felice usato come estremo trucco per sfuggire alle trappole. Il poeta-volpe si dedica alle poesie d’amore coniugale, ai viaggi (sarà raggiunto dalla notizia del Nobel durante una vacanza in Grecia), alle traduzioni, come quella del Beowulf finita nella classifica dei best seller del “New York Times”. È il paradosso del Famous Seamus, la pop-star della poesia che deve camuffarsi e trovare nuove formule di rivolta da ogni costrizione, come la vanga del padre rivoltava la terra avara. Così nella luminosissima “Post scriptum”, dove lo ritroviamo in uno stormo di cigni un po’ sinistri, le penne arruffate e “il lungo capo dall’aria ostinata/ nascosto o increstato o indaffarato sott’acqua”: il suo elemento, un altro tipo di ossigeno, via via sempre più rarefatto. Lo stesso di una “Illuminazione” in Vedere le cose, nella quale dei monaci in preghiera vedono comparire una nave, sospesa in alto e incagliata all’altare: un marinaio, invertendo alto e basso – celeste e terreno – si cala giù per liberarla e rischia di annegare prima di riuscire nell’impresa, “uscendo dal meraviglioso/ come l’aveva conosciuto lui”. Il materiale – una leggenda celtica del VI secolo – viene rielaborato modificando involontariamente nel ricordo alcuni elementi, e scoperchiando il tema finale della poesia di Heaney, quello della memoria.  Uno degli ultimi capolavori, “In soffitta”, raccontato magistralmente dai successori Tom Sleigh e Paul Muldoon in un podcast, colma proprio quel “golfo misterioso tra infanzia e vecchiaia” che è l’ultimo ponte teso sulla multiformità irriducibile dell’esistenza. Il passo malcerto sulle scale e sui ricordi di letture giovanili (L’isola del tesoro) diventa quello ebbro di un mozzo per la prima volta a bordo di una nave. E in attesa di scoprire o ritrovare un mondo, e “quanto v’è di memorabile tocca il fondo/ dentro l’irrintracciabile”, la poesia è ancora quella “leggera e anomala infrazione e pendenza del mondo/ mentre il vento si alzava e l’ancora veniva salpata”. Fabrizio Angeli  ** BROAGH Sponda di fiume, le lunghe porche che sfociavano in distese di acetosa e in un sentiero alberato giù verso il guado. Il terriccio del giardino si illividiva facilmente, l’acquazzone che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno era la nera O di Broagh, il suo basso rullio tra i sambuchi battuti dal vento e le foglie del rabarbaro finiva quasi all’improvviso, come quell’ultima gh che gli stranieri faticavano a pronunciare. * LIMBO Nelle reti dei pescatori di Ballyshannon la notte scorsa c’era un neonato oltre ai salmoni, Una figliazione illegittima, un pescetto ributtato nelle acque. Ma sono sicuro che, quando lei stava nell’acqua bassa e lo immergeva con tenerezza finché i suoi polsi ossuti e gelati furono insensibili come il ghiaietto, lui era un pesciolino con ami che le laceravano il ventre. Lei entrò in acqua sotto il segno della sua croce. Lui fu tirato a riva con il pesce. Ora il limbo sarà un luccichio freddo di anime oltre una lontana zona salmastra. Là persino i palmi di Cristo, le piaghe ancora aperte, bruciano e non riescono a pescare. * I BAMBINI DELLA FERROVIA Quando risalivamo i pendii della scarpata eravamo con gli occhi alla stessa altezza delle tazze bianche dei pali telegrafici e dei fili sfrigolanti. Come una bella calligrafia si curvavano per miglia ad est e per miglia ad ovest oltre noi, cedendo sotto il peso delle rondini. Eravamo piccoli e pensavamo di non sapere niente degno di esser noto. Pensavamo che le parole percorressero i fili nei lucenti borselli delle gocce piovane, ciascuna completamente inseminata dalla luce del cielo, dal luccichio delle rotaie, e noi stessi ridotti ad una scala così infinitesimale da poter scorrere attraverso la cruna di un ago. * ILLUMINAZIONI VIII. Dicono gli annali: mentre i monaci di Clonmacnoise eran tutti in preghiera in oratorio su di loro, in aria, comparve una nave. L’ancora, dietro, pendeva tanto a fondo che s’impigliò nella balaustra dell’altare. Quando il grosso scafo si fermò oscillando un marinaio si calò giù per la corda e cercò di liberarla. Invano. “Quest’uomo non può sopportare la nostra vita e annegherà” disse l’abate, “a meno che non gli si dia aiuto”. Il che fu fatto, la nave, libera, ripartì e l’uomo risalì, uscendo dal meraviglioso come l’aveva conosciuto lui. * CATENA UMANA A vedere in primo piano i sacchi di farina passati di mano in mano tra i volontari, e i soldati che sparavano alto oltre la folla, mi ritrovai con la presa su due angoli di un sacco, due rigonfi di granaglie di cui avevo fatto orecchie per trovare un appiglio, pronto al sollevamento –  gli occhi negli occhi, l’uno due, uno due, hop sul rimorchio, poi il peso e il salasso del sollevamento successivo. Nulla ha superato quel rapido sgravio, di fatica più vera ricompensa, un lasciare andare che mai più tornerà. Oppure sì, una volta sola. E per tutte. * IN SOFFITTA I. Come Jim Hawkins in alto sulle crocette dell’Hispaniola, nulla sotto di lui se non immobile acqua verde e sabbia chiara sul fondo, la nave in secca, l’albero inclinato sporto sopra un fondale dove pesci a strisce passano in banchi –  e quando sono passati, la faccia di Israel Hands che si levò tra le sartie prima che Jim gli sparasse uccidendolo sembra levarsi ancora… “Ma era ben morto” dice la storia “centrato da un colpo e poi annegato”. II. Una betulla piantata vent’anni addietro se ne sta tra me e il mare d’Irlanda al lucernaio della soffitta, un uomo abbandonato nell’isola della propria mansarda, un ragazzo ben assettato nella coffa di una vita, velature d’aria, ubriaco di vento, reso ben saldo da quanto va riverberando da chiglia a albero maestro, strofinandosi gli occhi per credere a loro e a questa leggera, ondosa betulla di velaccio. III. A passo di fantasma su quella che allora era la terra firma del linoleum dell’ingresso, appare il nonno, la voce tremula come lo schermo sensibile alle correnti tirato su prima nella sede del Club per lo spettacolo pomeridiano da cui ho appena fatto ritorno. “E Isaac Hands” chiede. “C’era Isaac?” Il suo ricordo di quel nome anch’esso un tremolio, il suo errore perpetuo, una volta e per sempre, come il singolo tonfo quando cadde il corpo di Israel. IV. Mentre invecchio e dimentico i nomi, mentre il mio passo incerto per le scale è sempre più la sottile ebbrezza di un mozzo per la prima volta sul sartiame, mentre quanto v’è di memorabile tocca il fondo dentro l’irrintracciabile, non per questo non mi riesce più di immaginare quella leggera e anomala infrazione e pendenza del mondo mentre il vento si alzava e l’ancora veniva alzata. Da Seamus Heaney, Poesie, Mondadori, Milano 2023, a cura di Marco Sonzogni L'articolo “La felicità di non essere per tutti”. Su Seamus Heaney, il poeta-volpe proviene da Pangea.
September 25, 2025 / Pangea
Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav Holub
Nel 1982, per la Faber del loro antico mentore, T.S. Eliot, Ted Hughes e Seamus Heaney – che senza troppa imprecisione possiamo definire i più autorevoli poeti in lingua inglese del secondo Novecento – curarono un’antologia folle fin dal titolo. The Rattle Bag ha a che fare, nello stesso tempo, con una sacca piena di cose che tintinnano, con un pasticcio – anzi, un pasticciaccio – e con i serpenti a sonagli. C’è qualcosa, al contempo, cioè, di infantile e di pericoloso, di carnevalesco e di carnale in quel titolo. Credo che l’antologia venga venduta ancora oggi – l’ultima edizione risale a un ventennio fa. Nella brevissima nota introduttiva, gli autori dissero di scelte arbitrarie, di una estetica del capriccio, di poesie “dal fascino singolare che continuano a trasmettere il proprio segnale vagabondando in questo vasto e volubile mondo”. Bisogna sempre dubitare dei poeti: anche quando sorridono, celano coltelli. Per descrivere un’antologia creata “per accumulo”, quasi per sbaglio e per caso, i poeti usano la parola cairn. Un cumulo di pietre. Un tumulo. Un segnale d’alta via di pietre impilate una sull’altra. Un idolo, insomma. Con la pietra si può lapidare e si può edificare, si distrugge e si costruisce. Chi conosce la poesia di Heaney e di Hughes, ancorata com’è alla vita a mani nude, al nomadismo verbale, ai campi e ai boschi, ai primordi, a un andare a rapina, sa il peso della parola cairn.  Due anni dopo l’uscita di The Rattle Bag, Ted Hughes sarebbe stato eletto “Poet Laureate” del regno. Molti anni dopo, nel 2003, Seamus Heaney ritornò a quell’impresa in un saggio che s’intitola Bags of enlightenment. Ritornò, intendo, sul concetto di capriccio e di arbitrio: “Un’arbitraria ricchezza più che lavoro istituzionale: questo cercavamo… Il nostro criterio era divertire prima che educare”. Di qui le scelte – su cui arrivo tra un attimo – dettate dal desiderio di stupire, orientate all’eccelso, sì, ma anche all’eccentrico. L’idea era quella di creare una ‘scatola delle meraviglie’ per gli amanti della poesia e per gli studenti.  > “Se alla fine di un anno scolastico anche soltanto una di queste poesie > resterà impressa in uno studente, sarà stato un traguardo notevole. Una poesia > del genere può essere percepita come un possesso prenatale, una garanzia di > interiorità e di legame con le origini. Può diventare la cruna verbale > attraverso cui un ragazzo può passare più e più volte, fino a quando non > l’avrà imparata a memoria, fino a quando non diventerà un sentiero tra il > cuore e la mente, un sentiero in cui quell’individuo potrà ripetutamente > entrare, verso il regno della rettitudine e della gentilezza”.  È davvero un maestro, Seamus Heaney. Credeva nella letteratura – secondo gli insegnamenti di Matthew Arnold – “come mezzo per la diffusione generale della generosità e della luce”.  In sostanza, The Rattle Bag raduna le poesie preferite da Heaney e da Hughes – non è un caso che l’ultima poesia della raccolta, You’re, sia di Sylvia Plath. Tra gli autori antologizzati – tolti alcuni inni dei primordi e certe filastrocche popolari – spiccano Auden e William Blake, Shakespeare e Emily Dickinson, Lewis Carroll, Kavafis, Robert Frost. Appaiono, però, soprattutto, autori per lo più ignoti (almeno a me) come Padraic Colum e Allen Curnow, Kenneth Fearing, Dafydd Ap Gwilym e Hyam Plutzik. Ancora oggi l’antologia di Heaney-Hughes è giudicata eclectic, instructive and inspiring.  Uno spazio consistente in The Rattle Bag è dedicato all’‘onda’ dei poeti dell’Est Europa; tra costoro, uno dei più rappresentati è il poeta ceco Mirolav Holub, con cinque testi. Nel 1988, con la consueta, violenta enfasi, Ted Hughes dichiarò che Holub “è tra la mezza dozzina di poeti più importanti al mondo”. Non l’avevo mai sentito prima di pochi giorni fa. Nato a Plzeň nel settembre del 1923, tradotto in inglese fin dagli anni Sessanta, Miroslav Holub, in realtà, fece carriera come immunologo. Da qui, l’ispirata nitidezza dei versi, l’ironia aspra, il fiabesco inchiodato a un ritmo geometrico, il lirismo che si fa apodittico, ‘scientifico’. Anche Mirslav Holub – secondo i canoni degli scrittori ‘a Est’ – recinta l’assurdo in una scrittura da stenografo. Fu tradotto presto e con straordinario successo nel mondo inglese: nel 1967 la Penguin editò un’antologia di Selected Poems, introdotta da Alfred Alvarez; fu il primo di molti libri. La Faber radunò i suoi saggi – che oscillano tra argomenti letterari a temi scientifici – come The Dimension of the Present Moment (1990); Poems Before & After è uscito nel 2016. In Italia, Holub non ha attecchito, marginalizzato in uscite sporadiche, di poco peso. Il poeta è morto a Praga nell’estate del 1998.  Holub fa parte della lunga lista di poeti-scienziati che confortano il canone della poesia europea. Più di altri – e con una certa dose di spavalderia – ha ragionato su questi estremi della sua vita, spesso inconciliabili. “Negli ambienti scientifici cerco di nascondere il fatto che scrivo versi. Gli scienziati tendono a diffidare dei poeti: ritengono che siano delle persone con uno scarso senso di responsabilità”. Allo stesso tempo, i poeti diffidavano di Holub perché era uno scienziato… A Heaney le poesie di Holub piacevano perché “mettono a nudo le cose, ci mostrano non tanto il cranio sotto la pelle, ma il cervello che sta sotto il cranio”.  Nel 1967, a Spoleto, Holub incontrò Ezra Pound. Scrisse – lo sketch è tradotto in calce all’articolo – di una figura statuaria, dei suoi occhi azzurri, di una mano “gelida, di pietra”. Cesare Cavalleri incontrò Pound a Venezia, nel 1971. Disse anche lui degli occhi azzurri – “due laghi d’azzurro” – e della “mano gelata”; disse che Pound era “assorto, rannicchiato, vivo” (in: C. Cavalleri, “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria. Una conversazione con Jacopo Guerriero, ELS La Scuola, 2018). In un articolo uscito sul “Corriere della Sera” l’11 aprile di quello stesso anno (ora in: E. Pound, È inutile che io parli. Interviste e incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021) anche Indro Montanelli scrisse degli occhi di Pound, “non ne avevo mai visti di eguali, una cascata di luce blu”, della sua figura, “marmorea”, di una “bellezza al di fuori di qualsiasi corrente archetipo”. In questa ricorrenza di ciò che pietrificato pietrifica c’è il genio di Pound, ultimo della stirpe dei giganti.  Quando l’Unione degli scrittori della Cecoslovacchia propose a Holub uno stipendio equivalente a quello che aveva come ricercatore scientifico per darsi alla letteratura, il poeta si negò. “Amo la scienza. Se avessi tutto il tempo del mondo per scrivere versi, non scriverei più nulla”. Scriveva nei ritagli, da apolide alla poesia, in affanno, affascinato dal tutto.  *** Discorso sull’angelo canide Lacrime di luce sull’asfalto: mentono.  Forse pensava a una cagna o ricordava un osso –  coltelli negli occhi di ruote malvage  che afferrano spaccano schiacciano –  ha la mascella rotta striscia, guaisce – no!  cade, mugola, geme resta immobile.  La gente, intorno, lo fissa: un angelo cane peloso e nero con ali madide di fango e quell’infinito dolore che si moltiplica dalla sua aureola sopra le pozzanghere.  L’oscurità sfrega le mani sul corpo e risuona in colonnati verso il cielo. Lo dragano via.  È solo una pezza uno straccio per il cimitero e nulla più. L’angelo delle tegole annusa i camini e rosicchia le ossa delle stelle cadenti.  * Breve riflessione sull’identità Giorno dopo giorno nulla è uguale a se stesso. Né i fiumi né le capre né i profeti. Se l’oggi è uguale a domani non tutte le cose restano uguali. Perché quando una cosa cambia, cambiano anche le altre. Le cose non sono sole: dipendono in modo claustrale da altre cose, per lo meno in parte. Dunque,  sai, non sai mai… Anche i profeti appartengono a questo sistema di relazioni fisse. Come le parole. Come  le capre e il latte. Come il sangue. Per questo, è piuttosto difficile riconoscere le proprie parole, il proprio sangue, il proprio profeta e la propria capra.  Molto difficile. Ma ancora e ancora ci tentiamo, in modo da non ricavare capre dai profeti o sangue dal latte.  Pretendiamo che le cose abbiano un’identità mentre ci trasformiamo nel nostro doppio e marciamo lentamente nell’oscuro abisso del tempo.  * Il giardino dei vecchi È scaltra l’edera, cresce ovunque e dell’erba  incolta nessuno fa più caso. Sotto gli alberi l’invasione di frutti gotici. Crollò l’oscurità, mitologica e senza denti.  Ma Minotauro l’ha sconfitta grazie a un buco nella recinzione. Da qualche parte, Icari impigliati nella ragnatela.  Durante una luminosa mattina i cespugli rivelarono lo spudorato, grigio osso frontale dei fatti. Boccheggiava, senza più parole.  * Breve riflessione sull’accuratezza I pesci                   sanno sempre con precisione dove e quando muoversi, all’unisono                   gli uccelli hanno un innato senso del tempo e dell’orientamento. L’umanità                    è priva di tali istinti, per questo ricorre alla ricerca                   scientifica. La sua natura è illustrata dal seguente esempio. Un soldato                   doveva far esplodere il cannone ogni giorno alle sei di sera.                   Era un soldato, obbediva. La sua accuratezza fu spiegata così: L’orologio                   della vetrina, in città: mi baso su quello. Ogni giorno alle diciassette                   e quarantacinque, monto sulla collina dove è pronto il cannone.                   Alle diciassette e cinquantanove mi avvicino al cannone, alle diciotto in punto sparo.  Ora era chiara                   la ragione di quella accuratezza. Non restava                   che controllare il cronometro. Fu dunque interrogato l’orologiaio. L’orologiaio                   disse che quello era uno degli strumenti più precisi in assoluto.                   Immagini, ormai da molti anni un cannone spara ogni giorno alle sei in punto.                Ogni giorno, nello stesso istante, il mio orologio segna esattamente le sei. Gli orologi becchettano, i cannoni esplodono.  * Incontro con Ezra Pound Non so se siano stati creati prima i poeti o i festival.  Tuttavia, è stato un festival a farmi incontrare Ezra Pound. Era seduto su una sedia, in una piazza di Spoleto; mi spinsero verso di lui. Gli porsi la mano, la afferrò, fissandomi con quegli occhi azzurri che varcarono la testa, perdendosi, lontani. Non si mosse. Non lasciò la mano, dimenticò gli occhi. Fu una lunga stretta, come quella di una statua. La sua mano era gelida, di pietra. Impossibile liberarsi.  Dissi qualcosa. I passeri mi interruppero. Un ragno rampicava sul muro, tastava la pietra con le zampe anteriori. Un ragno che capiva il linguaggio della pietra.  Un treno merci si conficcò nel tunnel del mio cranio. Un controllore in blusa blu mi salutava, cupo, dall’ultimo vagone.  È interessante il tempo che ci vuole perché un treno merci come quello passi.  Poi ci separarono.  Anche la mia mano era fredda: aveva toccato la Via Lattea.  Dunque i treni merci esistono. Un ragno sulla pietra esiste. Esiste la mano e la mano in sé. Esiste anche un non incontro ed esiste un incontro con una non persona. Esiste un tunnel – un intero reticolo di tunnel, vuoti e oscuri, che mettono in contatto la materia vivente che si chiama poesia ai festival.  Potrei avere incontrato Ezra Pound – eppure, in quell’istante non esistevo.  * Il giudizio finale Una lavatrice automatica è accesa – lava  strizza, asciuga.  Come un angelo che mastica chewing gum. Come il granito che perfora il quarzo. Qualcuno maledice il mare ma non lo senti. Piume d’oca vagano in cucina.  Le tue piccole dita scompaiono sotto la porta.  Mosche: piccole Icaro che  tappano le falle del labirinto. Hai un bell’aspetto, figlio mio dici mentre ti coglie l’infarto.  La lavatrice lavora.  Vi entrano banchetti luculliani  c’è anche la granola.  E i riflessi. Cadono lettere bene ordinate. E balene  che nuotano e denti innumerevoli.  Entrano i ricordi, escono  i codici della strada. Bianco. La lavatrice lavora.  Chi pagherà la banda?  Dov’è il ballo dei pompieri? Dove suonerà il flauto stretto dal gelo? Come superare l’ombra di un libro? Bianco di fuliggine dilavata.  La lavatrice gira e tremano le mani di Discobolo. L’eternità è misurata con precisione al secondo. Sì.  In un panorama di giochi bisogna giocare fino alla fine.  In un panorama di fango la via d’uscita è la lavatrice.  Quando è il caos le vie a senso unico sono un sollievo.  Quando sei in via d’estinzione la precisione vale più di un dio.  In questo rumore bianco esco da una porta che mi porta  in questa stessa stanza.  * Una favola Si costruì una casa                   le fondamenta                   di pietra                   i muri                   il tetto sopra la testa                   il camino e il fumo                   la vista dalla finestra. Si fece un giardino                   il recinto                   il timo                   il lombrico                   la rugiada, a sera. Si ritagliò un pezzo di cielo.  E avvolse il giardino nel cielo e la casa nel giardino e il tutto in un fazzoletto poi se ne andò solitario come una volpe artica varcando il freddo e quella infinita pioggia per il mondo.  Miroslav Holub L'articolo Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav Holub proviene da Pangea.
September 16, 2025 / Pangea