Nel 1929, introducendo “Trentatré artisti futuristi”, Filippo Tommaso Marinetti
esulta: “Il futurismo ha vinto su tutta la linea, nelle arti plastiche, nella
poesia, nella musica, nella architettura, nella moda femminile che esprimono con
uguale intensità il ritmo glorioso dei motori volanti della Coppa Schneider”.
Per la cronaca, la Coppa Schneider, gara di idrovolanti ideata da Jacques
Schneider – riccoide, francese, pilota di mongolfiere, amava tutto ciò che con
audacia spiccava il volo per conquistare i cieli –, quell’anno si era svolta in
Inghilterra: avevano vinto – come quasi sempre – gli inglesi; l’Italia si piazzò
seconda, merito dell’asso vicentino Tommaso Dal Molin – che sarebbe morto l’anno
dopo, sul Garda, in volo – a cavallo di un Macchi M.52.
Ad ogni modo, Marinetti aveva ragione. Il Futurismo si dimostrava la più antica,
longeva e attraente delle avanguardie, la più pervicace, in grado di sovvertire
ogni ambito dell’umano essere. Il futurismo nasce come movimento artistico per
diventare sistema ‘civico’, ‘ragione di vita’. Naturalmente, Marinetti sosteneva
che “In politica il Futurismo” era “precursore del fascismo”. L’anno dopo,
Fillia – tra i più talentuosi pittori e poeti futuristi, o meglio pittori-poeti,
nel senso della combustione alchemica delle arti – esplicitò l’assunto
marinettiano in un testo che raccontava i Rapporti tra Futurismo e Fascismo.
Questo l’attacco: “I futuristi, fin dall’avvento del fascismo al potere, hanno
rivelato la necessità di caratterizzare il cambiamento di regime con una
rivoluzione artistica – legare cioè il grande avvenimento sociale con una realtà
spirituale estetica”. I futuristi, scrive Fillia, sono “i soli a tendere verso
la realizzazione di un’autentica e originale ‘Arte Fascista’”, dacché “il
fascismo” si è imposto sulle “forze in decadenza” dopo essersi “nutrito di
principi futuristi”. In sostanza: l’estetica è la matrice della politica. (Per
uno sguardo complessivo sui manifesti futuristi, si guardi qui). Nel testo,
Fillia cita le parole del “Ministro Russo” Anatolij Lunačarskij: “La scenografia
russa è stata influenzata dal futurismo italiano”. Quell’anno, si era sparato al
cuore Vladimir Majakovskij, il grande poeta sovietico, il cantore della
Rivoluzione, nato futurista.
L’anno dopo – nel marzo del 1931 – lo stesso Fillia firma un affascinante
manifesto sulla Spiritualità futurista in cui afferma che “L’Egitto e l’Alto
Medioevo sono per noi gli esempi vivi della Storia: troviamo maggiore sanità nel
respiro di Menfi e di Bisanzio che nel respiro di Atene e di Firenze”. Il
Futurismo mira al futuro – quanto si disse allora ricalcatelo oggi: “La Macchina
genera una nuova spiritualità. È assurdo crederla priva di misteri perché ideata
dall’uomo” – rivoluzionando i canoni della “tradizione”. Nello stesso anno,
Fortunato Depero scrive un testo su Futurismo e arte pubblicitaria.
Insomma, nei Trenta il Futurismo, pur in cravatta, era più pimpante che mai.
Insieme ai “Dieci” – tra cui spiccava il genialissimo Massimo Bontempelli –
Marinetti aveva pubblicato il “Grande romanzo d’avventure” Lo zar non è morto;
nel formidabile Manifesto della cucina futurista intimava “L’abolizione della
pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana”. In questo contesto, a
Gorizia, Gian Giacomo Menon aderisce al Futurismo. È poco più che un ragazzo,
studia giurisprudenza a Bologna – alla laurea, ottenuta nel ’33, ne fa seguire
un’altra, in filosofia, conseguita per “ripugnanza per il mondo giuridico” –, fa
parte della sezione giuliana futurista, fondata da Sofronio Pocarini, fratello
di Ervino Pocar, il grande traduttore di Hermann Hesse, Thomas Mann, Franz
Kafka, tra i tanti. In particolare, Menon stringe un sodalizio con l’aeropittore
Tullio Crali: hanno la stessa età – sono nati nel 1910 –, moriranno, entrambi,
allo scoccare del nuovo millennio, nel 2000. Insieme, creano Delitto azzurro,
pièce di stirpe futurista, andata in scena al Teatro Petrarca di Gorizia: testo
di Menon, scenografia di Crali, di cui però “non sono state rintracciate prove
documentali” (così Cesare Sartori, infaticabile curatore dell’opera disparata e
dispersa di Menon). Crali ricorda così Menon in blusa marinettiana:
> “scrittore, poeta… piccolo… indemoniato… si firmava ‘Dinamite’… Per lui il
> futurismo era forse una liberazione, una reazione agli studi liceali”.
La nota non è inesatta. Nel maggio del 1930, per le Edizioni di ‘Pagine blu’,
Menon esordisce alla poesia con il nottivago: ad avvolgere la copertina – di
marziale eleganza –, la fascetta griffata da Marinetti,
> “Vengo da un giro: Alessandria d’Egitto Cairo Parigi Siracusa e trovo
> finalmente il tempo di leggere con attenzione i versi di Gian Giacomo
> Menon. Ingegno indiscutibile. Sensibilità futurista. Immagini audaci”.
In realtà, il patriarca futurista non aveva voluto firmare la prefazione al
libro del giovanotto. “Non faccio prefazioni tiepide né le solite due parole
dell’uomo illustre che non servono a nulla. Spero che Gian Giacomo Menon
giungerà presto a un’opera potente sintetica e tipica che io prefazionerò allora
con entusiasmo”. Nelle sue memorie, Crali sottolinea che Menon “quando Marinetti
non gli fece la presentazione alle sue poesie… si spense come poeta”. Al
contrario: esplose. Fu, per così dire, esaudito e nel modo più pieno: ebbe in
dono la possibilità di scoprire la propria voce, scorporandola dall’epoca.
Ma torniamo al nottivago. Il libro, dedicato “A Mary/ che ha i capelli troppo
bruni/ e l’anima troppo bionda…”, nato sotto l’astro di Eraclito (così uno dei
frammenti: “Ai nottivaghi ai maghi posseduti da Dioniso alle menadi agli
iniziati”), con estro da filastrocca crepuscolare (a tratti pare un Corazzini
corazzato, a tratti va a Bontempelli poeta), esce in poche copie, a spese
dell’autore. Il libro diventerà “leggenda” perché Menon “quasi a voler
sconfessare quella prima ingenua e giovanile prova, rastrellò, facendole
sparire, tutte le copie in circolazione”, pur regalandone, negli anni, qualcuna,
sopravvissuta al massacro, “a pochi eletti o elette” (così Sartori). Ora il
nottivago ritorna tra noi in eccezionale riproduzione anastatica per
Bibliohaus, con un testo di Sartori che ricostruisce la biografia di Menon e uno
studio di Rienzo Pellegrini su Menon futurista. È un tassello importante per la
comprensione di uno dei più ineffabili e remoti poeti del Novecento italiano,
che si aggiunge alle raccolte più importanti (cito, tra tutte, Geologia di
silenzi, edita da Anterem nel 2018 e Qui per me ora blu stampata da KappaVu nel
2013).
Il Futurismo costituisce il ‘campo di addestramento’ di Menon, è il modo in cui
impara a sgranchirsi le ossa liriche e ad allargare l’orizzonte poetico. Il
Futurismo, in fondo, infonde in Menon l’originaria energia della giovinezza.
“Convinto antimilitarista e antifascista” (Sartori), Menon si dà
all’insegnamento – storia & filosofia, allo ‘Stellini’ di Udine –, si sposa –
con l’ex allieva Silvia Sanvilli –, vive da viveur, collezionando amori
passeggeri, coltivando una ruvida diffidenza verso il regno dell’ufficialità
culturale italiana. Scrisse tantissimo, lasciando ai posteri l’implacabile mole
dei suoi testi – oltre centomila poesie, oltre un milione di versi. Nel 1966 “La
Fiera Letteraria” gli pubblicò un mannello di poesie; la nota autobiografica
tradisce una scelta di metodo, una ‘via’, più che un risentimento:
> “Nato in Austria, non lontano dal fiume che segnava il confine del
> Sessantasei, presto redento dai portatori delle carte rosse (mia nonna fece in
> tempo a confermare la vecchia delle uova), profugo in Stiria nella grande
> guerra, ho studiato a Gorizia e a Bologna. Da molti anni vivo e insegno a
> Udine. Dopo un breve esperimento giovanile, non ho pubblicato nulla di quanto
> sono venuto, foglio dopo foglio, scrivendo per una decisione di assenza
> consumata in un’amara invenzione che l’improvvisa novità dei tempi pare voglia
> sostituire”.
Era dionisiaco, leggeva Michelstaedter; nel 1998 Carlo Sgorlon cura, per
Campanotto, una sua raccolta, I binari del giallo: in questo caso, la nota
dell’autore porta lo stigma di un’aura di avverate cose: “Nella sua infanzia ha
respirato aria contadina e cristiana”. Spesso le poesie di Menon hanno una
avvenenza aurorale:
> averti come i lunghi odori della terra
> nell’alba degli aratri
> quando l’allodola scrive la sua prima parola
> come il fresco sapore del pane
> quando la falce riposa all’ombra dei gelsi
> averti intatta nell’infanzia
> quando il campanile divide
> il giorno della locusta dal giorno del grillo
> a tessere i soli e le stelle
Nell’agosto del 1968, tornando, in una lettera a un’amica, al primo, avventato,
avventuroso libro (“piccolo libro” lo chiama), Menon riferisce un’esistenza
votata alla poesia, di serrate letture. La precocità da ‘eletto’ (“ti dicevo del
mio principio a undici anni”), la scelta del silenzio, un noviziato sostenuto da
esempi titanici (“pensavo, senza confronti irriverenti, ai diciassette anni
dell’assenza poetica di Valéry”) e poi le letture: Baudelaire (“trovato presto e
globale”), Rimbaud (“bevuto… sino all’ultima goccia”), Mallarmé, Sergej Esenin,
“definitivo”. “E tu alla fine, sigillo e scudo. Ogni riga, ogni insistere di
sillaba una situazione di te. Sempre e soltanto”. Anche le lettere di Menon (per
lo più disperse, nascoste, passate per diversi roghi; qui citiamo dalle
rarissime raccolte in: Gian Giacomo Menon, Poesie inedite 1968-1969, Aragno,
2013), per ritmo e per ispirazione, dicono di una vita kafkiana, cioè ancorata,
fin nei più puri approdi dell’oscuro, alla scrittura. Non ho detto letteratura –
che è già una funzione dell’evo presente, è già un soggiacere all’intenzione,
alla pulsione di massa, è già cosa da antologia scolastica, non più sangue ma
esangue – ma scrittura. Scrittura-scrittura. Scrittura.
In fondo, nonostante il ripudio – pratica comune al poeta, che nel rifiuto di sé
trova sempre la pratica dell’altrove –, Menon è rimasto un nottivago. Vaga nella
notte della poesia – rigorosamente senza lanterna, perché la luce, a volte,
impedisce alle cose di rivelarsi.
***
Da “il nottivago”
Buio
Sluccioli con veemenza,
piccola macchina
di duralluminio,
il palpito dei tuoi occhi,
che non comprendono
il meandro
della mia anima.
Come io non lo comprendo.
Triste destino:
non essere ciechi
e non vedere.
*
Sull’arcobaleno
Mi arrampicai
su per il rosso
di un arcobaleno
con l’agilità
di un gatto.
Da lassù,
con le gambe
penzolanti
nel vuoto
contemplai
il mondo.
Come è bello
il mondo
visto
dall’alto
di un arcobaleno!
*
In lontananza
Lontano lontano
sull’orizzonte
un vulcano,
innamorato
come il mio cuore,
fuma
tenacemente
solitariamente.
Le volute opaline
del fumo
si dipanano
sul lividore del cielo:
bambagia.
*
Nebbia
Hanno abbassato
un velario grigiastro
su di un frammento
della scena del mondo.
*
Il sole
Un bottone
di ottone
lucente.
Gian Giacomo Menon
*In copertina: Fortunato Depero, Grammofono, 1923
L'articolo “Scrittore, poeta, indemoniato”. Menon il Futurista, ovvero: intorno
a un libro leggendario proviene da Pangea.
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Nel fermento delle avanguardie primonovecentesche trova voce la stagione più
ispirata di Libero Altomare, al secolo Remo Mannoni, la cui poetica, deficitaria
ancora oggi di un’analisi sistematica, è testimonianza preziosa della policromia
di mutamenti che ha dato il via alla nascita della poesia italiana moderna. In
mancanza di un’opera esaustiva dedicata al poeta, si tenta di tracciarne in
questa sede un essenziale profilo poetico e biobibliografico, attraverso notizie
ritrovate su giornali coevi, informazioni ricavate da monografie di terzi ed il
recupero della sua stessa prosa Incontri con Marinetti e il Futurismo (Corso
Editore, Roma, 1954).
Nato a Roma nel 1883, Remo Mannoni è sin da giovanissimo parte attiva della vita
culturale del Paese, collaborando dagli inizi del Novecento con diverse riviste;
del 1903 sono, infatti, i componimenti: La palude e Cuore strano, pubblicate nel
“Marforio”; X, in “Rivista d’amore”; La città delle acque, ne “Il Paggio
d’amore”. È un anno cruciale per la poesia italiana, in cui si intersecano il
simbolismo di Pascoli e d’Annunzio, che pubblicano rispettivamente Canti di
Castelvecchio ed Alcyone, con i toni dimessi e le ambientazioni marginali di
Govoni, che nello stesso anno dà alla luce Armonia in grigio et in silenzio. Si
colloca proprio in questo diaframma la prima fase della poetica di Mannoni, che,
se da una parte è ancora strettamente legata al sonetto classico, spesso in
endecasillabi, dall’altra si tinge di riverberi crepuscolari che superano la
fase dannunziana:
> “Il mio cuore è un’antica pergamena
> dimenticata, logora, ingiallita,
> rosa da assiduo tarlo e raggrinzita
> come la pelle d’una vecchia jena”.
O ancora:
> “È un triste luogo; s’ergono nell’aria
> pochi ruderi arsicci, screpolati,
> come fari ciclopici atterrati
> in cui si annida sol la procellaria”.
Non può che essere altrimenti considerando luoghi e persone frequentate dal
giovane Mannoni, che, nel “Caffè Sartoris” di Roma, ha i primi scambi culturali
con – tra gli altri – Sergio Corazzini, Fausto Maria Martini, Tito Marrone e
Govoni stesso. Le influenze di questo periodo confluiscono ne Il Monte: versi,
libretto di quattordici pagine stampato a Roma nel 1904, e nella più strutturata
raccolta Rime dell’Urbe e del Suburbio, stampate sempre a Roma dalle Officine
Tipografiche Italiane nel 1907, in cui si fanno già strada gli elementi di
velocità, dinamismo e progresso che caratterizzeranno il suo periodo futurista:
> “e la furia dei cocchi signorili,
> che invan frusta la Noia ed il Tempo stringe,
> gareggia con i carri, cui sospinge
> fòlgore imprigionata in fèrrei fili”.
In seguito, fonda a Roma la rivista “Primo vere” nel 1908, che avendo però
scarso successo, si interrompe al primo numero. L’anno seguente
pubblica Procellarie per la Casa Editrice della gioventù di C. Fossataro e
aderisce ufficialmente al Futurismo. Si riportano, a proposito, le sue stesse
parole:
> “Io che da qualche tempo ero in rapporti epistolari con Marinetti (per avergli
> fatto omaggio di un mio quaderno di liriche stampato a Napoli dall’editore
> Fossataro) e ricevevo in dono Poesia, ebbi naturalmente anche il Manifesto
> incendiario; così appresi che Corrado Govoni, da Ferrara e Aldo Palazzeschi da
> Firenze – due nomi a me ben noti – si erano aggregati all’originario nucleo
> milanese, sebbene entrambi godessero fama di poeti crepuscolari. In breve, il
> mio naturale temperamento e l’approfondito esame delle mie intime esigenze
> artistiche e politiche dissiparono i dubbi superstiti: la giovinezza (avevo
> venticinque anni) l’amore del nuovo e la indipendenza da ogni vincolo
> accademico fecero il resto: inviai perciò anch’io la adesione al nuovissimo
> movimento che si riprometteva di svecchiare, rivoluzionandola, tutta l’Arte
> contemporanea; e alla lettera aggiunsi la mia prima lirica futurista,
> intitolata “Apocalisse”, che piacque tanto a Marinetti sicché egli, oltre a
> pubblicarla nella sua Rassegna, alcuni anni dopo la tradusse personalmente in
> francese per l’antologia “Les Cinq Continents” di Ivan Goll (Paris, 1920).”
Sono anni di intensi cambiamenti per la poesia di Remo Mannoni, ribattezzato da
Marinetti “Libero Altomare”, che abbandona il sonetto in favore del verso
libero, acquisendo nuovo slancio. I suoi versi, ora snelli, rapidi, densi di
movimenti roboanti, si contornano di note intimistiche ed immagini surreali,
centrifugandosi in un’estetica certamente originale.
Remo Mannoni alias Libero Altomare nella truppa dei Futuristi
Non tardano ad arrivare i consensi a livello nazionale ed internazionale;
Marinetti, in occasione della prima serata futurista di Trieste scrive: “Ebbi
quella sera la gioia di far applaudire fragorosamente da 3.000 persone la vostra
bellissima poesia Desiderio”; Ricciotto Canudo nel numero di agosto 1909 del
“Mercure de France”, scrive di lui: “Le lyrisme de M. Remo Mannoni, qui doit
être très jeune, est au ontraire tout éclatant, s’élance dans les Procellarie”.
Nel gruppo futurista Altomare reincontra, tra l’altro, una vecchia conoscenza:
Umberto Boccioni, pittore che avrebbe dovuto rivoluzionare le arti plastiche,
con cui aveva condiviso una pensione in Via Muzio Clementi, nel quartiere Prati
di Roma dal 1904 al 1905. L’intesa col resto del gruppo e i bissati applausi
alle declamazioni delle sue liriche sembrano avviare il poeta sulla strada del
successo, non fosse che, all’apice della sua carriera poetica, questioni
lavorative e familiari si frappongono tra Libero Altomare e la sua produzione:
la presa di servizio come applicato in prova alla stazione di Civitavecchia,
alcuni malanni e la successiva assunzione come funzionario statale, allontanano
via via il poeta dal centro del movimento. Nondimeno, la nascita delle parole in
libertà stride con le intenzioni di Mannoni, che confessa:
> “Dalla lettura di tale linguaggio monosillabico e onomatopeico trassi subito
> la convinzione della mia incapacità di adeguarmi ad esso, ma non vi attinsi
> quella percezione pura che, l’autore (seguace dell’intuizionismo bergsoniano)
> se ne riprometteva. Mi sembrava troppo facile, ormai, diventare scrittore
> futurista. Né le mie previsioni errarono”.
Nel 1913 perde il figlio, di soli otto mesi, e cinque anni dopo sua moglie. Nel
mezzo, qualche pubblicazione su “Lacerba”. L’indole poetica è tuttavia
irrimediabilmente compromessa e Mannoni scriverà di quei tristi avvenimenti:
“Mentre così quell’intima tragedia imprimeva stigmate indelebili nella mia
subcoscienza tutti i conati di evasione nei campi del lavoro e dell’attività
artistica, da me escogitati, fallirono”.
Subentrano inoltre divergenze politiche col futurismo alle soglie della Prima
guerra, che ne determinano il definitivo distacco. Nonostante ciò, non avverrà
mai una rottura totale dei rapporti amichevoli con Marinetti, il quale
continuerà a tenere informato Altomare sulle pubblicazioni futuriste, talvolta
inviategli anche con la beffarda dedica “A Remo Mannoni – gridando – Evviva il
futurismo!”
Remo Mannoni (1883-1966)
Il poeta ritorna sulle scene, dopo anni di silenzio, nel 1931 con Fermento,
sotto il nome di Remo Mannoni e solo tra parentesi, in caratteri più modesti,
l’alter ego Libero Altomare, ormai divenuto vecchio ricordo. L’opera racchiude
tutte le fasi dell’autore, con alcune poesie già pubblicate nelle precedenti
raccolte e non passa del tutto inosservata; Vittorio Bodini in “La Voce del
Salento”, del 19 giugno 1932, recensisce Fermento scrivendo:
> “Questo poeta sente profondamente nel suo spirito il travaglio che
> caratterizza nella storia letteraria di tutti i tempi, presente passato
> futuro, la nostra poesia potenziata dalla civiltà meccanica e dal desiderio –
> volontà del Sempre Più Oltre. In una girandola tumultuosa, grandi medie
> piccole cose, robuste tenui, turbinano intorno al perno – spirito di Libero
> Altomare (Remo Mannoni), ne impressionano la sensibilità, lo inebriano del
> loro lirismo”.
Quelli di Fermento sembrano, allo stato attuale delle ricerche di chi scrive,
gli ultimi versi pubblicati a volontà del poeta, il cui carillon
sonnolento risuona ancora con furore tra le tappezzerie sbiadite.
Salvatore Giuseppe Di Spena
*
NOTTURNO GUERRESCO
Inesorabile, fredda, la luna
nel ciel di febbraio:
scimitarra d’acciaio
in agguato fra i nuvoli.
Broli deserti,
nidi imboscati,
fanali disertori…
Ma cuori di fiamma,
ali secure perlustrano
le vie dell’aria,
a disvelare l’insidia nemica.
La quotidiana fatica
della città assopita,
non tace: mormora, prega;
ansima in segreto.
Tragica vigilia d’armi,
sordo pulsare di vene
e di macchine,
tarli di opere insonni.
Per la pugna del domani
la Forza affila le armi,
la Pietà prepara le bende:
s’aprono generosi cuori e forzieri.
Volano i sogni verso le trincere! –
Sulle case, dalle porte crocifisse,
due battenti: fede, speranza …
Già squilla il sole la sua nuova diana,
s’avanza l’orifiamma dell’aurora,
dai lor bivacchi fuggono le stelle.
Bronzee voci di campane
e guerriere voci umane
invocano: Gloria!…
Scintillano guglie come baionette.
E l’orizzonte tricolore promette
un radioso meriggio di vittoria.
***
IL PASSATO
Vecchio carillon sonnolento
che riesuma fra tappezzerie sbiadite
e fetore di crisantemi sfatti
ingenue romanze di epoche lontane.
Bigotto lacrimoso
che biascica un rosario di rimorsi;
cero fumigante in eterno
sovra le bare dei giorni perduti;
cinematografia grottesca e scialba
su la tela fluttuante de la memoria.
Povero specchio infranto ai cui frantumi,
i ricordi, ogni tanto ci rispecchiano
per pescarvi con uno gesto scimmiesco
qualche arabesco di sogno
che ci solcò la fronte
***
ANTELUCANA
Brividi impercettibili
percorrono la divina
Notte, resupina
su la terra e sulle acque,
al primo impallidire
de li astri.
Sussulta più forte il Silenzio
ai passi, alle ruote, alle voci.
E Fora in cui, mute
ne la loro bruta gravità,
giacciono tutte le cose;
ma le macchine pulsanti
su tutte le vie del mondo
s’affrettano convulse
verso le mete consuete
ed il biscazziere, insonne,
azzarda l’ultima posta.
S’è nascosta la luna…
Più forte singhiozzano le fonti.
Torpidi nel lor sonno minerale,
lontani i monti
sembrano respirare
a gara con l’Oceano.
È l’ora in cui l’anime umane,
rese traslucide
come urne d’alabastro
dalla notturna tregua
sorella di morte,
rivelano fortemente
la presenza della Face
inestinguibile.
Pace sia, pace
per l’inesausto pensiero
e per l’insaziata brama,
per chi soffre e per chi ama,
per ogni oppressore
ed ogni oppresso.
Sogni, presagi,
incubi volteggiano.
Ora di gioia prenatale
per la carna sana
che anela all’alba e al meriggio;
ora in cui anche il morente
presente una nuova aurora.
***
SCALATA
Vogliamo dare la scalata al cielo!
Tutta la Terra fu corsa da noi:
corpi vibranti e parole di fulmine.
Avviluppammo i prati e le boscaglie
di ferree maglie: l’aria,
d’esili ragnatele telegrafiche;
mostri di fuoco aizzammo sui mari.
Mascherotti sublimi, palombari,
subacquee sirene, attinsero i gorghi profondi
le vertebre titaniche dei monti
scricchiolarono sotto le nostre ossa,
mutarono di colore le bianche gote polari
sotto il magnetico sguardo dei fari nittalopi.
Trasvoliamo su ruote elastiche,
ci adagiamo su carri trionfali;
ghirigori strani c’insegnano il cammino.
Divoriamo gli spazi,
ma sazi
ancora non siamo di strage.
Vogliamo dare la scalata al cielo
strappare il velo azzurro
che riveste l’androgino Mistero
Tuonare rulli di tamburi elettrici,
saettare fluidici dardi
su gli astri beffardi.
Vengano dunque i novi mostri alati:
ali di tela,
cuori di acciaio:
lo spirito gaio dell’uomo l’inciela!…
Sieno sparvieri ed angeli ribelli,
non rondinelle o nottole.
Parlino lingue babeliche,
aprano gole fameliche,
ali luciferine
stendano fino all’ultimo confine!
E noi daremo la scalata al cielo!
***
CUORE STRANO
Il mio cuore è un’antica pergamena
dimenticata, logora, ingiallita,
rosa da assiduo tarlo e raggrinzita
come la pelle d’una vecchia jena.
Ha miniature d’angeli e di donne
di demoni e di mostri, strani emblemi,
misteriose cabale, poemi
e templi dalle fulgide colonne.
E d’altre vaghe immagini è istoriata,
però lo scritto vi si legge appena.
Marcirà prima d’esser decifrata
questa lacera, vecchia pergamena.
***
L’ALBERGO DELLA NOIA
Com’è triste l’albergo della Noia!
S’inseguono le stanze allineate
in fila come celle claustrali
pei corridoi simmetrici percorsi
dai tappeti che bevono i rumori.
Tappeti grigi, grigi come l’ombre
che vegliano alle soglie delle porte,
freddi come la polvere cinerea
che si raggruma sovra le specchiere
velandone i grandi occhi allucinati.
Mobili taciturni come bare
dimenticate. – Le tignuole dormono
un sonno antico nei massicci armadi
neri. Sogghigna il lucido ferrame
come le inferriate degli ergastoli.
E poi, divani soffici avvolgenti
come il lubrico fango degli stagni;
poltrone che poltriscono, enfiate,
a braccia aperte nell’attesa vana
che vi si sdrai l’Ospite accidioso.
Le tende vellutate e le portiere
flosce, pesanti, sembrano le ali
di penduli chirotteri in letargo.
Celano forse i resti di un delitto
o qualche accoppiamento mostruoso? —
Scale di sopra, scale in basso, scale
che si perdono su, nell’infinito,
tutte a spirali tormentose come
l’anime folli che non hanno tregua.
Solo ogni tanto qualche lucernario
sgrana nell’ombra la pupilla smorta:
una nube d’ovatta insanguinata
rade i vetri stagnanti, e vi si sfiocca.
Da quanto tempo, immemore, mi aggiro
ospite involontario in mezzo ad ospiti
occulti nel castello della Noia?
Cerco invano la stanza che m’accolga,
la crisalide bigia, dove il Sogno
tessere possa qualche filo d’oro…
Innumeri orologi si accompagnano
rigidamente al ritmo del mio cuore,
accoliti devoti del silenzio:
le lancette che lacerano il tempo
segnano tutte la medesima ora!…
— Chi, di sorpresa, mi condusse qua?
Ecco la Morte, pallida, composta,
con un inchino cerimonioso
additarmi la stanza del riposo,
e lasciarmi così, senza risposta…
*In copertina: un’opera di Umberto Boccioni (1882-1916)
L'articolo Il mio cuore è una iena. Vita in versi di Remo Mannoni, il futurista
dimenticato proviene da Pangea.