C’è come una voluttà nel farsi imprendibile – imprenditore dell’imprendibile –
la sequela disseccata. Una pratica dell’elusione portata al punto di rottura:
alla soglia del fantasma.
Ovvio: ci piacciono i libri impossibili. Quelli che sfuggono alla gabbia stessa
del libro – questo sono le parole, d’altronde: corde, coltelli, cani da slitta,
strumenti di evasione dalla massa. Le parole non stanno ben intruppate in un
libro: il libro non è un pollaio, non è una caserma. Il libro non è un
parlamento. Sta allo scrittore forzare i sigilli del libro; al lettore il
coraggio di cavalcare a pelo nudo un simile destriero.
Ci piacciono i libri disabili all’editoria odierna. Ci piace questo scalpitio di
libri che obbligano l’ascesi al lettore – cercalo, affrontalo, sfiatalo.
Torno a Dominique Rouche, lo scrittore più elusivo della letteratura francese.
Anche la parola scrittore lo irrita; anche dire letteratura. Dominique scrive –
e vive. Le notizie sul suo conto sono rade, le fotografie inaffidabili; l’anno
prossimo dovrebbe compiere ottant’anni – nel 1973, per Gallimard, ha pubblicato
Hiulques Copules, libro di spiazzante bellezza, ascritto, senza troppa ragione,
al magma ‘sperimentale’. In realtà – come ha compreso Michel de Certeau, mistico
fan del poeta – Dominique Rouche si muove a ritroso, verso l’origine del
linguaggio, all’Ur del Verbo. Di qui, il disastro grammaticale, la dizione
animale, la lacerazione tra trafittura eraclitea e glossolalia. Più che i
nouveau, a qualsiasi sigla appartengano, in Rouche agisce, semmai, il dire di
Angelus Silesius, l’angelologia dello Pseudo-Dionigi, il razzolare tra locuste
aforistiche, tra spine verbose.
Togliere il vello al linguaggio, fare lo scalpo al logos. Che questo deambulare
tra gli estremi comporti un romitaggio da sé, l’occlusione, il silenzio è ovvio.
Chi scrive, vive – scrivendo, c’è chi si inscrive in una storia, la propria,
illusoria, con le ecchimosi della fama, e chi, meticolosamente, si cancella.
Ricalcare uno scritto, screpolandolo.
Ad ogni modo, Dominique mi scrive da Parigi – una città, immagino, in cui si può
vivere sparendo, come in un anfratto della Tebaide.
Un giorno, allo zenit dell’estate, nel suo italiano inventato, un Petrarca col
cilicio, Dominique mi reclama:
> “Ho baciato l’alba estiva. È davvero Rimbaud a dettare questo a tutti coloro
> che sono coinvolti in questa ineffabile avventura alla quale siamo destinati?
> In quale lotta siamo impegnati? La letteratura potrebbe essere quest’arma di
> cui non comprendiamo appieno la portata? Quindi siamo gettati in questa lotta
> senza armi a proteggerci.
>
> A questo proposito, come da lei richiesto, le invio uno dei miei libri
> intitolato Dieue, al quale sono molto affezionato. Vorrei permettermi di
> elencare alcuni requisiti essenziali per la lettura di quest’opera prematura:
> aprire il libro a caso e decifrarne l’intera portata; leggere lentamente ogni
> riga in cui il testo è affrontato nella sua interezza. Privo di qualsiasi
> cronologia narrativa, questo racconto frammentato non ha né inizio né fine:
> incarna il ciclo della scrittura di cui forse abbiamo ignorato la portata.
> Tutto questo vi sembrerà vano, dal momento che sapete già leggere tutto ciò
> che conta in questo vangelo, in questa apocalisse in cui dispieghiamo il
> nostro talento, così modesto e tuttavia così ambizioso. Ho baciato l’alba
> d’estate: questo è tutto ciò che c’è da ripetere”.
Poco più tardi, mi arriva il libro. Dieue – spietata sintesi tra dieu, dio, e to
die, morire – è un libro introvabile, fuori mercato, fuori da tutto. Lo ha
pubblicato, nel 2006, Editions QUE; il sito dell’editore risulta attualmente
scomparso. Stampato senza troppa grazia, in copertina reca una voragine scura,
qualcosa tra il buco nero e la mammella – il nutrimento e la sete, il corpo e la
stella – su fondo bianco. Sottotitolo: Hymne à la déesse blanche. In esergo:
frasi sparse di Jacques Lacan, Thomas de Quincey, Goethe, Franz Rosenzweig. Il
biglietto di Dominique è in una calligrafia che non riesco a districare; il
libro è stato tirato in cinquecento copie; l’ultima parola: “l’essere
soggiogato”.
Trecentocinquanta pagine: fitte, nottambule, che alternano il racconto mitico,
la quest, all’apoftegma, la ‘regola’ all’epica, l’impennata lirica al dire tra
gli stenti. Coltivazione di apparizioni; spettri in quantità – spesso malevoli.
E poi: una purezza, una tenerezza, come di chi, ovunque, scavi fino al latte,
fino al sì. Uno scrivere a stalattiti.
I supporti al libro sono fatti per dissuadere. Si dice che “Dieue è linguaggio
crollato nell’abisso della soggettività. Leggere, a questo punto, equivale a
essere posseduti dal lirismo della trasgressione”. Dei libri di Dominique Rouche
si dice che hanno “messo in scacco la critica”; viene citata una frase tratta da
un articolo uscito su “Le Monde”: “un capolavoro dell’inafferrabile”.
Nonostante i manichini e le quinte teatrali, le turbe da impossessato, Dominique
non sobilla le ombre. Mi scrive: “Mehr licht: questo è lo scopo di un’opera del
genere. ‘Più luce’ implica l’oscurità in cui siamo tutti immersi”.
Qui si traducono le prime pagine di Dieue. Genesi e Apocalisse paiono rimeditate
alla luce di Lautréamont – ma c’è un momento in cui anche il gioco delle
assonanze, il gioco delle discendenze e della specie reietta e della specie
rettile non ha più senso. Il linguaggio si usura per esaltazione, qui, con i
capitelli della luce: ciò che ne esce già urla, già va a mensura di latrato.
Che bello: c’è qualcosa da cui siamo espulsi, qualcosa che nessuna intelligenza
può più comprendere.
Ed esserne grati, al colmo.
***
Dieue
Sì, il serpente addormentato sotto il tripode si agita, dilaga, come una
scrittura sacra che, con le sue spire, compone tutta la verità furente e ancora
con le travi: ebbro, allora, legge i lemmi scavati sul bordo dell’altare, sente
l’offerta in sangue devota alla Sua furia, alla Sua collera. Offre alla lettura
un manoscritto disfatto che la falesia del deserto contesta radicalmente con
tutto l’ardore della sua negata altezza.
L’eroe – perché è qui che inizia il nuovo canto, che non sarà smentito dal cielo
occluso di stelle, dalle inverate costellazioni, le enervate – mostra il viso,
illuminato da un sole dimentico, dissimulato dalla lava, eclissi sublimata di
uno stile senza ornamenti. Apre al nuovo e all’allarmato il dire: apre i
bastioni a un’avventura a cui solo lui può donarsi, su cui misura le passioni
dimenticate.
Solleva il viso: a precipizio la scrittura su cui grava l’interdetto
dell’incesto e del parricidio. Attribuisco la mia furia d’amare al nulla, ai
calcoli di chi nega, e i filatteri del cielo rimandano alla parola incarnata del
dio crocefisso che s’incarica di ogni verità perduta ai confini di un Oriente
travestito.
Parla – la sua violenza trafigge la verginità della pagina dove il nome del dio
senza imperfezioni illumina la finestra di una stanza misteriosa, gelida. Il
fuoco cova nel camino, sdraiato sui tappeti di una calcolata resurrezione conta
le crepe sul soffitto, sempre sul punto di crollare, sempre sotto il tiro di un
cataclisma annunciato.
Il lettore, immagino, è pallido, è nello sconcerto come chi legge di nascosto,
strappa il manoscritto del sogno e ne sparge i frammenti a casaccio,
nell’eternità – e comprende l’intera portata della sua perdita. Le pagine,
questo paradiso, questa colpa, volano nel cielo moribondo: cosmo e caos sono una
colonna di marmo che sprofonda nell’abside dove giace il corpo verginale, le sue
vesti, blu o viola.
Pronuncio il sacro nome, la grafia segreta, e verso di me crollano i carri della
fama – sul sentiero geme la voce esausta, sotto dettatura.
*
Infallibile, freddo avanzo su questa terra dannata e la maschera
dell’interiorità è slacciata: il volto si inchina al mago mitridatizzato in cui
vita e morte sono mescolate. Ma lui parla, la sua violenza irrompe nella nube e
io scrivo per un morto che continua a esistere in me – diluvia, e i mondi sono
riverginati nei primi fondamenti.
Esiste un lettore perfetto: ha letto il vangelo della crudeltà e la sua ferocia
irrompe, incide chiose ai margini del dire in fiamme. La trappola di una prosa
troppo complessa si chiude sul lettore, in gabbia, davanti ai cancelli di una
verità inappropriata.
*
Ma egli calcola, fracassa il sogno dalle invise pareti, sfiora l’adolescente che
riposa sui tappetti ammonticchiati: penetrerà nel regno che gli è dato e il suo
rifiuto scalpita sotto la ragione, esposta ai quattro angoli di un cielo
veritiero. Perché: non esiste passaggio obbligato alla realtà del desiderio: non
esiste barriera infinita al verbo incarnato: egli regna, assiso sul vuoto, e il
discorso, contorto, si avvolge tra le sue mani – anelli di zaffiro lo accertano.
*
Cosa dice la volontà del padrone, presto dimenticata perché non ha rimpiazzi?
Enuncia la legge della menzogna e della crudeltà: enuncia la paratia del vero
che si offre a chi varca soglie che non ammettono ritorno, in cui egli, adorato
e solo, è affrancato dalla trasgressione, dall’obbligo del candore. Graffi
incisi sulla pella di una vittima assetata di verità: scrittura che traccia
scogliere: inchiostro misto a sangue.
*
La ferocia del dire e del nominare comporta l’aldilà della voce, una voce
rappresa che ruggisce nella scrittura, dove riversa ogni conoscenza, ogni
calcolo del destino: la castrazione è un inganno, è ingiuria al vero: esiste
solo un solo passaggio: l’essere che distrugge l’istante della sua morte
annunciata: la seconda morte è rinviata ai residui dell’essere – sole che si
eclissa sul deserto e illumina senza sfarzo il poeta, accucciato tra gli
stracci.
Dorme o finge di sonnecchiare – perché gli è apparecchiata una via dove può
avanzare libero dalle sue presunte catene –, le mani scarnificate: perdura nella
morte che gli si oppone ma non lo scalfisce: rivive nel discepolo designato la
voce impossibile di Colui che per primo lo ha insultato.
Se muore è per approdare sulla riva dove l’eroe torna carico dei fiori
dell’immortalità, il petto nudo che erutta nubi e sangue, la sostanza del suo
corpo universale. Il maestro crolla nella replica della sconfitta e il discepolo
gli vela il viso: eco che riverbera ai quattro angoli di un cielo trafitto, che
si spiega sul nulla.
Il mondo torna sull’inveterato asse, il logos riappare all’orizzonte della
volontà. Castrazione e morte si scambiano – l’impossibile può essere realizzato
nell’essenza della libertà.
Dominique Rouche
*In copertina: un’opera di Pierre Soulages
L'articolo “L’aldilà della voce”. Intorno a un libro impossibile di Dominique
Rouche proviene da Pangea.
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Ogni tanto, mi scrivo con Dominique Rouche. Si ostina a scrivermi in italiano:
errori, imperfezioni, fraintesi conferiscono a questa scrittura un surplus di
enigma. Dominique forza il linguaggio nel sentiero interrotto, nel fiume
interrato, sperando così di cogliere in fallo le parole, di defalcare la
falsità, di intuire il loro segreto. Opera da bandito.
Si pratica una lingua estranea, da fuggiaschi, da delinquenti, per
familiarizzare con sé – stranieri a se stessi, come intendersi, altrimenti?
Giovanissimo, nel 1973, per Gallimard, Dominique Rouche esordisce con Hiulques
Copules. È un libro primo e unico, quello, impossibile, in cui la lingua è
forzata fino al neologismo, in cui la grammatica – ormai evaporata – si
magnifica in olio purissimo. Ascritto – per noia e cecità – a uno sfinito
sperimentalismo, Dominique non è un artefice, non è un sobillatore del
linguaggio: Hiulques Copules, semmai, rasenta un dire da mistico bracconaggio,
tra Laozi e Swedenborg. Sempre, la caccia è nella lingua: chi anela
all’assoluto, nelle due dimensioni – ascesa e catabasi – forza il verbo fino
alla resa. Fino al tutt’altro. Lo esercita per eccesso o per ascesso:
l’analfabeta e il retore sono lo stesso.
Quel libro – pubblicato nella collana ‘Le Chemin’, che pubblicava Jean
Starobinski, Henri Meschonnic, Georges Perros e il futuro Nobel J.M.G. Le Clézio
– piacque a Michel Foucault e a Michel de Certeau; annientò l’autore che da
allora si inoltrò in un proprio deserto. Lo ha mutilato dentro. Non aveva più
nulla da poetare – il verbo gli si era avventato nel cobra, nel veleno.
Più di recente, per le edizioni L’Harmattan, Dominque Rouche ha scritto libri
inclassificabili, d’indole meditativa. Uno di questi, Vers l’inframonde, è
descritto così: “Letteratura: pratica di un linguaggio che riconcilia uomini e
dèi prima di tornare alle antiche lotte infinite che mai finiranno. Questo libro
mostra visioni di mondi perduti e ritrovati: un inframondo dove vagano le ombre
dei morti e di coloro che non sono ancora nati”. Il libro è uscito nel 2011;
Dominique non pubblica da più di dieci anni, negli anni Novanta ha pubblicato
una enquête sur les miracles.
Qualche mese fa, Dominique mi scrive: “Quanto a me, la letteratura mi invade
sempre di più: ma ho dei testimoni che assistono alla mia lotta segreta. Lascio
a voi indovinare il significato che anch’io coltivo come un fiore velenoso”.
Diceva di volermi inviare dei disegni, che “possano illuminarci sul significato
della nostra attività”. Suppongo che noi equivalga e io: conteniamo moltitudini
– meglio: siamo legione.
I disegni, infine, arrivano. Se non ho capito male, Dominique li ha realizzati
in Umbria. In ciascuna tavola, è la messa in scena del sacrificio. Teatralità
compenetrata dall’incombere del pericolo. In scena, sempre, uomini nudi su fondo
muto, neutro. Spesso appare un coltello. A volte uno specchio. Non è chiaro se
gli uomini stiano provando una pièce; spesso la finzione – la regola – sfama nel
vero; spesso il vento si rivela sangue, il soffio un anatema. Non è chiaro se
questi uomini appartengano a una setta, a una compagnia teatrale a un eremo. La
magrezza ci conduce al digiuno, alle artiche norme della rinuncia.
Qualche giorno fa, una lettera di Dominique che vaga in orfismi:
“Appartengo a questo mondo come se lo avessi pronunciato io: è un’illusione
quella che sto per dimostrare. Non sapendo più: ma continuando a renderci ciechi
all’unica immagine che percepiamo in questa oscurità in cui siamo relegati,
prigionieri delle armi e delle leggi di cui un tempo ero l’implacabile custode.
Per quello?
Sono venuto qui solo per corrompere le virtù dell’anima e glorificare lo Spirito
a cui esse affermano di appartenere. Virtù: Dove sei nascosto?
Scrivere senza sosta: questa è la mia vocazione di uomo libero o di prigioniero,
evocare le figure divine che un tempo ho incontrato e che hanno ispirato questi
libri che voglio vedere perire nel fuoco che la terra vomita.
Siamo in due a non sapere cosa quindi resterà sconosciuto.
È il sangue degli Xst che scorre nelle nostre vene. (Questo è ciò che ci
allontana da Lui.)
La servitù è ormai senza appello: non esiste altro che questa abitudine:
suicidio?
Non esiste linguaggio per coloro che hanno perso l’uso di questa parola
sconosciuta che esprime la Legge universale nascosta di cui siamo solo ombre
distaccate.
Oro: Voglio il Male che incarniamo contro la nostra volontà.
L’arte della meditazione mi consuma”.
Non so quale sia l’appello di Dominique, questo parlare lebbrosario, questi
verbi tenuti tra bende, come scorpioni d’oro. Gli dico che i suoi disegni mi
ricordano Luca Cambiaso, mi ricordano Alfred Kubin, mi ricordano l’ossessione
teatrante del Seicento e il perturbante di Balthus. Una processione di lanterne.
Ma che importa poi questo cumolo di citazioni cadaveriche?
Nello stesso giorno in cui da Parigi mi giungono i disegni di Dominique:
Riccardo Corsi, illuminata mente delle Edizioni degli Animali, mi manda l’ultimo
libro di Thierry Metz – la traduzione è di Pasquale Di Palmo. Dolmen, suivi de
La demeure phréatique esce per le edizioni di Jacques Brémond nel 2001, dopo
essere stato pubblicato nei “Cahier Froissart” nel 1989. Ha trentatré anni,
Metz, quell’anno; l’anno prima è morto il figlio di otto anni, divorato da
un’auto.
> “Aprire la dimora freatica
> essere là
> nelle acque che preparano una cascata
> niente è più fresco”.
In verità, siamo in un poema per frammenti, per via crucis: alla scrittura su
pietra si alterna quella su acqua. L’uomo fa cronaca di sé sulla pietra, si
incolonna nel marmo, sperando di resistere un’ora in più al proprio corpo
transitorio; Dio sussurra alle acque. Quasi a dire: dono della pietra – suo
lignaggio – è diventare fiume. O meglio: il fiume esiste finché la pietra ne è
il passeur, l’intransigente calesse.
Spesso, poesie d’intrepida intensità che fanno di Thierry Metz, da qualche anno,
uno dei poeti più risonanti in Italia.
“questo qui
– senza nome –
rifornisce la lingua
con quello che trova:
ramoscelli
argilla sterco
appena qualche parola qui
per accogliere l’imprevedibile
quasi nulla dietro la porta
salvo che lui
– l’abitante –
preferisce alla dimora la finestra”
Metz impasta poesie con pochi lemmi, con una radura di scarni vocaboli,
all’osso. D’altronde, è così che si evade dal linguaggio: per combustione
interna, finché il fuoco non lacera ogni parola, o per esplosione, per
espansione, fino all’anonimato degli assedianti. Giungere all’uno insediandosi
nei molti. Poesia-corda – oppure: poesia-ragnatela.
Dolmen: questo pachiderma che Metz rende passerotto. Parola-totem che ridiventa
fiore. Senza più dèi né aforismi stellari, soltanto Metz sa ricondurre tutto –
dalla piena del dolore – a un eden dei maniaci. Bellissimo.
Certo, fin nel titolo, il detto ‘geologico’ di Paul Celan, la cerca di una
parola che abbia tenuta di pietra: Dolmencome Kamen, la pietra di Mandel’štam.
Su questa pietra… Pietro/Kepha, l’uomo su cui il Vangelo non si compie ma fa di
sé scempio. (Volto reso irriconoscibile per contusione di pietra; pietra che
sigilla il Nazareno nel sepolcro).
Ma no, non si tratta di lapidare, qui: di levitare, semmai:
“eclissi d’uccelli
e l’ala che trattiene i venti
d’improvviso ti solleva
ti porta il più lontano possibile
dove la parola nidifica
nella tua voce”
E sempre, infinitamente, tornare alla voce di René Char – il nido; punto di
snodo della poesia recente, che da atto lirico si faccia lancinante assalto.
Oppure: premura di andare al Nord di tutto – transumanza di figure glaciali,
vita boreale, la sula che in azzurrità si ciba del nostro corpo, fino a
redimerlo giovanneo.
Parlando, forse, dei suoi testi poetici, mi scrive, Dominique Rouche: “Un
mosaico informale che ci guida e ci fa sentire un’unica voce che ci raggiunge
fino alla fine: la fine di un discorso risuonante nel buio generale? Una sola
voce per una moltitudine di discorsi che culminano nel silenzio: Mehr Licht!,
Più luce!”.
Non c’è più pietra né dimora né strato freatico nella scrittura di Dominique.
Tutto è al punto estremo di fame, nel più lucido istante: basta rovesciare una
parola, pronunciare con errato tono un verso e tutto si sbriciola, si sillaba in
briciole. Cosa ci sia dietro – bestia o pascolo, neve o niente – non è dato
sapere: sentiamo il rintocco, un feroce mormorio, con l’orecchio appeso alla
parete.
*I disegni nel testo e in copertina sono di Dominique Rouche
L'articolo “Per corrompere le virtù dell’anima”. Dialogo cruento con Dominique
Rouche e Thierry Metz proviene da Pangea.
Pubblicato il 9 febbraio del 1973, Hiulques Copules recava le stimmate del
capolavoro. Il libro – arduo, circolare, oracolare, impossibile –, si sviluppa
in duecentodieci ‘fibbie’, folgorazioni beneaugurali che paiono inscritte
nell’antro dello scudo dei guerrieri achei – oppure, nella federa della
Sulamita.
Pubblicato da Gallimard nella collana ‘Le Chemin’, diretta da Georges Lambrichs,
dedicata a testi anomali ed extra ordinari – nella quale, tra gli altri, sono
stati publicati il Nobel per la letteratura J.M.G. Le Clézio e Pierre Guyotat,
Jude Stéfan e Georges Perros, Michel Butor e Henri Meschonnic –, il libro è
presentato come un’opera poetica tesa al “depistaggio”, “cerimonia blasfema,
destino d’inganno che combatte tra essere e verità”. Nella ‘quarta’ s’intravede,
per fervore psicanalitico, lo stile di Michel Foucault. Era stato proprio lui a
presentare l’autore, Dominique Rouche, un ragazzo, a Gallimard. Nato nel 1946 a
Évreux, in Normandia, Dominique Rouche aveva elaborato quel libro per anni. Dopo
gli studi universitari a Caen, insegnava in un collegio religioso.
A proposito di Hiulques Copules, “Le Monde” scrisse di Une écriture nouvelle; il
recensore registrò il dominio di “una scrittura sconcertante”, una scrittura in
forma di Centauro, ribelle ai binari grammaticali, che procedeva gemmando
neologismi, allusioni, assedi. “Poesia? Più che altro preghiera, verrebbe da
dire, stilettata di aforismi e confessioni, pronunciate in una lingua che non
appartiene ad alcun genere a noi noto – ma che li incorpora tutti”.
Il giornalista profetizzò per quel libro un destino d’insuccesso, “è molto
probabile che passi del tutto inosservato”. In un tempo dominato dagli
assordanti sperimentalismi, dalla reggenza dell’ormai dimenticato ‘Nouveau
Roman’, dagli sfitti allori degli anziani surrealisti, Rouche portava la
sregolatezza del linguaggio da un’altra parte, in altre alcove. Nel suo caso, il
gesto è quello di spezzare l’ostia, di spaccare a mezzo la bestia, di verificare
con la fiamma un decreto che brilla tra le viscere.
Penetrare nel libro di Rouche, pressoché intraducibile, è arduo; ecco alcuni
frammenti tra i più intelleggibili:
> “Essere : intanto nella più cieca Immanenza possibile. Come se nulla fosse
> all’Universo che il niente Stesso che è Dio che è Me.
>
> E che Dio, infine, si riveli Morte”.
> “Per qualche Tempo ancora una Violenza s’impossesserà del mio dire : ma, so
> cos’è il Tempo della Perdita. E lo annuncio e ho per questo toni ricchi di
> gioia”.
> “In verità vi dico : “Tutta la Scrittura ho scritto”. E ancora : “I miei
> Scritti sono inesistenti”.
>
> Così sia : in Eterno : Supplemento Perverso della mia Parola”.
Già: si tratta di fare lo scalpo a Chirone; di scotennare il linguaggio fino
all’arco, fino a ciò che sfreccia. Più che altro, il libro di Rouche è una
specie di Nube della non conoscenza in questi immediati, immedicabili tempi,
l’andare tra crani alieni con il lume Eraclito in mano.
Così termina un libro che divora doveri e desideri: “Qui al culmine della lampa
il Libro si chiude, sul Nome già precipitato SIPARIO”.
Il libro, che l’anomalia ha tolto dall’anonimato, piacque a Michel de Certeau:
nel disse nel suo immane studio, Fabula mistica.
Ad ogni modo, Hiulques Copules, libro primo e ultimo, ultimativo, masticò il
proprio autore. Costrinse il proprio autore a estinguersi, estirpato dalla
scrittura – a farsi esso stesso scritto, traccia sul greto, vana bava di neve.
“Il pensatore insolente” – così la rivista Combat – sparì. Si sa di una sua
prossimità con Jacques Lacan; i reperti bibliografici sono scarni, improntati,
pare, a inseguire l’indicibile. Con le edizioni L’Harmattan Rouche pubblica,
alcuni decenni dopo, Phantôme (2010) e Vers l’inframonde (2011); con Orizons
stampa Œdipe le chien (2012). Libri che piantumano un linguaggio tra al di qua e
al di là, biada per angeli.
Il primo libro ha sconfitto Rouche – forse, lo ha miracolato dai fantasmi della
fama. Hiulques Copules è un libro inaudito, un libro-Rimbaud: ha spalancato
un’Africa nel cuore del poeta, lo ha spossessato dal demone letterario.
Nelle rare fotografie, Dominique ha gli occhiali scuri.
L’ho cercato a lungo; l’ultima mail è di qualche mese fa. Rouche preferisce
scrivere in italiano; ho mantenuto il suo stile, di bruschi improvvisi. Si scusa
degli errori, si firma Confraternellement.
Parto da Hiulques Copules. Come nasce questo libro? Che cosa significa il
titolo?
Questo libro è nato insieme alla mia nascita. Nel libro la mia nascita è la mia
rinascita. Quindi questo è il libro che ha guidato la mia esistenza.
Il significato del titolo risiede semplicemente nell’epigrafe del libro stesso:
parole che non si incastrano bene tra loro. Aperto a metà. Che ha la bocca
spalancata. Parole che lasciano vuoti incolmabili tra loro. Che si dividono e si
rompono. Questo è il significato del titolo.
In quel libro, aurorale, sembra che lei distrugga il linguaggio. Quali sono i
suoi ‘maestri’? Che cos’è, infine, per lei, la letteratura, la poesia?
Non distruggo il linguaggio. È il linguaggio che mi spezza: da questa lacuna
nascono la nascita e la morte del libro. Quindi la mia vita è divisa tra due
estremi. Il primo: apri un libro per leggerlo. Questo è il libro del mio
destino. Questo è il libro della mia fine. Ho scelto di esprimermi: vale a dire
di tirare fuori tutte le parole che guideranno la mia vita fino all’ultimo.
Ho scelto di essere distrutto affinché al mio posto nascesse il discorso di un
altro fino alla sua fine etc… Il mio discorso finisce nel momento in cui lascia
il posto al lettore successivo. È l’eterno ritorno della letteratura: metto i
miei passi sulle orme di un altro.
Ho sacrificato la mia esistenza affinché fosse assicurata l’esistenza del libro.
Dalla mia nascita fino alla sua scomparsa. Tra questi due estremi c’è spazio per
molti gradini della scala che sale verso l’eternità. Quindi sostituirò la lingua
degli altri con la mia. La letteratura non esiste senza la scrittura che la
trasmette. Perché: per realizzare le Scritture è necessario.
I miei maestri sono stati l’imitazione di Cristo in ogni sua fase fino al
compimento finale. Molto più tardi, il diavolo sarà anche il mio padrone. In
questo senso, Georges Bataille era un maestro in letteratura. In seguito, la
letteratura latina e la triade Hegel, Nietzsche, Heidegger avrebbero determinato
la mia vita letteraria.
La letteratura è sotto l’influenza delle “lettre volée” che circolano di mano in
mano. Dunque, la lettera uccide, ma lo spirito “vivifica” (E.A. Poe è un maestro
di stile e di invenzione, come hanno dimostrato i suoi grandi traduttori,
Baudelaire e Mallarmé).
Alla sua uscita, si è parlato molto di Hiulques Copules: perché non ha
proseguito in quella indagine nel linguaggio? Che cosa è accaduto dopo la
pubblicazione di quel libro?
Non ho continuato perché dentro di me la letteratura continuava a sopravvivere
senza che io lo sapessi. La letteratura è inevitabile. La poesia ne è il
culmine.
Una indagine nel linguaggio, dici? Jacobson e Lévy-Strauss ne hanno già
ampiamente scritto. Come ha fatto Lacan per Sade (cfr. Kant con Sade). Non sono
un teorico: ciò che scrivo è valido anche come teoria.
Quanto alla pubblicazione, Lacan ha espresso la sua convinzione riguardo al
libro: “smaltimento dei rifiuti”, perché: una lettera è spazzatura
(lettera/rifiuti). “Letteratura”? sarebbe meglio dire, “leggere” le
cancellature. Sotto la cancellatura si possono leggere altre parole: Ferdinand
de Saussure riuscì a stabilire che sotto un’iscrizione romana è possibile
decifrarne un’altra, la cui identificazione è ancora da definire. La scoperta di
Saussure su questo argomento è pari alla scoperta di Freud, che ci ha insegnato
che dietro un lapsus è possibile leggere un’altra parola.
Dopo la pubblicazione, resta solo un pezzo di spazzatura: “Sicut palea”, pari a
sterco diceva Tommaso d’Aquino.
In rete, sono scarsi i riferimenti alla sua vita e alla sua bibliografia: è una
scelta di solitudine, di pudore – di spudoratezza nel pudore?
Quanto a me, vivo senza più pensare al libro: mi basta esistere, benché diverso.
La vita è l’attesa di una rivelazione, definitiva o meno. Quindi, a ciascuno la
sua vita; la mia è una parentesi in cui ognuno può leggere ciò che vuole. La mia
vita, la mia biografia, la mia bibliografia sono forse significative solo per
me. Oggi scrivo D’un discours de servitude, il discorso sul padrone e il suo
schiavo, e viceversa.
Lo scopo di uno scrittore è non lasciarsi sfuggire le opportunità che si
presentano inaspettatamente. Come quella di rivolgermi a un amico italiano…
So che il suo primo libro ha affascinato Michel de Certeau: come mai?
Ho incontrato almeno due uomini che mi hanno lasciato un’impressione duratura:
Michel Foucault e Jacques Lacan. Michel de Certeau è rimasto impressionato dal
mio libro? È vero, ma non l’ho mai incontrato. Non possiamo più rivolgergli la
tua domanda, ma sfogliare i suoi libri.
Mi scriva un verso-amuleto – suo o di chi stima – per orientare la mia ricerca
di ‘verità’ (qualunque cosa significhi la parola ‘verità’).
Joyce ha detto che l’esistenza è un incubo dal quale vogliamo svegliarci.
Preferisco le parole di Rimbaud: “Io è un altro”.
Questa è un’altra ‘parola amuleto’: “Questo pensiero tenta solo di far udire, in
una sorta di preludio, qualcosa che dalle profondità del tempo, proprio
all’inizio del pensiero, è già stato detto senza essere stato veramente
pensato”.
Ha scritto un libro su Edipo…
…mi è piaciuta molto la versione di Edipo di Pier Paolo Pasolini. Sofocle ha
scritto: “È quando non sarò più niente che finalmente sarò un uomo”.
*In copertina: Odilon Redon, Armatura, 1891
L'articolo “Perché nascesse, ho scelto di essere distrutto”. Dialogo al buio con
Dominique Rouche proviene da Pangea.