Nel fermento delle avanguardie primonovecentesche trova voce la stagione più
ispirata di Libero Altomare, al secolo Remo Mannoni, la cui poetica, deficitaria
ancora oggi di un’analisi sistematica, è testimonianza preziosa della policromia
di mutamenti che ha dato il via alla nascita della poesia italiana moderna. In
mancanza di un’opera esaustiva dedicata al poeta, si tenta di tracciarne in
questa sede un essenziale profilo poetico e biobibliografico, attraverso notizie
ritrovate su giornali coevi, informazioni ricavate da monografie di terzi ed il
recupero della sua stessa prosa Incontri con Marinetti e il Futurismo (Corso
Editore, Roma, 1954).
Nato a Roma nel 1883, Remo Mannoni è sin da giovanissimo parte attiva della vita
culturale del Paese, collaborando dagli inizi del Novecento con diverse riviste;
del 1903 sono, infatti, i componimenti: La palude e Cuore strano, pubblicate nel
“Marforio”; X, in “Rivista d’amore”; La città delle acque, ne “Il Paggio
d’amore”. È un anno cruciale per la poesia italiana, in cui si intersecano il
simbolismo di Pascoli e d’Annunzio, che pubblicano rispettivamente Canti di
Castelvecchio ed Alcyone, con i toni dimessi e le ambientazioni marginali di
Govoni, che nello stesso anno dà alla luce Armonia in grigio et in silenzio. Si
colloca proprio in questo diaframma la prima fase della poetica di Mannoni, che,
se da una parte è ancora strettamente legata al sonetto classico, spesso in
endecasillabi, dall’altra si tinge di riverberi crepuscolari che superano la
fase dannunziana:
> “Il mio cuore è un’antica pergamena
> dimenticata, logora, ingiallita,
> rosa da assiduo tarlo e raggrinzita
> come la pelle d’una vecchia jena”.
O ancora:
> “È un triste luogo; s’ergono nell’aria
> pochi ruderi arsicci, screpolati,
> come fari ciclopici atterrati
> in cui si annida sol la procellaria”.
Non può che essere altrimenti considerando luoghi e persone frequentate dal
giovane Mannoni, che, nel “Caffè Sartoris” di Roma, ha i primi scambi culturali
con – tra gli altri – Sergio Corazzini, Fausto Maria Martini, Tito Marrone e
Govoni stesso. Le influenze di questo periodo confluiscono ne Il Monte: versi,
libretto di quattordici pagine stampato a Roma nel 1904, e nella più strutturata
raccolta Rime dell’Urbe e del Suburbio, stampate sempre a Roma dalle Officine
Tipografiche Italiane nel 1907, in cui si fanno già strada gli elementi di
velocità, dinamismo e progresso che caratterizzeranno il suo periodo futurista:
> “e la furia dei cocchi signorili,
> che invan frusta la Noia ed il Tempo stringe,
> gareggia con i carri, cui sospinge
> fòlgore imprigionata in fèrrei fili”.
In seguito, fonda a Roma la rivista “Primo vere” nel 1908, che avendo però
scarso successo, si interrompe al primo numero. L’anno seguente
pubblica Procellarie per la Casa Editrice della gioventù di C. Fossataro e
aderisce ufficialmente al Futurismo. Si riportano, a proposito, le sue stesse
parole:
> “Io che da qualche tempo ero in rapporti epistolari con Marinetti (per avergli
> fatto omaggio di un mio quaderno di liriche stampato a Napoli dall’editore
> Fossataro) e ricevevo in dono Poesia, ebbi naturalmente anche il Manifesto
> incendiario; così appresi che Corrado Govoni, da Ferrara e Aldo Palazzeschi da
> Firenze – due nomi a me ben noti – si erano aggregati all’originario nucleo
> milanese, sebbene entrambi godessero fama di poeti crepuscolari. In breve, il
> mio naturale temperamento e l’approfondito esame delle mie intime esigenze
> artistiche e politiche dissiparono i dubbi superstiti: la giovinezza (avevo
> venticinque anni) l’amore del nuovo e la indipendenza da ogni vincolo
> accademico fecero il resto: inviai perciò anch’io la adesione al nuovissimo
> movimento che si riprometteva di svecchiare, rivoluzionandola, tutta l’Arte
> contemporanea; e alla lettera aggiunsi la mia prima lirica futurista,
> intitolata “Apocalisse”, che piacque tanto a Marinetti sicché egli, oltre a
> pubblicarla nella sua Rassegna, alcuni anni dopo la tradusse personalmente in
> francese per l’antologia “Les Cinq Continents” di Ivan Goll (Paris, 1920).”
Sono anni di intensi cambiamenti per la poesia di Remo Mannoni, ribattezzato da
Marinetti “Libero Altomare”, che abbandona il sonetto in favore del verso
libero, acquisendo nuovo slancio. I suoi versi, ora snelli, rapidi, densi di
movimenti roboanti, si contornano di note intimistiche ed immagini surreali,
centrifugandosi in un’estetica certamente originale.
Remo Mannoni alias Libero Altomare nella truppa dei Futuristi
Non tardano ad arrivare i consensi a livello nazionale ed internazionale;
Marinetti, in occasione della prima serata futurista di Trieste scrive: “Ebbi
quella sera la gioia di far applaudire fragorosamente da 3.000 persone la vostra
bellissima poesia Desiderio”; Ricciotto Canudo nel numero di agosto 1909 del
“Mercure de France”, scrive di lui: “Le lyrisme de M. Remo Mannoni, qui doit
être très jeune, est au ontraire tout éclatant, s’élance dans les Procellarie”.
Nel gruppo futurista Altomare reincontra, tra l’altro, una vecchia conoscenza:
Umberto Boccioni, pittore che avrebbe dovuto rivoluzionare le arti plastiche,
con cui aveva condiviso una pensione in Via Muzio Clementi, nel quartiere Prati
di Roma dal 1904 al 1905. L’intesa col resto del gruppo e i bissati applausi
alle declamazioni delle sue liriche sembrano avviare il poeta sulla strada del
successo, non fosse che, all’apice della sua carriera poetica, questioni
lavorative e familiari si frappongono tra Libero Altomare e la sua produzione:
la presa di servizio come applicato in prova alla stazione di Civitavecchia,
alcuni malanni e la successiva assunzione come funzionario statale, allontanano
via via il poeta dal centro del movimento. Nondimeno, la nascita delle parole in
libertà stride con le intenzioni di Mannoni, che confessa:
> “Dalla lettura di tale linguaggio monosillabico e onomatopeico trassi subito
> la convinzione della mia incapacità di adeguarmi ad esso, ma non vi attinsi
> quella percezione pura che, l’autore (seguace dell’intuizionismo bergsoniano)
> se ne riprometteva. Mi sembrava troppo facile, ormai, diventare scrittore
> futurista. Né le mie previsioni errarono”.
Nel 1913 perde il figlio, di soli otto mesi, e cinque anni dopo sua moglie. Nel
mezzo, qualche pubblicazione su “Lacerba”. L’indole poetica è tuttavia
irrimediabilmente compromessa e Mannoni scriverà di quei tristi avvenimenti:
“Mentre così quell’intima tragedia imprimeva stigmate indelebili nella mia
subcoscienza tutti i conati di evasione nei campi del lavoro e dell’attività
artistica, da me escogitati, fallirono”.
Subentrano inoltre divergenze politiche col futurismo alle soglie della Prima
guerra, che ne determinano il definitivo distacco. Nonostante ciò, non avverrà
mai una rottura totale dei rapporti amichevoli con Marinetti, il quale
continuerà a tenere informato Altomare sulle pubblicazioni futuriste, talvolta
inviategli anche con la beffarda dedica “A Remo Mannoni – gridando – Evviva il
futurismo!”
Remo Mannoni (1883-1966)
Il poeta ritorna sulle scene, dopo anni di silenzio, nel 1931 con Fermento,
sotto il nome di Remo Mannoni e solo tra parentesi, in caratteri più modesti,
l’alter ego Libero Altomare, ormai divenuto vecchio ricordo. L’opera racchiude
tutte le fasi dell’autore, con alcune poesie già pubblicate nelle precedenti
raccolte e non passa del tutto inosservata; Vittorio Bodini in “La Voce del
Salento”, del 19 giugno 1932, recensisce Fermento scrivendo:
> “Questo poeta sente profondamente nel suo spirito il travaglio che
> caratterizza nella storia letteraria di tutti i tempi, presente passato
> futuro, la nostra poesia potenziata dalla civiltà meccanica e dal desiderio –
> volontà del Sempre Più Oltre. In una girandola tumultuosa, grandi medie
> piccole cose, robuste tenui, turbinano intorno al perno – spirito di Libero
> Altomare (Remo Mannoni), ne impressionano la sensibilità, lo inebriano del
> loro lirismo”.
Quelli di Fermento sembrano, allo stato attuale delle ricerche di chi scrive,
gli ultimi versi pubblicati a volontà del poeta, il cui carillon
sonnolento risuona ancora con furore tra le tappezzerie sbiadite.
Salvatore Giuseppe Di Spena
*
NOTTURNO GUERRESCO
Inesorabile, fredda, la luna
nel ciel di febbraio:
scimitarra d’acciaio
in agguato fra i nuvoli.
Broli deserti,
nidi imboscati,
fanali disertori…
Ma cuori di fiamma,
ali secure perlustrano
le vie dell’aria,
a disvelare l’insidia nemica.
La quotidiana fatica
della città assopita,
non tace: mormora, prega;
ansima in segreto.
Tragica vigilia d’armi,
sordo pulsare di vene
e di macchine,
tarli di opere insonni.
Per la pugna del domani
la Forza affila le armi,
la Pietà prepara le bende:
s’aprono generosi cuori e forzieri.
Volano i sogni verso le trincere! –
Sulle case, dalle porte crocifisse,
due battenti: fede, speranza …
Già squilla il sole la sua nuova diana,
s’avanza l’orifiamma dell’aurora,
dai lor bivacchi fuggono le stelle.
Bronzee voci di campane
e guerriere voci umane
invocano: Gloria!…
Scintillano guglie come baionette.
E l’orizzonte tricolore promette
un radioso meriggio di vittoria.
***
IL PASSATO
Vecchio carillon sonnolento
che riesuma fra tappezzerie sbiadite
e fetore di crisantemi sfatti
ingenue romanze di epoche lontane.
Bigotto lacrimoso
che biascica un rosario di rimorsi;
cero fumigante in eterno
sovra le bare dei giorni perduti;
cinematografia grottesca e scialba
su la tela fluttuante de la memoria.
Povero specchio infranto ai cui frantumi,
i ricordi, ogni tanto ci rispecchiano
per pescarvi con uno gesto scimmiesco
qualche arabesco di sogno
che ci solcò la fronte
***
ANTELUCANA
Brividi impercettibili
percorrono la divina
Notte, resupina
su la terra e sulle acque,
al primo impallidire
de li astri.
Sussulta più forte il Silenzio
ai passi, alle ruote, alle voci.
E Fora in cui, mute
ne la loro bruta gravità,
giacciono tutte le cose;
ma le macchine pulsanti
su tutte le vie del mondo
s’affrettano convulse
verso le mete consuete
ed il biscazziere, insonne,
azzarda l’ultima posta.
S’è nascosta la luna…
Più forte singhiozzano le fonti.
Torpidi nel lor sonno minerale,
lontani i monti
sembrano respirare
a gara con l’Oceano.
È l’ora in cui l’anime umane,
rese traslucide
come urne d’alabastro
dalla notturna tregua
sorella di morte,
rivelano fortemente
la presenza della Face
inestinguibile.
Pace sia, pace
per l’inesausto pensiero
e per l’insaziata brama,
per chi soffre e per chi ama,
per ogni oppressore
ed ogni oppresso.
Sogni, presagi,
incubi volteggiano.
Ora di gioia prenatale
per la carna sana
che anela all’alba e al meriggio;
ora in cui anche il morente
presente una nuova aurora.
***
SCALATA
Vogliamo dare la scalata al cielo!
Tutta la Terra fu corsa da noi:
corpi vibranti e parole di fulmine.
Avviluppammo i prati e le boscaglie
di ferree maglie: l’aria,
d’esili ragnatele telegrafiche;
mostri di fuoco aizzammo sui mari.
Mascherotti sublimi, palombari,
subacquee sirene, attinsero i gorghi profondi
le vertebre titaniche dei monti
scricchiolarono sotto le nostre ossa,
mutarono di colore le bianche gote polari
sotto il magnetico sguardo dei fari nittalopi.
Trasvoliamo su ruote elastiche,
ci adagiamo su carri trionfali;
ghirigori strani c’insegnano il cammino.
Divoriamo gli spazi,
ma sazi
ancora non siamo di strage.
Vogliamo dare la scalata al cielo
strappare il velo azzurro
che riveste l’androgino Mistero
Tuonare rulli di tamburi elettrici,
saettare fluidici dardi
su gli astri beffardi.
Vengano dunque i novi mostri alati:
ali di tela,
cuori di acciaio:
lo spirito gaio dell’uomo l’inciela!…
Sieno sparvieri ed angeli ribelli,
non rondinelle o nottole.
Parlino lingue babeliche,
aprano gole fameliche,
ali luciferine
stendano fino all’ultimo confine!
E noi daremo la scalata al cielo!
***
CUORE STRANO
Il mio cuore è un’antica pergamena
dimenticata, logora, ingiallita,
rosa da assiduo tarlo e raggrinzita
come la pelle d’una vecchia jena.
Ha miniature d’angeli e di donne
di demoni e di mostri, strani emblemi,
misteriose cabale, poemi
e templi dalle fulgide colonne.
E d’altre vaghe immagini è istoriata,
però lo scritto vi si legge appena.
Marcirà prima d’esser decifrata
questa lacera, vecchia pergamena.
***
L’ALBERGO DELLA NOIA
Com’è triste l’albergo della Noia!
S’inseguono le stanze allineate
in fila come celle claustrali
pei corridoi simmetrici percorsi
dai tappeti che bevono i rumori.
Tappeti grigi, grigi come l’ombre
che vegliano alle soglie delle porte,
freddi come la polvere cinerea
che si raggruma sovra le specchiere
velandone i grandi occhi allucinati.
Mobili taciturni come bare
dimenticate. – Le tignuole dormono
un sonno antico nei massicci armadi
neri. Sogghigna il lucido ferrame
come le inferriate degli ergastoli.
E poi, divani soffici avvolgenti
come il lubrico fango degli stagni;
poltrone che poltriscono, enfiate,
a braccia aperte nell’attesa vana
che vi si sdrai l’Ospite accidioso.
Le tende vellutate e le portiere
flosce, pesanti, sembrano le ali
di penduli chirotteri in letargo.
Celano forse i resti di un delitto
o qualche accoppiamento mostruoso? —
Scale di sopra, scale in basso, scale
che si perdono su, nell’infinito,
tutte a spirali tormentose come
l’anime folli che non hanno tregua.
Solo ogni tanto qualche lucernario
sgrana nell’ombra la pupilla smorta:
una nube d’ovatta insanguinata
rade i vetri stagnanti, e vi si sfiocca.
Da quanto tempo, immemore, mi aggiro
ospite involontario in mezzo ad ospiti
occulti nel castello della Noia?
Cerco invano la stanza che m’accolga,
la crisalide bigia, dove il Sogno
tessere possa qualche filo d’oro…
Innumeri orologi si accompagnano
rigidamente al ritmo del mio cuore,
accoliti devoti del silenzio:
le lancette che lacerano il tempo
segnano tutte la medesima ora!…
— Chi, di sorpresa, mi condusse qua?
Ecco la Morte, pallida, composta,
con un inchino cerimonioso
additarmi la stanza del riposo,
e lasciarmi così, senza risposta…
*In copertina: un’opera di Umberto Boccioni (1882-1916)
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dimenticato proviene da Pangea.
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È acqua sorgiva la poesia di Felice Mastroianni, un ruscello limpido che sgorga
da un lembo del Reventino e rinfresca il secondo Novecento italiano. Nato a
Platania (CZ) nel 1914, si forma tra il ginnasio di Catanzaro e il liceo di
Nicastro, dove conseguirà la maturità classica, formazione che getterà le basi
dell’immaginario archetipico mediterraneo del poeta e che germoglierà poi in
quella “soave grecità” di cui saranno impregnati i suoi versi.
Negli anni Trenta si laurea in lettere classiche a Napoli e comincia a
pubblicare i primi saggi, tra cui L’Infinito leopardiano (Tip. Gigliotti,
Nicastro 1935) e Coscienza cristiana di Ulisse dantesco (E. Patitucci,
Castrovillari 1939); al contempo si dedica all’insegnamento, attività che
svolgerà per tutta la vita.
Arriva nel vespro degli anni il vero esordio poetico sulla scena nazionale,
durante il periodo napoletano. Scrive egli stesso, a tal proposito, nella
premessa de L’arcata sul sereno (La Procellaria, Reggio Calabria 1963), con lo
stesso pudore e gli stessi toni sommessi dei suoi versi, quasi come a
giustificarsi della pubblicazione:
> “Chi come noi, avendo costantemente nutrito, intimo e vivo, l’amore della
> poesia si decide finalmente […] a romperla col naturale e lungo timore della
> stampa, non è più certamente perdonabile, perché, con la giovinezza, gli è
> venuta anche meno la condizione indispensabile che fa volentieri indulgenti i
> lettori verso i ‘peccati’ di quella irrevocabile età. Ma, in compenso, ha
> dalla sua una certa scusante, di non essere stato, cioè, capace, suo malgrado,
> di tenere più a lungo segreto quell’indomabile amore nativo.”
Rotto il silenzio, la stagione poetica di Mastroianni prosegue per oltre un
ventennio, pubblicando in vita: Favoloso è il vento (prefazione di Mario
Stefanile, Ed. Maia, Siena 1964); Lucciole sul granturco (Rebellato, Padova
1965); Tre poesie(Il Baretti, Napoli 1966); Il vento dopo mezzodì (prefazione di
Mario Luzi, Quaderni di “Persona”, Roma 1968); Il riso delle Naiadi (con
lettera-prefazione di Vittorio Sereni, Rebellato, Padova 1971); Luna santa
luna (Rebellato, Padova 1974); Quaderno di un’estate (Karavàas, Atene
1975); Primavera (Difros, Atene 1977); La favola di Eutichio (Delphica Tetradia,
Atene 1982).
Alla sua morte, sopraggiunta nel 1982 a Lamezia Terme, seguiranno: Quest’ombra
sul terreno (Ed. Ligeia, Lamezia Terme 1983, riedita da Rubbettino, Soveria
Mannelli 2021), che raccoglie gran parte dei componimenti in italiano; Trilogia
neoellenica (Delphica Tetradia, Atene 1983 anch’essa riedita sempre da
Rubbettino, Soveria Mannelli 2014), che raccoglie le sue liriche in greco; ‘U
cantu ‘ngola (Il canto in gola) (Rubbettino, Soveria Mannelli 2001); Il pane
degli anni. Memoria d’una sorgiva (Rubbettino, Soveria Mannelli 2003).
Gli opuscoli delle poesie giovanili, risalenti agli anni
Quaranta: Frammenti (Patitucci, Castrovillari 1941), Notturno(Patitucci,
Castrovillari 1942), Alba lontana (Patitucci, Castrovillari 1942), nonché tutti
i saggi pubblicati, sono stati recentemente raccolti dall’editore Rubbettino,
che ha reso così disponibile la fruizione dell’intera opera del poeta (F.
Mastroianni, Poesie giovanili, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021; F.
Mastroianni, Saggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021).
*
Pretenziosa sarebbe in questa sede un’analisi completa della poetica di Felice
Mastroianni, data la vastità della sua produzione, che si dipana attraverso due
decenni fluendo in più lingue; d’obbligo, invece, risulta tracciarne le
coordinate principali, i segni essenziali e la contestualizzazione nel panorama
letterario coevo, se non altro in onore di quel: “perché il vento/ non si porti
via tutto/ di me”, che in maniera drammaticamente umana apre la
raccolta Favoloso è il vento.
I versi di Mastroianni, essenziali, puri, lontani da ardui giochi
intellettualistici e privi di retorica o cerebralismi, rappresentano la
necessità di un ritorno alla condizione ancestrale dello spirito dell’uomo, in
un tempo e in un luogo in cui l’esatta direzione della società faticava a
comprendersi.
Il Meridione del boom economico, nei primi decenni della Prima Repubblica, la
Calabria del secondo dopoguerra, assumono l’aspetto di una chimera dal corpo
tecnologicamente sviluppato, ma dalla testa goffamente industrializzata; le
tradizioni e i ritmi del mondo contadino, acremente condannato perché
considerato nemico del progresso, non trovano più spazio nel modello moderno di
società, ed alle classi sociali più povere non resta che vivere nell’ombra del
mito dello sviluppo, estraniati dalle proprie radici. La polverizzazione dei
sentimenti, sostituiti dalla corsa al consumismo, trova medicina nella nitidezza
di una poesia genuina, spontanea, che accompagna come un’ombra il poeta.
Riguardo ai suoi versi, che riempiono senza artifici la pagina bianca, Felice
Mastroianni in un intervento del 1982 scrive:
> “Non ho mai avuto l’uzzolo né la capacità di sperimentalismi, convinto che la
> poesia, quando c’è veramente, non ha bisogno che della propria verità. Ad un
> certo punto ho sentito, questo sì, l’esigenza d’altro strumento linguistico,
> scrivendo e pubblicando ad Atene tre raccolte in lingua neo-greca, come
> ricerca e realizzazione d’un congeniale mezzo di espressione spontanea. […] Al
> punto in cui sono giunto, senza convenzionale dichiarazione delle mie ragioni
> poetiche, posso soltanto affermare con umiltà e senso di responsabilità che,
> almeno in parte, son riuscito nell’intento vero e proprio della poesia: quello
> cioè d’una esperienza non oziosa ma motivata da seria e sofferta
> partecipazione all’inesauribile ritmo del cuore delle cose e dell’anima
> umana.”
I paesaggi di una Platania vergine, le montagne, i fiumi, l’erba, le stelle, la
luna, la fede e gli affetti sono incarnazione – per questo attuali e
necessariamente in vita, non rimandi nostalgici – dell’antica favola del mondo
magnogreco e permangono, sebbene con diverse sfumature, per tutta la sua
produzione poetica. Assonanze, per contenuti e versi sciolti, vi sono tra le
liriche degli anni Sessanta di Mastroianni e il primo Franco Costabile di Via
degli ulivi, contiguo di terra e di anima, al quale, con fraterno cordoglio,
dedicherà in occasione della sua morte Ultima notizia della poesia,
originariamente contenuta in Luna santa luna:
“T’avevo mandato dei versi,
non ne seppi nulla.
Eri entrato nel silenzio
che precede i cataclismi dell’anima.
Avessi potuto tenderti la mano,
parlarti tra un ricordo e l’altro
delle albe dei nostri paesi.
Non era non era di maleficio
l’acqua dei nostri monti,
così pura,
che t’aveva stillato in cuore
la cara menzogna di cui vivesti,
come d’un unico amore.
Altra fontana
fu quella della mala sorte.
Ti penso su una strada irraggiungibile.
Eri solo,
con la tua verità.
E fosti un cuore d’oro,
di fanciullo che s’adonta
d’essere stato dimenticato
in un àndito buio”.
Il canto di Mastroianni non assume i toni gravi e severi del secondo Costabile,
né – sempre per contiguità di terra e di anima –, l’enfasi civile di Rocco
Scotellaro. La sua poesia resta un rosario recitato in silenzio, al crepuscolo,
una voce fioca ma lucida, fissa, mai intermittente. La sua voce, certamente
mediterranea, appartiene però ad un coro più grande, nato lontano dalla
metropoli, che cerca l’essenza della vita nei luoghi immaginifici dell’infanzia,
dove tutto si compie e null’altro diventa necessario. C’è un filo che lega
l’Italia da Nord a Sud, che passa dal “C’è un giardino chiaro, fra mura basse,/
di erba secca e di luce, che cuoce adagio/ la sua terra. È una luce che sa di
mare./ Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli/ e ne scuoti il ricordo” di
Pavese, al “Perché siamo al di qua delle Alpi/ su questa piccola balza/
perché siamo cresciuti tra l’erba di novembre/ ci scalda il sole sulla porta/
mamma e figlio sulla porta/ noi con gli occhi che il gelo ha consacrati/ a
vedere tanta luce ed erba” di Zanzotto, al “È sull’orto/ che avvalla coi
castagni/ a ghiaie d’anguille/ la terrazza dei miei mattini/ di mele odorose,/
delle mie sere/ d’organetti e di lumi/ da aie lontane,/ e delle notti/ magiche,
immense notti/ di luce/ e di remote fontane” di Mastroianni.
*
La piena maturità della poesia di Felice Mastroianni si contraddistingue per
l’utilizzo del neogreco, che non si marginalizza a mero esercizio di stile, ma
diventa scelta etica nei confronti di una lingua che porta nell’anima.
L’integrazione nel panorama intellettuale greco è totale; diversi critici e
poeti ellenici spendono parole generose per Mastroianni. Febo Delfi, nella
prefazione di Quaderno di un’estate, scrive:
> “Con questa raccolta Felice Mastroianni si colloca nell’eletta schiera dei
> poeti neogreci, ed è uno dei nostri per sangue e spirito. Si naturalizza poeta
> ellenico. Accogliamolo e diamogli il benvenuto come un vero fratello.”.
Epilogo chiude il trittico in lingua ellenica, ultima pubblicazione in vita di
Mastroianni, che vista dagli occhi dei posteri assume i connotati di un presagio
di morte. È congedo e al tempo stesso risposta, forse nemmeno voluta, alla
coppia di versi in apertura della sua prima raccolta: “Può salvarci dai giorni
che saranno/ la pietà del passato?”
Ma se un ritorno alle sorgenti del mattino non ci è consentito, nel segreto
dell’alba, il poeta ci augura di spaccare la mandorla della vita, per sentire
ancora il profumo della sua anima pura.
Salvatore Giuseppe Di Spena
***
IL FILO DELLA RONCOLA
Tempo malcerto
tra sopravvivenze e nuove fiorite
questo tempo di vertigine
che ci estranea dal cuore della terra.
Abbiamo scordato il volto delle stagioni.
Sono profili sfuggevoli
gli stessi tuoi arnesi.
Ne seguo i contorni
a ritrovare un ritmo perduto,
mi parla una vita:
la tua vita,
certa come cupa radice,
scavata come la cote
ove s’è arrotata la tua pazienza
sul filo della roncola
e della falce fienaia.
Tempo di timore.
Il timore che mi trattiene presso il muro
di cinta della casa paterna,
ove ho rinnovato negli anni
la parabola del figliuol prodigo,
a palparne le pietre malferme,
le crepe, marginate ferite
coperte d’erbe,
a spiarne di nuove,
a piegarmi in un vano struggimento
di fare puntello della mia vita.
* * *
FIORIRANNO DI RONDINI ALTRI CIELI
Che senso avrebbe accorgersi di nidi
d’improvviso deserti, ancora tiepidi di piume,
se non per porre mente che qualcosa è accaduto
anche per noi, più che un riflusso
d’ali di là dagli orizzonti
nel segreto d’un’alba.
Fioriranno di rondini altri cieli
nell’alterna ventura del mondo.
E noi qui come tonti
a bere le piogge d’autunno
con queste sere povere di gridi.
Nella scorza dell’inverno
scorderemo la menzogna del sole.
* * *
ETERNO L’ANDARE?
Nel cammino senza tempo
quest’ombra sul terreno
non è che un istante.
E poi avverrà con la morte
ch’io mi risvegli mio Dio
oltre il cerchio dell’ombra al sereno
d’un eterno mattino
di Te sfavillante.
S’arresterà il cammino
o senza fine è l’andare
dell’anima, Signore,
al Tuo sublime splendore?
* * *
L’ANTICO GIOCO
Ritenta il gioco antico
delle tue sere di bimbo.
Copriti di terra gli occhi
e i ginocchi e le mani
e fa’ che il sapore dell’erbe
t’entri nel sangue,
sapore d’oblio.
Fa’ che il sole al tramonto
non ti distingua dalle cose,
e dall’erbe
succhia la tua nuova vita.
Tramonta anche tu nel sole,
naufrago nel sapore della terra.
* * *
VENTO D’ISOLE D’ORO
Ancora seppellita la mia sorte
in sabbia d’anni e di naufragi.
E invano
ritorni a queste rive
vento d’isole d’oro.
Ho scordato gli azzurri sentieri.
Ora, in albe d’insonnia
vi ripenso e sussulta,
isole d’oro, il cuore alla risacca.
* * *
EPILOGO
Qui finisce
– come un gioco, come un’illusione –
il mio canto ellenico,
il canto di «Eutichio»
(«Eutichio» mi chiamano
i fratelli poeti greci).
E verrà il vento
a cancellare la mia voce
e la favola di «Eutichio».
Felice Mastroianni
*In copertina: opera di Vincenzo Gemito (1852-1929)
L'articolo “I cataclismi dell’anima”. Felice Mastroianni, poeta proviene da
Pangea.