
Rassegnatevi, Milano un’identità non l’ha mai avuta. Siamo soltanto diventati vecchi…
Pangea - Saturday, October 18, 2025In questi giorni, in questo periodo, su varie testate (anche su Pangea, qui) si parla molto della Milano che è stata e che non è più, di una Milano differente, diversa, più alternativa, più identitaria e meno vetrina di lustri post yuppies, di grattacieli alberati e di olimpiadi di Cortina in città. Tutto vero e tutto molto giusto.
Soprattutto la lente d’ingrandimento è puntata sulla Milano degli anni Novanta (perché chi scrive di questo, compreso il sottoscritto, era adolescente all’epoca) e la lamentela solitamente è legata a certi luoghi che non esistono più, a locali come il Rolling Stones (da anni una palazzina) il Plastic (che però ha chiuso quest’anno dopo anni di perdita d’identità) il Leoncavallo (anche questo chiuso da poco, ma da quanto tempo era fuori dai radar musicali?) Le Scimmie (ma chi ci andava davvero?) e proseguendo con negozi di dischi, sale prove, locali ed altri locali e sempre ancora locali. Io, che come tutti in quegli anni (ma a dire il vero più dal 2000 in poi) ho frequentato quei club, quei posti di ritrovo, quei bar, quelle sale da ballo o da concerti oggi mi sento sicuramente un po’ orfano (ma ho anche quarantacinque anni, come gli altri, e ad un certo punto ha ancora un senso parlare di posti che frequentavo a venti?) ma anche soddisfatto, forse, di averli vissuti e frequentati.
E oggi? Oggi Milano è cambiata totalmente. I locali e le sale da ballo tanto amate dai giovani alternativi si sono trasformati in negozi, bar newyorkesi che fanno ancora il caffè americano usando l’espresso allungato con l’acqua, palazzi vertiginosi che sfidano nuvole e traffico aereo, spazi modaioli e offrono altre realtà, altre possibilità, altri servizi per altri fruitori. Non solo agli studenti stranieri e ai turisti ma anche a nuovi giovani, a ventenni che, nati dopo il duemilaedieci, se ne fottono (giustamente) del Rolling Stones, del Leoncavallo, del Govinda, della Stecca perché sono nati con altro (meglio o peggio non importa, è solo il nostro parere di “vecchi”) e in quell’altro ci sguazzano a colpi di Instagram, di social, di incontri gestiti in maniera differente da come venivamo gestiti i nostri.
Ora mi domando; ma se i quarantenni/quarantacinquenni di oggi sono anche loro in balia di Instagram, dei social, delle uscite notturne fino alle quattro del mattino che cosa pretendono? Pure gli stessi locali di allora? Non si accorgono di essere fuori tempo massimo? E allora, chi negli anni Novanta aveva più di quarant’anni che cosa avrebbe dovuto rimpiangere? I night? Gli american bar? Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro?

Chi ha detto che Milano era fatta solo di aggregazione dovuta a locali notturni e centri sociali? Le gallerie, i palazzi, il rumore del tram, certi parchi (come quello di Trenno) e qualche pizzeria sono ancora lì a testimoniare una città bellissima (solo per i milanesi, sia chiaro) proprio perché anonima e anomala.
Milano cambia perché il tempo cambia, la società cambia. Punto. Non c’è altro. E che sia meglio o peggio è qualche cosa di ingiudicabile. Certo, ci mancano i Sonic Youth in questo o in quel posto ma è solo un nostro pallido e smorzato ricordo. Milano è piena di locali dove si suona musica. Arci Bellezza, Torchiera, Spazio Pontano, Teatro dell’arsenale, Auditorium San Fedele, e molto altro ancora. Una città che dal punto di vista musicale, teatrale, cinematografico è più viva che mai e forse anche più di allora. Certo, il contesto attorno è cambiato e oggi ci sono meno case a ringhiera e più piste ciclabili (ma un tempo non ci si lamentava che a Milano non c’erano le piste ciclabili?) ma l’essenza è la stessa. Le sale prova aggregative come il Jungle Sound (dove provavano Ritmo Tribale e Afterhours) sono scomparse ma è scomparsa anche una scena (ed è giusto così, le scene evolvono e cambiano, le cose per fortuna finiscono e Agnelli è finito a X-Factor) e ne sono riapparse altre.
Nessun allarme per la trap o scemate varie. Negli anni Novanta la maggior parte delle persone ascoltava gli Ace of Base e i Backstreet Boys e, alla fine, togliendo l’enfasi social, non è la stessa cosa che accade oggi? La differenza con allora è l’algoritmo, che ha scardinato tutto facendoci vivere in un infinito tempo presente dove tutto accade senza considerare che; quando tutto accade alla fine non accade proprio niente.
Certo, nel mio nostalgico ricordo da bambino di una Milano sparita c’è lo zoo ai giardini di Porta Venezia, il lunapark le Varesine e il primo Burghy. Oggi però, se ancora ci fosse, io farei chiudere lo zoo, non andrei mai al lunapark e sicuramente digiunerei piuttosto che concedermi un panino in un fast food. Le cose cambiano, non restano le stesse. Così Milano ha perso un’identità che non era di tutti ma solo di alcuni o di pochi. Era la nostra visione della città(perché la maggior parte delle persone non andava al Teatro Smeraldo a sentire Paolo Conte e nemmeno a sentire qualche concerto underground al Rainbow Club, preferiva fare avanti e indietro tra Duomo e San Babila come fa ancora oggi). Una visione elitaria e anche un po’ stronza perché era la “nostra” Milano e non una Milano che aveva identità. Milano, purtroppo, l’identità non ce l’ha mai avuta. Eccetto forse nel dopoguerra (guardate come è fotografata nel film “Cronaca di un amore” di Rossellini).

Certo anche a me non piace questa versione ruspante di New York (la New York di oggi chiaramente mica quella degli anni Ottanta) fatta di centri commerciali, catene di ristoranti ovunque, locali costosissimi e continui week anche piuttosto inutili. Ma non ci posso fare niente, l’unica cosa buona da fare è vivere altrove (l’ho fatto e alla fine torno sempre qui, chissà perché…) oppure cercare le tracce vere della Milano di ieri che ancora oggi è rimasta. E non sono i locali, i centri sociali o la fiera di Sinigallia che bisogna andare a stanare. Ma la città in sé, le vie e i vialoni rimasti come allora. Viale Vincenzo Monti, Via Mac Mahon, le zone di Bande Nere, Primaticcio, Baggio. E poi ancora Piazzale Buonarroti, viale Gran Sasso ecc… Milano sono strade, case, portoni. Le città sono anche questo. Senza considerare quartieri che si sono trasformati (in bene o in male giudicate voi) in zone arabe, peruviane, cinesi e che offrono una Milano comunque differente da quella Milano che splende tanto suoi giornali con i suoi alberi dentro grattacieli, i suoi vetri riflettenti o i suoi dirompenti palazzi inaccessibili.
Le città saranno sempre fatte così e la stessa cosa vale per Parigi, New York, Lisbona, Londra, Berlino. Sempre in continuo cambiamento asfaltando tutto quello che c’era in favore di altro. Bello o brutto ha poca importanza. Quello è importante solo per noi e purtroppo è troppo poco.
Giosuè Gorinzi
*In copertina: Antonio Lafrery, La Grande Città di Milano, 1573; Milano, Civica Raccolta Achille Bertarelli
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