
“L’aldilà della voce”. Intorno a un libro impossibile di Dominique Rouche
Pangea - Wednesday, October 8, 2025C’è come una voluttà nel farsi imprendibile – imprenditore dell’imprendibile – la sequela disseccata. Una pratica dell’elusione portata al punto di rottura: alla soglia del fantasma.
Ovvio: ci piacciono i libri impossibili. Quelli che sfuggono alla gabbia stessa del libro – questo sono le parole, d’altronde: corde, coltelli, cani da slitta, strumenti di evasione dalla massa. Le parole non stanno ben intruppate in un libro: il libro non è un pollaio, non è una caserma. Il libro non è un parlamento. Sta allo scrittore forzare i sigilli del libro; al lettore il coraggio di cavalcare a pelo nudo un simile destriero.
Ci piacciono i libri disabili all’editoria odierna. Ci piace questo scalpitio di libri che obbligano l’ascesi al lettore – cercalo, affrontalo, sfiatalo.
Torno a Dominique Rouche, lo scrittore più elusivo della letteratura francese. Anche la parola scrittore lo irrita; anche dire letteratura. Dominique scrive – e vive. Le notizie sul suo conto sono rade, le fotografie inaffidabili; l’anno prossimo dovrebbe compiere ottant’anni – nel 1973, per Gallimard, ha pubblicato Hiulques Copules, libro di spiazzante bellezza, ascritto, senza troppa ragione, al magma ‘sperimentale’. In realtà – come ha compreso Michel de Certeau, mistico fan del poeta – Dominique Rouche si muove a ritroso, verso l’origine del linguaggio, all’Ur del Verbo. Di qui, il disastro grammaticale, la dizione animale, la lacerazione tra trafittura eraclitea e glossolalia. Più che i nouveau, a qualsiasi sigla appartengano, in Rouche agisce, semmai, il dire di Angelus Silesius, l’angelologia dello Pseudo-Dionigi, il razzolare tra locuste aforistiche, tra spine verbose.
Togliere il vello al linguaggio, fare lo scalpo al logos. Che questo deambulare tra gli estremi comporti un romitaggio da sé, l’occlusione, il silenzio è ovvio. Chi scrive, vive – scrivendo, c’è chi si inscrive in una storia, la propria, illusoria, con le ecchimosi della fama, e chi, meticolosamente, si cancella. Ricalcare uno scritto, screpolandolo.
Ad ogni modo, Dominique mi scrive da Parigi – una città, immagino, in cui si può vivere sparendo, come in un anfratto della Tebaide.
Un giorno, allo zenit dell’estate, nel suo italiano inventato, un Petrarca col cilicio, Dominique mi reclama:
“Ho baciato l’alba estiva. È davvero Rimbaud a dettare questo a tutti coloro che sono coinvolti in questa ineffabile avventura alla quale siamo destinati? In quale lotta siamo impegnati? La letteratura potrebbe essere quest’arma di cui non comprendiamo appieno la portata? Quindi siamo gettati in questa lotta senza armi a proteggerci.
A questo proposito, come da lei richiesto, le invio uno dei miei libri intitolato Dieue, al quale sono molto affezionato. Vorrei permettermi di elencare alcuni requisiti essenziali per la lettura di quest’opera prematura: aprire il libro a caso e decifrarne l’intera portata; leggere lentamente ogni riga in cui il testo è affrontato nella sua interezza. Privo di qualsiasi cronologia narrativa, questo racconto frammentato non ha né inizio né fine: incarna il ciclo della scrittura di cui forse abbiamo ignorato la portata. Tutto questo vi sembrerà vano, dal momento che sapete già leggere tutto ciò che conta in questo vangelo, in questa apocalisse in cui dispieghiamo il nostro talento, così modesto e tuttavia così ambizioso. Ho baciato l’alba d’estate: questo è tutto ciò che c’è da ripetere”.
Poco più tardi, mi arriva il libro. Dieue – spietata sintesi tra dieu, dio, e to die, morire – è un libro introvabile, fuori mercato, fuori da tutto. Lo ha pubblicato, nel 2006, Editions QUE; il sito dell’editore risulta attualmente scomparso. Stampato senza troppa grazia, in copertina reca una voragine scura, qualcosa tra il buco nero e la mammella – il nutrimento e la sete, il corpo e la stella – su fondo bianco. Sottotitolo: Hymne à la déesse blanche. In esergo: frasi sparse di Jacques Lacan, Thomas de Quincey, Goethe, Franz Rosenzweig. Il biglietto di Dominique è in una calligrafia che non riesco a districare; il libro è stato tirato in cinquecento copie; l’ultima parola: “l’essere soggiogato”.
Trecentocinquanta pagine: fitte, nottambule, che alternano il racconto mitico, la quest, all’apoftegma, la ‘regola’ all’epica, l’impennata lirica al dire tra gli stenti. Coltivazione di apparizioni; spettri in quantità – spesso malevoli. E poi: una purezza, una tenerezza, come di chi, ovunque, scavi fino al latte, fino al sì. Uno scrivere a stalattiti.
I supporti al libro sono fatti per dissuadere. Si dice che “Dieue è linguaggio crollato nell’abisso della soggettività. Leggere, a questo punto, equivale a essere posseduti dal lirismo della trasgressione”. Dei libri di Dominique Rouche si dice che hanno “messo in scacco la critica”; viene citata una frase tratta da un articolo uscito su “Le Monde”: “un capolavoro dell’inafferrabile”.

Nonostante i manichini e le quinte teatrali, le turbe da impossessato, Dominique non sobilla le ombre. Mi scrive: “Mehr licht: questo è lo scopo di un’opera del genere. ‘Più luce’ implica l’oscurità in cui siamo tutti immersi”.
Qui si traducono le prime pagine di Dieue. Genesi e Apocalisse paiono rimeditate alla luce di Lautréamont – ma c’è un momento in cui anche il gioco delle assonanze, il gioco delle discendenze e della specie reietta e della specie rettile non ha più senso. Il linguaggio si usura per esaltazione, qui, con i capitelli della luce: ciò che ne esce già urla, già va a mensura di latrato.
Che bello: c’è qualcosa da cui siamo espulsi, qualcosa che nessuna intelligenza può più comprendere.
Ed esserne grati, al colmo.
***
Dieue
Sì, il serpente addormentato sotto il tripode si agita, dilaga, come una scrittura sacra che, con le sue spire, compone tutta la verità furente e ancora con le travi: ebbro, allora, legge i lemmi scavati sul bordo dell’altare, sente l’offerta in sangue devota alla Sua furia, alla Sua collera. Offre alla lettura un manoscritto disfatto che la falesia del deserto contesta radicalmente con tutto l’ardore della sua negata altezza.
L’eroe – perché è qui che inizia il nuovo canto, che non sarà smentito dal cielo occluso di stelle, dalle inverate costellazioni, le enervate – mostra il viso, illuminato da un sole dimentico, dissimulato dalla lava, eclissi sublimata di uno stile senza ornamenti. Apre al nuovo e all’allarmato il dire: apre i bastioni a un’avventura a cui solo lui può donarsi, su cui misura le passioni dimenticate.
Solleva il viso: a precipizio la scrittura su cui grava l’interdetto dell’incesto e del parricidio. Attribuisco la mia furia d’amare al nulla, ai calcoli di chi nega, e i filatteri del cielo rimandano alla parola incarnata del dio crocefisso che s’incarica di ogni verità perduta ai confini di un Oriente travestito.
Parla – la sua violenza trafigge la verginità della pagina dove il nome del dio senza imperfezioni illumina la finestra di una stanza misteriosa, gelida. Il fuoco cova nel camino, sdraiato sui tappeti di una calcolata resurrezione conta le crepe sul soffitto, sempre sul punto di crollare, sempre sotto il tiro di un cataclisma annunciato.
Il lettore, immagino, è pallido, è nello sconcerto come chi legge di nascosto, strappa il manoscritto del sogno e ne sparge i frammenti a casaccio, nell’eternità – e comprende l’intera portata della sua perdita. Le pagine, questo paradiso, questa colpa, volano nel cielo moribondo: cosmo e caos sono una colonna di marmo che sprofonda nell’abside dove giace il corpo verginale, le sue vesti, blu o viola.
Pronuncio il sacro nome, la grafia segreta, e verso di me crollano i carri della fama – sul sentiero geme la voce esausta, sotto dettatura.
*
Infallibile, freddo avanzo su questa terra dannata e la maschera dell’interiorità è slacciata: il volto si inchina al mago mitridatizzato in cui vita e morte sono mescolate. Ma lui parla, la sua violenza irrompe nella nube e io scrivo per un morto che continua a esistere in me – diluvia, e i mondi sono riverginati nei primi fondamenti.
Esiste un lettore perfetto: ha letto il vangelo della crudeltà e la sua ferocia irrompe, incide chiose ai margini del dire in fiamme. La trappola di una prosa troppo complessa si chiude sul lettore, in gabbia, davanti ai cancelli di una verità inappropriata.
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Ma egli calcola, fracassa il sogno dalle invise pareti, sfiora l’adolescente che riposa sui tappetti ammonticchiati: penetrerà nel regno che gli è dato e il suo rifiuto scalpita sotto la ragione, esposta ai quattro angoli di un cielo veritiero. Perché: non esiste passaggio obbligato alla realtà del desiderio: non esiste barriera infinita al verbo incarnato: egli regna, assiso sul vuoto, e il discorso, contorto, si avvolge tra le sue mani – anelli di zaffiro lo accertano.
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Cosa dice la volontà del padrone, presto dimenticata perché non ha rimpiazzi? Enuncia la legge della menzogna e della crudeltà: enuncia la paratia del vero che si offre a chi varca soglie che non ammettono ritorno, in cui egli, adorato e solo, è affrancato dalla trasgressione, dall’obbligo del candore. Graffi incisi sulla pella di una vittima assetata di verità: scrittura che traccia scogliere: inchiostro misto a sangue.
*
La ferocia del dire e del nominare comporta l’aldilà della voce, una voce rappresa che ruggisce nella scrittura, dove riversa ogni conoscenza, ogni calcolo del destino: la castrazione è un inganno, è ingiuria al vero: esiste solo un solo passaggio: l’essere che distrugge l’istante della sua morte annunciata: la seconda morte è rinviata ai residui dell’essere – sole che si eclissa sul deserto e illumina senza sfarzo il poeta, accucciato tra gli stracci.
Dorme o finge di sonnecchiare – perché gli è apparecchiata una via dove può avanzare libero dalle sue presunte catene –, le mani scarnificate: perdura nella morte che gli si oppone ma non lo scalfisce: rivive nel discepolo designato la voce impossibile di Colui che per primo lo ha insultato.
Se muore è per approdare sulla riva dove l’eroe torna carico dei fiori dell’immortalità, il petto nudo che erutta nubi e sangue, la sostanza del suo corpo universale. Il maestro crolla nella replica della sconfitta e il discepolo gli vela il viso: eco che riverbera ai quattro angoli di un cielo trafitto, che si spiega sul nulla.
Il mondo torna sull’inveterato asse, il logos riappare all’orizzonte della volontà. Castrazione e morte si scambiano – l’impossibile può essere realizzato nell’essenza della libertà.
Dominique Rouche
*In copertina: un’opera di Pierre Soulages
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