Il mio cuore è una iena. Vita in versi di Remo Mannoni, il futurista dimenticato

Pangea - Friday, October 10, 2025

Nel fermento delle avanguardie primonovecentesche trova voce la stagione più ispirata di Libero Altomare, al secolo Remo Mannoni, la cui poetica, deficitaria ancora oggi di un’analisi sistematica, è testimonianza preziosa della policromia di mutamenti che ha dato il via alla nascita della poesia italiana moderna. In mancanza di un’opera esaustiva dedicata al poeta, si tenta di tracciarne in questa sede un essenziale profilo poetico e biobibliografico, attraverso notizie ritrovate su giornali coevi, informazioni ricavate da monografie di terzi ed il recupero della sua stessa prosa Incontri con Marinetti e il Futurismo (Corso Editore, Roma, 1954). 

Nato a Roma nel 1883, Remo Mannoni è sin da giovanissimo parte attiva della vita culturale del Paese, collaborando dagli inizi del Novecento con diverse riviste; del 1903 sono, infatti, i componimenti: La palude e Cuore strano, pubblicate nel “Marforio”; X, in “Rivista d’amore”; La città delle acque, ne “Il Paggio d’amore”. È un anno cruciale per la poesia italiana, in cui si intersecano il simbolismo di Pascoli e d’Annunzio, che pubblicano rispettivamente Canti di Castelvecchio ed Alcyone, con i toni dimessi e le ambientazioni marginali di Govoni, che nello stesso anno dà alla luce Armonia in grigio et in silenzio. Si colloca proprio in questo diaframma la prima fase della poetica di Mannoni, che, se da una parte è ancora strettamente legata al sonetto classico, spesso in endecasillabi, dall’altra si tinge di riverberi crepuscolari che superano la fase dannunziana: 

“Il mio cuore è un’antica pergamena
dimenticata, logora, ingiallita,
rosa da assiduo tarlo e raggrinzita
come la pelle d’una vecchia jena”. 

O ancora: 

“È un triste luogo; s’ergono nell’aria
pochi ruderi arsicci, screpolati,
come fari ciclopici atterrati
in cui si annida sol la procellaria”.

Non può che essere altrimenti considerando luoghi e persone frequentate dal giovane Mannoni, che, nel “Caffè Sartoris” di Roma, ha i primi scambi culturali con – tra gli altri – Sergio Corazzini, Fausto Maria Martini, Tito Marrone e Govoni stesso. Le influenze di questo periodo confluiscono ne Il Monte: versi, libretto di quattordici pagine stampato a Roma nel 1904, e nella più strutturata raccolta Rime dell’Urbe e del Suburbio, stampate sempre a Roma dalle Officine Tipografiche Italiane nel 1907, in cui si fanno già strada gli elementi di velocità, dinamismo e progresso che caratterizzeranno il suo periodo futurista: 

“e la furia dei cocchi signorili,
che invan frusta la Noia ed il Tempo stringe,
gareggia con i carri, cui sospinge
fòlgore imprigionata in fèrrei fili”.

In seguito, fonda a Roma la rivista “Primo vere” nel 1908, che avendo però scarso successo, si interrompe al primo numero. L’anno seguente pubblica Procellarie per la Casa Editrice della gioventù di C. Fossataro e aderisce ufficialmente al Futurismo. Si riportano, a proposito, le sue stesse parole:

“Io che da qualche tempo ero in rapporti epistolari con Marinetti (per avergli fatto omaggio di un mio quaderno di liriche stampato a Napoli dall’editore Fossataro) e ricevevo in dono Poesia, ebbi naturalmente anche il Manifesto incendiario; così appresi che Corrado Govoni, da Ferrara e Aldo Palazzeschi da Firenze – due nomi a me ben noti – si erano aggregati all’originario nucleo milanese, sebbene entrambi godessero fama di poeti crepuscolari. In breve, il mio naturale temperamento e l’approfondito esame delle mie intime esigenze artistiche e politiche dissiparono i dubbi superstiti: la giovinezza (avevo venticinque anni) l’amore del nuovo e la indipendenza da ogni vincolo accademico fecero il resto: inviai perciò anch’io la adesione al nuovissimo movimento che si riprometteva di svecchiare, rivoluzionandola, tutta l’Arte contemporanea; e alla lettera aggiunsi la mia prima lirica futurista, intitolata “Apocalisse”, che piacque tanto a Marinetti sicché egli, oltre a pubblicarla nella sua Rassegna, alcuni anni dopo la tradusse personalmente in francese per l’antologia “Les Cinq Continents” di Ivan Goll (Paris, 1920).”

Sono anni di intensi cambiamenti per la poesia di Remo Mannoni, ribattezzato da Marinetti “Libero Altomare”, che abbandona il sonetto in favore del verso libero, acquisendo nuovo slancio. I suoi versi, ora snelli, rapidi, densi di movimenti roboanti, si contornano di note intimistiche ed immagini surreali, centrifugandosi in un’estetica certamente originale.

Remo Mannoni alias Libero Altomare nella truppa dei Futuristi

Non tardano ad arrivare i consensi a livello nazionale ed internazionale; Marinetti, in occasione della prima serata futurista di Trieste scrive: “Ebbi quella sera la gioia di far applaudire fragorosamente da 3.000 persone la vostra bellissima poesia Desiderio”; Ricciotto Canudo nel numero di agosto 1909 del “Mercure de France”, scrive di lui: “Le lyrisme de M. Remo Mannoni, qui doit être très jeune, est au ontraire tout éclatant, s’élance dans les Procellarie”.

Nel gruppo futurista Altomare reincontra, tra l’altro, una vecchia conoscenza: Umberto Boccioni, pittore che avrebbe dovuto rivoluzionare le arti plastiche, con cui aveva condiviso una pensione in Via Muzio Clementi, nel quartiere Prati di Roma dal 1904 al 1905. L’intesa col resto del gruppo e i bissati applausi alle declamazioni delle sue liriche sembrano avviare il poeta sulla strada del successo, non fosse che, all’apice della sua carriera poetica, questioni lavorative e familiari si frappongono tra Libero Altomare e la sua produzione: la presa di servizio come applicato in prova alla stazione di Civitavecchia, alcuni malanni e la successiva assunzione come funzionario statale, allontanano via via il poeta dal centro del movimento. Nondimeno, la nascita delle parole in libertà stride con le intenzioni di Mannoni, che confessa: 

“Dalla lettura di tale linguaggio monosillabico e onomatopeico trassi subito la convinzione della mia incapacità di adeguarmi ad esso, ma non vi attinsi quella percezione pura che, l’autore (seguace dell’intuizionismo bergsoniano) se ne riprometteva. Mi sembrava troppo facile, ormai, diventare scrittore futurista. Né le mie previsioni errarono”. 

Nel 1913 perde il figlio, di soli otto mesi, e cinque anni dopo sua moglie. Nel mezzo, qualche pubblicazione su “Lacerba”. L’indole poetica è tuttavia irrimediabilmente compromessa e Mannoni scriverà di quei tristi avvenimenti: “Mentre così quell’intima tragedia imprimeva stigmate indelebili nella mia subcoscienza tutti i conati di evasione nei campi del lavoro e dell’attività artistica, da me escogitati, fallirono”.

Subentrano inoltre divergenze politiche col futurismo alle soglie della Prima guerra, che ne determinano il definitivo distacco. Nonostante ciò, non avverrà mai una rottura totale dei rapporti amichevoli con Marinetti, il quale continuerà a tenere informato Altomare sulle pubblicazioni futuriste, talvolta inviategli anche con la beffarda dedica “A Remo Mannoni – gridando – Evviva il futurismo!”

Remo Mannoni (1883-1966)

Il poeta ritorna sulle scene, dopo anni di silenzio, nel 1931 con Fermento, sotto il nome di Remo Mannoni e solo tra parentesi, in caratteri più modesti, l’alter ego Libero Altomare, ormai divenuto vecchio ricordo. L’opera racchiude tutte le fasi dell’autore, con alcune poesie già pubblicate nelle precedenti raccolte e non passa del tutto inosservata; Vittorio Bodini in “La Voce del Salento”, del 19 giugno 1932, recensisce Fermento scrivendo:

“Questo poeta sente profondamente nel suo spirito il travaglio che caratterizza nella storia letteraria di tutti i tempi, presente passato futuro, la nostra poesia potenziata dalla civiltà meccanica e dal desiderio – volontà del Sempre Più Oltre. In una girandola tumultuosa, grandi medie piccole cose, robuste tenui, turbinano intorno al perno – spirito di Libero Altomare (Remo Mannoni), ne impressionano la sensibilità, lo inebriano del loro lirismo”.

Quelli di Fermento sembrano, allo stato attuale delle ricerche di chi scrive, gli ultimi versi pubblicati a volontà del poeta, il cui carillon sonnolento risuona ancora con furore tra le tappezzerie sbiadite.

Salvatore Giuseppe Di Spena

*

NOTTURNO GUERRESCO

Inesorabile, fredda, la luna
nel ciel di febbraio:
scimitarra d’acciaio
in agguato fra i nuvoli.

Broli deserti,
nidi imboscati,
fanali disertori…

Ma cuori di fiamma,
ali secure perlustrano
le vie dell’aria,
a disvelare l’insidia nemica.

La quotidiana fatica
della città assopita,
non tace: mormora, prega;
ansima in segreto.

Tragica vigilia d’armi,
sordo pulsare di vene
e di macchine,
tarli di opere insonni.

Per la pugna del domani
la Forza affila le armi,
la Pietà prepara le bende:
s’aprono generosi cuori e forzieri.

Volano i sogni verso le trincere! – 
Sulle case, dalle porte crocifisse,
due battenti: fede, speranza …

Già squilla il sole la sua nuova diana,
s’avanza l’orifiamma dell’aurora,
dai lor bivacchi fuggono le stelle.

Bronzee voci di campane
e guerriere voci umane
invocano: Gloria!…

Scintillano guglie come baionette.
E l’orizzonte tricolore promette
un radioso meriggio di vittoria.

***

IL PASSATO

Vecchio carillon sonnolento
che riesuma fra tappezzerie sbiadite
e fetore di crisantemi sfatti
ingenue romanze di epoche lontane.

Bigotto lacrimoso
che biascica un rosario di rimorsi;
cero fumigante in eterno
sovra le bare dei giorni perduti;
cinematografia grottesca e scialba
su la tela fluttuante de la memoria.

Povero specchio infranto ai cui frantumi,
i ricordi, ogni tanto ci rispecchiano
per pescarvi con uno gesto scimmiesco
qualche arabesco di sogno
che ci solcò la fronte

***

ANTELUCANA

Brividi impercettibili
percorrono la divina
Notte, resupina
su la terra e sulle acque,
al primo impallidire
de li astri.

Sussulta più forte il Silenzio
ai passi, alle ruote, alle voci.
E Fora in cui, mute
ne la loro bruta gravità,
giacciono tutte le cose;
ma le macchine pulsanti
su tutte le vie del mondo
s’affrettano convulse
verso le mete consuete
ed il biscazziere, insonne,
azzarda l’ultima posta.
S’è nascosta la luna…
Più forte singhiozzano le fonti.

Torpidi nel lor sonno minerale,
lontani i monti
sembrano respirare
a gara con l’Oceano.

È l’ora in cui l’anime umane,
rese traslucide
come urne d’alabastro
dalla notturna tregua
sorella di morte,
rivelano fortemente
la presenza della Face
inestinguibile.

Pace sia, pace
per l’inesausto pensiero
e per l’insaziata brama,
per chi soffre e per chi ama,
per ogni oppressore
ed ogni oppresso.

Sogni, presagi,
incubi volteggiano.
Ora di gioia prenatale
per la carna sana
che anela all’alba e al meriggio;
ora in cui anche il morente
presente una nuova aurora.

***

SCALATA

             Vogliamo dare la scalata al cielo!

Tutta la Terra fu corsa da noi: 
corpi vibranti e parole di fulmine. 
Avviluppammo i prati e le boscaglie 
di ferree maglie: l’aria,
d’esili ragnatele telegrafiche;
mostri di fuoco aizzammo sui mari. 
Mascherotti sublimi, palombari,
subacquee sirene, attinsero i gorghi profondi 
le vertebre titaniche dei monti 
scricchiolarono sotto le nostre ossa, 
mutarono di colore le bianche gote polari 
sotto il magnetico sguardo dei fari nittalopi.

Trasvoliamo su ruote elastiche,
ci adagiamo su carri trionfali;
ghirigori strani c’insegnano il cammino. 
  Divoriamo gli spazi,
  ma sazi
  ancora non siamo di strage.

Vogliamo dare la scalata al cielo
  strappare il velo azzurro
  che riveste l’androgino Mistero 
  Tuonare rulli di tamburi elettrici, 
  saettare fluidici dardi
  su gli astri beffardi.

Vengano dunque i novi mostri alati:
  ali di tela,
  cuori di acciaio:
  lo spirito gaio dell’uomo l’inciela!…

Sieno sparvieri ed angeli ribelli, 
  non rondinelle o nottole.
  Parlino lingue babeliche,
  aprano gole fameliche, 
  ali luciferine
  stendano fino all’ultimo confine!

E noi daremo la scalata al cielo!

***

CUORE STRANO

Il mio cuore è un’antica pergamena
dimenticata, logora, ingiallita,
rosa da assiduo tarlo e raggrinzita
come la pelle d’una vecchia jena.

Ha miniature d’angeli e di donne
di demoni e di mostri, strani emblemi,
misteriose cabale, poemi
e templi dalle fulgide colonne.

E d’altre vaghe immagini è istoriata,
però lo scritto vi si legge appena.
Marcirà prima d’esser decifrata
questa lacera, vecchia pergamena.

***

L’ALBERGO DELLA NOIA 

Com’è triste l’albergo della Noia!
S’inseguono le stanze allineate
in fila come celle claustrali
pei corridoi simmetrici percorsi
dai tappeti che bevono i rumori.

Tappeti grigi, grigi come l’ombre
che vegliano alle soglie delle porte,
freddi come la polvere cinerea
che si raggruma sovra le specchiere
velandone i grandi occhi allucinati.

Mobili taciturni come bare
dimenticate. – Le tignuole dormono
un sonno antico nei massicci armadi
neri. Sogghigna il lucido ferrame
come le inferriate degli ergastoli.

E poi, divani soffici avvolgenti
come il lubrico fango degli stagni;
poltrone che poltriscono, enfiate,
a braccia aperte nell’attesa vana
che vi si sdrai l’Ospite accidioso.

Le tende vellutate e le portiere
flosce, pesanti, sembrano le ali
di penduli chirotteri in letargo.
Celano forse i resti di un delitto
o qualche accoppiamento mostruoso? —

Scale di sopra, scale in basso, scale
che si perdono su, nell’infinito,
tutte a spirali tormentose come
l’anime folli che non hanno tregua.

Solo ogni tanto qualche lucernario
sgrana nell’ombra la pupilla smorta:
una nube d’ovatta insanguinata
rade i vetri stagnanti, e vi si sfiocca.

Da quanto tempo, immemore, mi aggiro
ospite involontario in mezzo ad ospiti
occulti nel castello della Noia?
Cerco invano la stanza che m’accolga,
la crisalide bigia, dove il Sogno
tessere possa qualche filo d’oro…

Innumeri orologi si accompagnano
rigidamente al ritmo del mio cuore,
accoliti devoti del silenzio:
le lancette che lacerano il tempo
segnano tutte la medesima ora!…
 — Chi, di sorpresa, mi condusse qua?

Ecco la Morte, pallida, composta,
con un inchino cerimonioso
additarmi la stanza del riposo,
e lasciarmi così, senza risposta…

*In copertina: un’opera di Umberto Boccioni (1882-1916)

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