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“L’aldilà della voce”. Intorno a un libro impossibile di Dominique Rouche
C’è come una voluttà nel farsi imprendibile – imprenditore dell’imprendibile – la sequela disseccata. Una pratica dell’elusione portata al punto di rottura: alla soglia del fantasma. Ovvio: ci piacciono i libri impossibili. Quelli che sfuggono alla gabbia stessa del libro – questo sono le parole, d’altronde: corde, coltelli, cani da slitta, strumenti di evasione dalla massa. Le parole non stanno ben intruppate in un libro: il libro non è un pollaio, non è una caserma. Il libro non è un parlamento. Sta allo scrittore forzare i sigilli del libro; al lettore il coraggio di cavalcare a pelo nudo un simile destriero. Ci piacciono i libri disabili all’editoria odierna. Ci piace questo scalpitio di libri che obbligano l’ascesi al lettore – cercalo, affrontalo, sfiatalo. Torno a Dominique Rouche, lo scrittore più elusivo della letteratura francese. Anche la parola scrittore lo irrita; anche dire letteratura. Dominique scrive – e vive. Le notizie sul suo conto sono rade, le fotografie inaffidabili; l’anno prossimo dovrebbe compiere ottant’anni – nel 1973, per Gallimard, ha pubblicato Hiulques Copules, libro di spiazzante bellezza, ascritto, senza troppa ragione, al magma ‘sperimentale’. In realtà – come ha compreso Michel de Certeau, mistico fan del poeta – Dominique Rouche si muove a ritroso, verso l’origine del linguaggio, all’Ur del Verbo. Di qui, il disastro grammaticale, la dizione animale, la lacerazione tra trafittura eraclitea e glossolalia. Più che i nouveau, a qualsiasi sigla appartengano, in Rouche agisce, semmai, il dire di Angelus Silesius, l’angelologia dello Pseudo-Dionigi, il razzolare tra locuste aforistiche, tra spine verbose. Togliere il vello al linguaggio, fare lo scalpo al logos. Che questo deambulare tra gli estremi comporti un romitaggio da sé, l’occlusione, il silenzio è ovvio. Chi scrive, vive – scrivendo, c’è chi si inscrive in una storia, la propria, illusoria, con le ecchimosi della fama, e chi, meticolosamente, si cancella. Ricalcare uno scritto, screpolandolo. Ad ogni modo, Dominique mi scrive da Parigi – una città, immagino, in cui si può vivere sparendo, come in un anfratto della Tebaide. Un giorno, allo zenit dell’estate, nel suo italiano inventato, un Petrarca col cilicio, Dominique mi reclama: > “Ho baciato l’alba estiva. È davvero Rimbaud a dettare questo a tutti coloro > che sono coinvolti in questa ineffabile avventura alla quale siamo destinati? > In quale lotta siamo impegnati? La letteratura potrebbe essere quest’arma di > cui non comprendiamo appieno la portata? Quindi siamo gettati in questa lotta > senza armi a proteggerci. > > A questo proposito, come da lei richiesto, le invio uno dei miei libri > intitolato Dieue, al quale sono molto affezionato. Vorrei permettermi di > elencare alcuni requisiti essenziali per la lettura di quest’opera prematura: > aprire il libro a caso e decifrarne l’intera portata; leggere lentamente ogni > riga in cui il testo è affrontato nella sua interezza. Privo di qualsiasi > cronologia narrativa, questo racconto frammentato non ha né inizio né fine: > incarna il ciclo della scrittura di cui forse abbiamo ignorato la portata. > Tutto questo vi sembrerà vano, dal momento che sapete già leggere tutto ciò > che conta in questo vangelo, in questa apocalisse in cui dispieghiamo il > nostro talento, così modesto e tuttavia così ambizioso. Ho baciato l’alba > d’estate: questo è tutto ciò che c’è da ripetere”. Poco più tardi, mi arriva il libro. Dieue – spietata sintesi tra dieu, dio, e to die, morire – è un libro introvabile, fuori mercato, fuori da tutto. Lo ha pubblicato, nel 2006, Editions QUE; il sito dell’editore risulta attualmente scomparso. Stampato senza troppa grazia, in copertina reca una voragine scura, qualcosa tra il buco nero e la mammella – il nutrimento e la sete, il corpo e la stella – su fondo bianco. Sottotitolo: Hymne à la déesse blanche. In esergo: frasi sparse di Jacques Lacan, Thomas de Quincey, Goethe, Franz Rosenzweig. Il biglietto di Dominique è in una calligrafia che non riesco a districare; il libro è stato tirato in cinquecento copie; l’ultima parola: “l’essere soggiogato”. Trecentocinquanta pagine: fitte, nottambule, che alternano il racconto mitico, la quest, all’apoftegma, la ‘regola’ all’epica, l’impennata lirica al dire tra gli stenti. Coltivazione di apparizioni; spettri in quantità – spesso malevoli. E poi: una purezza, una tenerezza, come di chi, ovunque, scavi fino al latte, fino al sì. Uno scrivere a stalattiti. I supporti al libro sono fatti per dissuadere. Si dice che “Dieue è linguaggio crollato nell’abisso della soggettività. Leggere, a questo punto, equivale a essere posseduti dal lirismo della trasgressione”. Dei libri di Dominique Rouche si dice che hanno “messo in scacco la critica”; viene citata una frase tratta da un articolo uscito su “Le Monde”: “un capolavoro dell’inafferrabile”. Nonostante i manichini e le quinte teatrali, le turbe da impossessato, Dominique non sobilla le ombre. Mi scrive: “Mehr licht: questo è lo scopo di un’opera del genere. ‘Più luce’ implica l’oscurità in cui siamo tutti immersi”. Qui si traducono le prime pagine di Dieue. Genesi e Apocalisse paiono rimeditate alla luce di Lautréamont – ma c’è un momento in cui anche il gioco delle assonanze, il gioco delle discendenze e della specie reietta e della specie rettile non ha più senso. Il linguaggio si usura per esaltazione, qui, con i capitelli della luce: ciò che ne esce già urla, già va a mensura di latrato. Che bello: c’è qualcosa da cui siamo espulsi, qualcosa che nessuna intelligenza può più comprendere. Ed esserne grati, al colmo. *** Dieue Sì, il serpente addormentato sotto il tripode si agita, dilaga, come una scrittura sacra che, con le sue spire, compone tutta la verità furente e ancora con le travi: ebbro, allora, legge i lemmi scavati sul bordo dell’altare, sente l’offerta in sangue devota alla Sua furia, alla Sua collera. Offre alla lettura un manoscritto disfatto che la falesia del deserto contesta radicalmente con tutto l’ardore della sua negata altezza. L’eroe – perché è qui che inizia il nuovo canto, che non sarà smentito dal cielo occluso di stelle, dalle inverate costellazioni, le enervate – mostra il viso, illuminato da un sole dimentico, dissimulato dalla lava, eclissi sublimata di uno stile senza ornamenti. Apre al nuovo e all’allarmato il dire: apre i bastioni a un’avventura a cui solo lui può donarsi, su cui misura le passioni dimenticate. Solleva il viso: a precipizio la scrittura su cui grava l’interdetto dell’incesto e del parricidio. Attribuisco la mia furia d’amare al nulla, ai calcoli di chi nega, e i filatteri del cielo rimandano alla parola incarnata del dio crocefisso che s’incarica di ogni verità perduta ai confini di un Oriente travestito. Parla – la sua violenza trafigge la verginità della pagina dove il nome del dio senza imperfezioni illumina la finestra di una stanza misteriosa, gelida. Il fuoco cova nel camino, sdraiato sui tappeti di una calcolata resurrezione conta le crepe sul soffitto, sempre sul punto di crollare, sempre sotto il tiro di un cataclisma annunciato. Il lettore, immagino, è pallido, è nello sconcerto come chi legge di nascosto, strappa il manoscritto del sogno e ne sparge i frammenti a casaccio, nell’eternità – e comprende l’intera portata della sua perdita. Le pagine, questo paradiso, questa colpa, volano nel cielo moribondo: cosmo e caos sono una colonna di marmo che sprofonda nell’abside dove giace il corpo verginale, le sue vesti, blu o viola. Pronuncio il sacro nome, la grafia segreta, e verso di me crollano i carri della fama – sul sentiero geme la voce esausta, sotto dettatura. * Infallibile, freddo avanzo su questa terra dannata e la maschera dell’interiorità è slacciata: il volto si inchina al mago mitridatizzato in cui vita e morte sono mescolate. Ma lui parla, la sua violenza irrompe nella nube e io scrivo per un morto che continua a esistere in me – diluvia, e i mondi sono riverginati nei primi fondamenti. Esiste un lettore perfetto: ha letto il vangelo della crudeltà e la sua ferocia irrompe, incide chiose ai margini del dire in fiamme. La trappola di una prosa troppo complessa si chiude sul lettore, in gabbia, davanti ai cancelli di una verità inappropriata. * Ma egli calcola, fracassa il sogno dalle invise pareti, sfiora l’adolescente che riposa sui tappetti ammonticchiati: penetrerà nel regno che gli è dato e il suo rifiuto scalpita sotto la ragione, esposta ai quattro angoli di un cielo veritiero. Perché: non esiste passaggio obbligato alla realtà del desiderio: non esiste barriera infinita al verbo incarnato: egli regna, assiso sul vuoto, e il discorso, contorto, si avvolge tra le sue mani – anelli di zaffiro lo accertano. * Cosa dice la volontà del padrone, presto dimenticata perché non ha rimpiazzi? Enuncia la legge della menzogna e della crudeltà: enuncia la paratia del vero che si offre a chi varca soglie che non ammettono ritorno, in cui egli, adorato e solo, è affrancato dalla trasgressione, dall’obbligo del candore. Graffi incisi sulla pella di una vittima assetata di verità: scrittura che traccia scogliere: inchiostro misto a sangue. * La ferocia del dire e del nominare comporta l’aldilà della voce, una voce rappresa che ruggisce nella scrittura, dove riversa ogni conoscenza, ogni calcolo del destino: la castrazione è un inganno, è ingiuria al vero: esiste solo un solo passaggio: l’essere che distrugge l’istante della sua morte annunciata: la seconda morte è rinviata ai residui dell’essere – sole che si eclissa sul deserto e illumina senza sfarzo il poeta, accucciato tra gli stracci. Dorme o finge di sonnecchiare – perché gli è apparecchiata una via dove può avanzare libero dalle sue presunte catene –, le mani scarnificate: perdura nella morte che gli si oppone ma non lo scalfisce: rivive nel discepolo designato la voce impossibile di Colui che per primo lo ha insultato. Se muore è per approdare sulla riva dove l’eroe torna carico dei fiori dell’immortalità, il petto nudo che erutta nubi e sangue, la sostanza del suo corpo universale. Il maestro crolla nella replica della sconfitta e il discepolo gli vela il viso: eco che riverbera ai quattro angoli di un cielo trafitto, che si spiega sul nulla. Il mondo torna sull’inveterato asse, il logos riappare all’orizzonte della volontà. Castrazione e morte si scambiano – l’impossibile può essere realizzato nell’essenza della libertà. Dominique Rouche *In copertina: un’opera di Pierre Soulages L'articolo “L’aldilà della voce”. Intorno a un libro impossibile di Dominique Rouche proviene da Pangea.
October 8, 2025 / Pangea
“Per corrompere le virtù dell’anima”. Dialogo cruento con Dominique Rouche e Thierry Metz
Ogni tanto, mi scrivo con Dominique Rouche. Si ostina a scrivermi in italiano: errori, imperfezioni, fraintesi conferiscono a questa scrittura un surplus di enigma. Dominique forza il linguaggio nel sentiero interrotto, nel fiume interrato, sperando così di cogliere in fallo le parole, di defalcare la falsità, di intuire il loro segreto. Opera da bandito.  Si pratica una lingua estranea, da fuggiaschi, da delinquenti, per familiarizzare con sé – stranieri a se stessi, come intendersi, altrimenti? Giovanissimo, nel 1973, per Gallimard, Dominique Rouche esordisce con Hiulques Copules. È un libro primo e unico, quello, impossibile, in cui la lingua è forzata fino al neologismo, in cui la grammatica – ormai evaporata – si magnifica in olio purissimo. Ascritto – per noia e cecità – a uno sfinito sperimentalismo, Dominique non è un artefice, non è un sobillatore del linguaggio: Hiulques Copules, semmai, rasenta un dire da mistico bracconaggio, tra Laozi e Swedenborg. Sempre, la caccia è nella lingua: chi anela all’assoluto, nelle due dimensioni – ascesa e catabasi – forza il verbo fino alla resa. Fino al tutt’altro. Lo esercita per eccesso o per ascesso: l’analfabeta e il retore sono lo stesso.  Quel libro – pubblicato nella collana ‘Le Chemin’, che pubblicava Jean Starobinski, Henri Meschonnic, Georges Perros e il futuro Nobel J.M.G. Le Clézio – piacque a Michel Foucault e a Michel de Certeau; annientò l’autore che da allora si inoltrò in un proprio deserto. Lo ha mutilato dentro. Non aveva più nulla da poetare – il verbo gli si era avventato nel cobra, nel veleno.  Più di recente, per le edizioni L’Harmattan, Dominque Rouche ha scritto libri inclassificabili, d’indole meditativa. Uno di questi, Vers l’inframonde, è descritto così: “Letteratura: pratica di un linguaggio che riconcilia uomini e dèi prima di tornare alle antiche lotte infinite che mai finiranno. Questo libro mostra visioni di mondi perduti e ritrovati: un inframondo dove vagano le ombre dei morti e di coloro che non sono ancora nati”. Il libro è uscito nel 2011; Dominique non pubblica da più di dieci anni, negli anni Novanta ha pubblicato una enquête sur les miracles.  Qualche mese fa, Dominique mi scrive: “Quanto a me, la letteratura mi invade sempre di più: ma ho dei testimoni che assistono alla mia lotta segreta. Lascio a voi indovinare il significato che anch’io coltivo come un fiore velenoso”. Diceva di volermi inviare dei disegni, che “possano illuminarci sul significato della nostra attività”. Suppongo che noi equivalga e io: conteniamo moltitudini – meglio: siamo legione.  I disegni, infine, arrivano. Se non ho capito male, Dominique li ha realizzati in Umbria. In ciascuna tavola, è la messa in scena del sacrificio. Teatralità compenetrata dall’incombere del pericolo. In scena, sempre, uomini nudi su fondo muto, neutro. Spesso appare un coltello. A volte uno specchio. Non è chiaro se gli uomini stiano provando una pièce; spesso la finzione – la regola – sfama nel vero; spesso il vento si rivela sangue, il soffio un anatema. Non è chiaro se questi uomini appartengano a una setta, a una compagnia teatrale a un eremo. La magrezza ci conduce al digiuno, alle artiche norme della rinuncia.  Qualche giorno fa, una lettera di Dominique che vaga in orfismi: “Appartengo a questo mondo come se lo avessi pronunciato io: è un’illusione quella che sto per dimostrare. Non sapendo più: ma continuando a renderci ciechi all’unica immagine che percepiamo in questa oscurità in cui siamo relegati, prigionieri delle armi e delle leggi di cui un tempo ero l’implacabile custode. Per quello? Sono venuto qui solo per corrompere le virtù dell’anima e glorificare lo Spirito a cui esse affermano di appartenere. Virtù: Dove sei nascosto? Scrivere senza sosta: questa è la mia vocazione di uomo libero o di prigioniero, evocare le figure divine che un tempo ho incontrato e che hanno ispirato questi libri che voglio vedere perire nel fuoco che la terra vomita. Siamo in due a non sapere cosa quindi resterà sconosciuto. È il sangue degli Xst che scorre nelle nostre vene. (Questo è ciò che ci allontana da Lui.) La servitù è ormai senza appello: non esiste altro che questa abitudine: suicidio? Non esiste linguaggio per coloro che hanno perso l’uso di questa parola sconosciuta che esprime la Legge universale nascosta di cui siamo solo ombre distaccate. Oro: Voglio il Male che incarniamo contro la nostra volontà. L’arte della meditazione mi consuma”. Non so quale sia l’appello di Dominique, questo parlare lebbrosario, questi verbi tenuti tra bende, come scorpioni d’oro. Gli dico che i suoi disegni mi ricordano Luca Cambiaso, mi ricordano Alfred Kubin, mi ricordano l’ossessione teatrante del Seicento e il perturbante di Balthus. Una processione di lanterne. Ma che importa poi questo cumolo di citazioni cadaveriche? Nello stesso giorno in cui da Parigi mi giungono i disegni di Dominique: Riccardo Corsi, illuminata mente delle Edizioni degli Animali, mi manda l’ultimo libro di Thierry Metz – la traduzione è di Pasquale Di Palmo. Dolmen, suivi de La demeure phréatique esce per le edizioni di Jacques Brémond nel 2001, dopo essere stato pubblicato nei “Cahier Froissart” nel 1989. Ha trentatré anni, Metz, quell’anno; l’anno prima è morto il figlio di otto anni, divorato da un’auto.  > “Aprire la dimora freatica > essere là > nelle acque che preparano una cascata > niente è più fresco”.  In verità, siamo in un poema per frammenti, per via crucis: alla scrittura su pietra si alterna quella su acqua. L’uomo fa cronaca di sé sulla pietra, si incolonna nel marmo, sperando di resistere un’ora in più al proprio corpo transitorio; Dio sussurra alle acque. Quasi a dire: dono della pietra – suo lignaggio – è diventare fiume. O meglio: il fiume esiste finché la pietra ne è il passeur, l’intransigente calesse.  Spesso, poesie d’intrepida intensità che fanno di Thierry Metz, da qualche anno, uno dei poeti più risonanti in Italia.  “questo qui  – senza nome –  rifornisce la lingua con quello che trova: ramoscelli argilla sterco appena qualche parola qui per accogliere l’imprevedibile quasi nulla dietro la porta salvo che lui  – l’abitante –  preferisce alla dimora la finestra” Metz impasta poesie con pochi lemmi, con una radura di scarni vocaboli, all’osso. D’altronde, è così che si evade dal linguaggio: per combustione interna, finché il fuoco non lacera ogni parola, o per esplosione, per espansione, fino all’anonimato degli assedianti. Giungere all’uno insediandosi nei molti. Poesia-corda – oppure: poesia-ragnatela.  Dolmen: questo pachiderma che Metz rende passerotto. Parola-totem che ridiventa fiore. Senza più dèi né aforismi stellari, soltanto Metz sa ricondurre tutto – dalla piena del dolore – a un eden dei maniaci. Bellissimo.  Certo, fin nel titolo, il detto ‘geologico’ di Paul Celan, la cerca di una parola che abbia tenuta di pietra: Dolmencome Kamen, la pietra di Mandel’štam. Su questa pietra… Pietro/Kepha, l’uomo su cui il Vangelo non si compie ma fa di sé scempio. (Volto reso irriconoscibile per contusione di pietra; pietra che sigilla il Nazareno nel sepolcro). Ma no, non si tratta di lapidare, qui: di levitare, semmai: “eclissi d’uccelli e l’ala che trattiene i venti d’improvviso ti solleva ti porta il più lontano possibile dove la parola nidifica nella tua voce” E sempre, infinitamente, tornare alla voce di René Char – il nido; punto di snodo della poesia recente, che da atto lirico si faccia lancinante assalto. Oppure: premura di andare al Nord di tutto – transumanza di figure glaciali, vita boreale, la sula che in azzurrità si ciba del nostro corpo, fino a redimerlo giovanneo. Parlando, forse, dei suoi testi poetici, mi scrive, Dominique Rouche: “Un mosaico informale che ci guida e ci fa sentire un’unica voce che ci raggiunge fino alla fine: la fine di un discorso risuonante nel buio generale? Una sola voce per una moltitudine di discorsi che culminano nel silenzio: Mehr Licht!, Più luce!”.  Non c’è più pietra né dimora né strato freatico nella scrittura di Dominique. Tutto è al punto estremo di fame, nel più lucido istante: basta rovesciare una parola, pronunciare con errato tono un verso e tutto si sbriciola, si sillaba in briciole. Cosa ci sia dietro – bestia o pascolo, neve o niente – non è dato sapere: sentiamo il rintocco, un feroce mormorio, con l’orecchio appeso alla parete.  *I disegni nel testo e in copertina sono di Dominique Rouche L'articolo “Per corrompere le virtù dell’anima”. Dialogo cruento con Dominique Rouche e Thierry Metz proviene da Pangea.
July 16, 2025 / Pangea
“Perché nascesse, ho scelto di essere distrutto”. Dialogo al buio con Dominique Rouche
Pubblicato il 9 febbraio del 1973, Hiulques Copules recava le stimmate del capolavoro. Il libro – arduo, circolare, oracolare, impossibile –, si sviluppa in duecentodieci ‘fibbie’, folgorazioni beneaugurali che paiono inscritte nell’antro dello scudo dei guerrieri achei – oppure, nella federa della Sulamita.  Pubblicato da Gallimard nella collana ‘Le Chemin’, diretta da Georges Lambrichs, dedicata a testi anomali ed extra ordinari – nella quale, tra gli altri, sono stati publicati il Nobel per la letteratura J.M.G. Le Clézio e Pierre Guyotat, Jude Stéfan e Georges Perros, Michel Butor e Henri Meschonnic –, il libro è presentato come un’opera poetica tesa al “depistaggio”, “cerimonia blasfema, destino d’inganno che combatte tra essere e verità”. Nella ‘quarta’ s’intravede, per fervore psicanalitico, lo stile di Michel Foucault. Era stato proprio lui a presentare l’autore, Dominique Rouche, un ragazzo, a Gallimard. Nato nel 1946 a Évreux, in Normandia, Dominique Rouche aveva elaborato quel libro per anni. Dopo gli studi universitari a Caen, insegnava in un collegio religioso.  A proposito di Hiulques Copules, “Le Monde” scrisse di Une écriture nouvelle; il recensore registrò il dominio di “una scrittura sconcertante”, una scrittura in forma di Centauro, ribelle ai binari grammaticali, che procedeva gemmando neologismi, allusioni, assedi. “Poesia? Più che altro preghiera, verrebbe da dire, stilettata di aforismi e confessioni, pronunciate in una lingua che non appartiene ad alcun genere a noi noto – ma che li incorpora tutti”.  Il giornalista profetizzò per quel libro un destino d’insuccesso, “è molto probabile che passi del tutto inosservato”. In un tempo dominato dagli assordanti sperimentalismi, dalla reggenza dell’ormai dimenticato ‘Nouveau Roman’, dagli sfitti allori degli anziani surrealisti, Rouche portava la sregolatezza del linguaggio da un’altra parte, in altre alcove. Nel suo caso, il gesto è quello di spezzare l’ostia, di spaccare a mezzo la bestia, di verificare con la fiamma un decreto che brilla tra le viscere.  Penetrare nel libro di Rouche, pressoché intraducibile, è arduo; ecco alcuni frammenti tra i più intelleggibili: > “Essere : intanto nella più cieca Immanenza possibile. Come se nulla fosse > all’Universo che il niente Stesso che è Dio che è Me.  > > E che Dio, infine, si riveli Morte”. > “Per qualche Tempo ancora una Violenza s’impossesserà del mio dire : ma, so > cos’è il Tempo della Perdita. E lo annuncio e ho per questo toni ricchi di > gioia”. > “In verità vi dico : “Tutta la Scrittura ho scritto”. E ancora : “I miei > Scritti sono inesistenti”.  > > Così sia : in Eterno : Supplemento Perverso della mia Parola”. Già: si tratta di fare lo scalpo a Chirone; di scotennare il linguaggio fino all’arco, fino a ciò che sfreccia. Più che altro, il libro di Rouche è una specie di Nube della non conoscenza in questi immediati, immedicabili tempi, l’andare tra crani alieni con il lume Eraclito in mano.  Così termina un libro che divora doveri e desideri: “Qui al culmine della lampa il Libro si chiude, sul Nome già precipitato SIPARIO”.  Il libro, che l’anomalia ha tolto dall’anonimato, piacque a Michel de Certeau: nel disse nel suo immane studio, Fabula mistica.  Ad ogni modo, Hiulques Copules, libro primo e ultimo, ultimativo, masticò il proprio autore. Costrinse il proprio autore a estinguersi, estirpato dalla scrittura – a farsi esso stesso scritto, traccia sul greto, vana bava di neve. “Il pensatore insolente” – così la rivista Combat – sparì. Si sa di una sua prossimità con Jacques Lacan; i reperti bibliografici sono scarni, improntati, pare, a inseguire l’indicibile. Con le edizioni L’Harmattan Rouche pubblica, alcuni decenni dopo, Phantôme (2010) e Vers l’inframonde (2011); con Orizons stampa Œdipe le chien (2012). Libri che piantumano un linguaggio tra al di qua e al di là, biada per angeli.  Il primo libro ha sconfitto Rouche – forse, lo ha miracolato dai fantasmi della fama. Hiulques Copules è un libro inaudito, un libro-Rimbaud: ha spalancato un’Africa nel cuore del poeta, lo ha spossessato dal demone letterario.  Nelle rare fotografie, Dominique ha gli occhiali scuri.  L’ho cercato a lungo; l’ultima mail è di qualche mese fa. Rouche preferisce scrivere in italiano; ho mantenuto il suo stile, di bruschi improvvisi. Si scusa degli errori, si firma Confraternellement. Parto da Hiulques Copules. Come nasce questo libro? Che cosa significa il titolo? Questo libro è nato insieme alla mia nascita. Nel libro la mia nascita è la mia rinascita. Quindi questo è il libro che ha guidato la mia esistenza. Il significato del titolo risiede semplicemente nell’epigrafe del libro stesso: parole che non si incastrano bene tra loro. Aperto a metà. Che ha la bocca spalancata. Parole che lasciano vuoti incolmabili tra loro. Che si dividono e si rompono. Questo è il significato del titolo. In quel libro, aurorale, sembra che lei distrugga il linguaggio. Quali sono i suoi ‘maestri’? Che cos’è, infine, per lei, la letteratura, la poesia? Non distruggo il linguaggio. È il linguaggio che mi spezza: da questa lacuna nascono la nascita e la morte del libro. Quindi la mia vita è divisa tra due estremi. Il primo: apri un libro per leggerlo. Questo è il libro del mio destino. Questo è il libro della mia fine. Ho scelto di esprimermi: vale a dire di tirare fuori tutte le parole che guideranno la mia vita fino all’ultimo. Ho scelto di essere distrutto affinché al mio posto nascesse il discorso di un altro fino alla sua fine etc… Il mio discorso finisce nel momento in cui lascia il posto al lettore successivo. È l’eterno ritorno della letteratura: metto i miei passi sulle orme di un altro. Ho sacrificato la mia esistenza affinché fosse assicurata l’esistenza del libro. Dalla mia nascita fino alla sua scomparsa. Tra questi due estremi c’è spazio per molti gradini della scala che sale verso l’eternità. Quindi sostituirò la lingua degli altri con la mia. La letteratura non esiste senza la scrittura che la trasmette. Perché: per realizzare le Scritture è necessario. I miei maestri sono stati l’imitazione di Cristo in ogni sua fase fino al compimento finale. Molto più tardi, il diavolo sarà anche il mio padrone. In questo senso, Georges Bataille era un maestro in letteratura. In seguito, la letteratura latina e la triade Hegel, Nietzsche, Heidegger avrebbero determinato la mia vita letteraria. La letteratura è sotto l’influenza delle “lettre volée” che circolano di mano in mano. Dunque, la lettera uccide, ma lo spirito “vivifica” (E.A. Poe è un maestro di stile e di invenzione, come hanno dimostrato i suoi grandi traduttori, Baudelaire e Mallarmé). Alla sua uscita, si è parlato molto di Hiulques Copules: perché non ha proseguito in quella indagine nel linguaggio? Che cosa è accaduto dopo la pubblicazione di quel libro? Non ho continuato perché dentro di me la letteratura continuava a sopravvivere senza che io lo sapessi. La letteratura è inevitabile. La poesia ne è il culmine. Una indagine nel linguaggio, dici? Jacobson e Lévy-Strauss ne hanno già ampiamente scritto. Come ha fatto Lacan per Sade (cfr. Kant con Sade). Non sono un teorico: ciò che scrivo è valido anche come teoria. Quanto alla pubblicazione, Lacan ha espresso la sua convinzione riguardo al libro: “smaltimento dei rifiuti”, perché: una lettera è spazzatura (lettera/rifiuti). “Letteratura”? sarebbe meglio dire, “leggere” le cancellature. Sotto la cancellatura si possono leggere altre parole: Ferdinand de Saussure riuscì a stabilire che sotto un’iscrizione romana è possibile decifrarne un’altra, la cui identificazione è ancora da definire. La scoperta di Saussure su questo argomento è pari alla scoperta di Freud, che ci ha insegnato che dietro un lapsus è possibile leggere un’altra parola. Dopo la pubblicazione, resta solo un pezzo di spazzatura: “Sicut palea”, pari a sterco diceva Tommaso d’Aquino.  In rete, sono scarsi i riferimenti alla sua vita e alla sua bibliografia: è una scelta di solitudine, di pudore – di spudoratezza nel pudore? Quanto a me, vivo senza più pensare al libro: mi basta esistere, benché diverso. La vita è l’attesa di una rivelazione, definitiva o meno. Quindi, a ciascuno la sua vita; la mia è una parentesi in cui ognuno può leggere ciò che vuole. La mia vita, la mia biografia, la mia bibliografia sono forse significative solo per me. Oggi scrivo D’un discours de servitude, il discorso sul padrone e il suo schiavo, e viceversa. Lo scopo di uno scrittore è non lasciarsi sfuggire le opportunità che si presentano inaspettatamente. Come quella di rivolgermi a un amico italiano… So che il suo primo libro ha affascinato Michel de Certeau: come mai? Ho incontrato almeno due uomini che mi hanno lasciato un’impressione duratura: Michel Foucault e Jacques Lacan. Michel de Certeau è rimasto impressionato dal mio libro? È vero, ma non l’ho mai incontrato. Non possiamo più rivolgergli la tua domanda, ma sfogliare i suoi libri. Mi scriva un verso-amuleto – suo o di chi stima – per orientare la mia ricerca di ‘verità’ (qualunque cosa significhi la parola ‘verità’). Joyce ha detto che l’esistenza è un incubo dal quale vogliamo svegliarci. Preferisco le parole di Rimbaud: “Io è un altro”. Questa è un’altra ‘parola amuleto’: “Questo pensiero tenta solo di far udire, in una sorta di preludio, qualcosa che dalle profondità del tempo, proprio all’inizio del pensiero, è già stato detto senza essere stato veramente pensato”. Ha scritto un libro su Edipo… …mi è piaciuta molto la versione di Edipo di Pier Paolo Pasolini. Sofocle ha scritto: “È quando non sarò più niente che finalmente sarò un uomo”.  *In copertina: Odilon Redon, Armatura, 1891 L'articolo “Perché nascesse, ho scelto di essere distrutto”. Dialogo al buio con Dominique Rouche proviene da Pangea.
March 22, 2025 / Pangea