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Rassegnatevi, Milano un’identità non l’ha mai avuta. Siamo soltanto diventati vecchi…
In questi giorni, in questo periodo, su varie testate (anche su Pangea, qui) si parla molto della Milano che è stata e che non è più, di una Milano differente, diversa, più alternativa, più identitaria e meno vetrina di lustri post yuppies, di grattacieli alberati e di olimpiadi di Cortina in città. Tutto vero e tutto molto giusto.  Soprattutto la lente d’ingrandimento è puntata sulla Milano degli anni Novanta (perché chi scrive di questo, compreso il sottoscritto, era adolescente all’epoca) e la lamentela solitamente è legata a certi luoghi che non esistono più, a locali come il Rolling Stones (da anni una palazzina) il Plastic (che però ha chiuso quest’anno dopo anni di perdita d’identità) il Leoncavallo (anche questo chiuso da poco, ma da quanto tempo era fuori dai radar musicali?) Le Scimmie (ma chi ci andava davvero?) e proseguendo con negozi di dischi, sale prove, locali ed altri locali e sempre ancora locali. Io, che come tutti in quegli anni (ma a dire il vero più dal 2000 in poi) ho frequentato quei club, quei posti di ritrovo, quei bar, quelle sale da ballo o da concerti oggi mi sento sicuramente un po’ orfano (ma ho anche quarantacinque anni, come gli altri, e ad un certo punto ha ancora un senso parlare di posti che frequentavo a venti?) ma anche soddisfatto, forse, di averli vissuti e frequentati.  E oggi? Oggi Milano è cambiata totalmente. I locali e le sale da ballo tanto amate dai giovani alternativi si sono trasformati in negozi, bar newyorkesi che fanno ancora il caffè americano usando l’espresso allungato con l’acqua, palazzi vertiginosi che sfidano nuvole e traffico aereo, spazi modaioli e offrono altre realtà, altre possibilità, altri servizi per altri fruitori. Non solo agli studenti stranieri e ai turisti ma anche a nuovi giovani, a ventenni che, nati dopo il duemilaedieci, se ne fottono (giustamente) del Rolling Stones, del Leoncavallo, del Govinda, della Stecca perché sono nati con altro (meglio o peggio non importa, è solo il nostro parere di “vecchi”) e in quell’altro ci sguazzano a colpi di Instagram, di social, di incontri gestiti in maniera differente da come venivamo gestiti i nostri.  Ora mi domando; ma se i quarantenni/quarantacinquenni di oggi sono anche loro in balia di Instagram, dei social, delle uscite notturne fino alle quattro del mattino che cosa pretendono? Pure gli stessi locali di allora? Non si accorgono di essere fuori tempo massimo? E allora, chi negli anni Novanta aveva più di quarant’anni che cosa avrebbe dovuto rimpiangere? I night? Gli american bar? Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro?  Chi ha detto che Milano era fatta solo di aggregazione dovuta a locali notturni e centri sociali? Le gallerie, i palazzi, il rumore del tram, certi parchi (come quello di Trenno) e qualche pizzeria sono ancora lì a testimoniare una città bellissima (solo per i milanesi, sia chiaro) proprio perché anonima e anomala. Milano cambia perché il tempo cambia, la società cambia. Punto. Non c’è altro. E che sia meglio o peggio è qualche cosa di ingiudicabile. Certo, ci mancano i Sonic Youth in questo o in quel posto ma è solo un nostro pallido e smorzato ricordo. Milano è piena di locali dove si suona musica. Arci Bellezza, Torchiera, Spazio Pontano, Teatro dell’arsenale, Auditorium San Fedele, e molto altro ancora. Una città che dal punto di vista musicale, teatrale, cinematografico è più viva che mai e forse anche più di allora. Certo, il contesto attorno è cambiato e oggi ci sono meno case a ringhiera e più piste ciclabili (ma un tempo non ci si lamentava che a Milano non c’erano le piste ciclabili?) ma l’essenza è la stessa. Le sale prova aggregative come il Jungle Sound (dove provavano Ritmo Tribale e Afterhours) sono scomparse ma è scomparsa anche una scena (ed è giusto così, le scene evolvono e cambiano, le cose per fortuna finiscono e Agnelli è finito a X-Factor) e ne sono riapparse altre.  Nessun allarme per la trap o scemate varie. Negli anni Novanta la maggior parte delle persone ascoltava gli Ace of Base e i Backstreet Boys e, alla fine, togliendo l’enfasi social, non è la stessa cosa che accade oggi? La differenza con allora è l’algoritmo, che ha scardinato tutto facendoci vivere in un infinito tempo presente dove tutto accade senza considerare che; quando tutto accade alla fine non accade proprio niente. Certo, nel mio nostalgico ricordo da bambino di una Milano sparita c’è lo zoo ai giardini di Porta Venezia, il lunapark le Varesine e il primo Burghy. Oggi però, se ancora ci fosse, io farei chiudere lo zoo, non andrei mai al lunapark e sicuramente digiunerei piuttosto che concedermi un panino in un fast food. Le cose cambiano, non restano le stesse. Così Milano ha perso un’identità che non era di tutti ma solo di alcuni o di pochi. Era la nostra visione della città(perché la maggior parte delle persone non andava al Teatro Smeraldo a sentire Paolo Conte e nemmeno a sentire qualche concerto underground al Rainbow Club, preferiva fare avanti e indietro tra Duomo e San Babila come fa ancora oggi). Una visione elitaria e anche un po’ stronza perché era la “nostra” Milano e non una Milano che aveva identità. Milano, purtroppo, l’identità non ce l’ha mai avuta. Eccetto forse nel dopoguerra (guardate come è fotografata nel film “Cronaca di un amore” di Rossellini).  Certo anche a me non piace questa versione ruspante di New York (la New York di oggi chiaramente mica quella degli anni Ottanta) fatta di centri commerciali, catene di ristoranti ovunque, locali costosissimi e continui week anche piuttosto inutili. Ma non ci posso fare niente, l’unica cosa buona da fare è vivere altrove (l’ho fatto e alla fine torno sempre qui, chissà perché…) oppure cercare le tracce vere della Milano di ieri che ancora oggi è rimasta. E non sono i locali, i centri sociali o la fiera di Sinigallia che bisogna andare a stanare. Ma la città in sé, le vie e i vialoni rimasti come allora. Viale Vincenzo Monti, Via Mac Mahon, le zone di Bande Nere, Primaticcio, Baggio. E poi ancora Piazzale Buonarroti, viale Gran Sasso ecc… Milano sono strade, case, portoni. Le città sono anche questo. Senza considerare quartieri che si sono trasformati (in bene o in male giudicate voi) in zone arabe, peruviane, cinesi e che offrono una Milano comunque differente da quella Milano che splende tanto suoi giornali con i suoi alberi dentro grattacieli, i suoi vetri riflettenti o i suoi dirompenti palazzi inaccessibili.  Le città saranno sempre fatte così e la stessa cosa vale per Parigi, New York, Lisbona, Londra, Berlino. Sempre in continuo cambiamento asfaltando tutto quello che c’era in favore di altro. Bello o brutto ha poca importanza. Quello è importante solo per noi e purtroppo è troppo poco.  Giosuè Gorinzi *In copertina: Antonio Lafrery, La Grande Città di Milano, 1573; Milano, Civica Raccolta Achille Bertarelli L'articolo Rassegnatevi, Milano un’identità non l’ha mai avuta. Siamo soltanto diventati vecchi… proviene da Pangea.
October 18, 2025 / Pangea
Fine di un’epoca. Milano è il simbolo di un mondo stanco, che non appartiene più a nessuno
La mia amica aveva appena finito di vomitare sopra a una grata di ventilazione della metropolitana in Largo Cairoli. Sputò ancora per un po’, si asciugò la bocca con il dorso della mano, e poi andammo a sederci per terra sul marciapiede davanti alla porta d’ingresso della Standa – oggi Decathlon – insieme ai suoi amici punkabbestia e ai loro cani.  “Come stai?”, le chiesi. “Non ci pensare neanche. Non te la faccio provare. Guarda come cazzo ti riduce”.  Non se la iniettava in vena, se la fumava dentro alla carta stagnola.  La ammiravo. Volevo essere come lei. Sembrava libera agli occhi di una quindicenne con un padre che la sera non la faceva ancora uscire da casa.   * Siamo nella Milano della fine degli anni ’90. Il Luna Park ‘Le Varesine’ aveva chiuso da poco, lasciando il posto a “via Mike Bongiorno” e ai grattacieli. Alla Darsena c’erano ancora il parcheggio e la fiera di Sinigaglia, con le bancarelle di roba dell’usato e i punkabbestia che si ritrovavano al vecchio Mercato Comunale. Si spacciava e si dormiva sotto ai portici di Piazza Vetra. Si pippava la Speed sulle panchine della piazzetta davanti alla Basilica di Sant’Eustorgio. Si andava alla festa della semina e del raccolto al Leonkavallo.  Durante gli anni ’90 i ragazzi si bucavano seduti a terra tra le auto parcheggiate. Ne vedevo tanti mentre tornavo a casa da scuola in Porta Venezia, quando Porta Venezia era ancora un quartiere di figli di portinai come me e di gente bene che convivevano serenamente. Non c’erano ancora locali gay e ristoranti eritrei. In Buenos Aires i negozi erano negozi di vestiti, e non solo di cibo, come oggi, e non cambiavano insegna ogni due mesi.  A Milano c’erano pochissimi turisti. La gente visitava l’Italia, ma mica passava di qui. Per fare cosa?Quando andavi in ferie al mare da qualche parte e dicevi che eri di Milano, ti pigliavano in giro e ti guardavano con pietà: poveri voi e la nebbia, poveri voi e il grigiore, poveri voi e lo smog, poveri voi e il lavoro sfrenato. Poveri voi.  * I bambini che non avevano i genitori abbienti che li iscrivevano a un’infinità di sport, avevano il trenino dei Giardini Indro Montanelli e le macchinine al Parco Sempione. Punto.  C’erano due grattacieli, il Pirelli e la torre Breda, costruita negli anni ’50. Io sono cresciuta lì dentro. Mio padre faceva il portinaio. Ogni giorno, di nascosto, andavo al ventisettesimo piano per guardare la città dall’alto. Si vive meglio con un orizzonte davanti agli occhi da ammirare, lo diceva anche Thoreau nel suo Walden.  Mi mettevo a piangere ascoltando la musica. Fissavo quei minuscoli serpenti luminosi scorrere sull’asfalto e spesso pensavo di farla finita. Poi, come un’astronauta che torna dallo spazio, scendevo sulla terra e diventavo ancora più consapevole della nostra inutilità e piccolezza. E pensavo: forse è così che si sentono i ricchi che vivono ai piani alti. Credono di non far parte di questo mondo, che nulla li tocchi e li riguardi. Stanno sulla Terra giusto per qualche istante, per sbrigare i loro affari, poi se ne tornano nelle loro torri. E allora pensavo che bisognerebbe buttarli giù quei grattacieli, e far vivere tutti allo stesso livello, per non dimenticarci che siamo uguali, invece di essere disposti a tutto per andare a vivere lassù. Perché poi te lo dimentichi che non sei nessuno e che nasci e muori comunque a mani vuote. * Milano è cambiata dopo l’Expo. Non ce ne siamo accorti subito. È stato come vivere con una moglie che si trascurava da tempo. Ci siamo guardati attorno, e improvvisamente ce la siamo trovata invasa da una quantità di persone mai vista prima che camminava piano, troppo piano, e di gente che fotografava cose.  * Milano ci ha cambiato.  Milano ci ha sconfitto.  Milano ci ha temprato.  Milano ci ha stancato.  Milano, non ti riconosco più. * Milano è come una vecchia donna che si è rifatta, che ha perso il suo fascino ma che se la tira ancora. Non perde mai la speranza. Al massimo si rifà il look e si trova il Toyboy.  Milano e la sua mania di risplendere, di nascondere lo squallore, di spostarlo verso le periferie, manco fosse Parigi.  Milano e le passeggiate a Isola che diventano sfilate. Milano, che quando vivi in belle zone ti fa sentire addosso gli sguardi della gente che si chiede subito: “Chi è? Cosa fa? Quanto guadagna per potersi permettere di vivere lì?” Milano, che per trovare un po’ di pace te ne devi andare a passeggiare tra i morti al Cimitero Monumentale.  Milano come una bomba ad orologeria che è pronta a implodere.  La verità è che a Milano non c’era un cazzo di bello, a parte il Castello e il Duomo. Ora ci sono i grattacieli e quei quartieri che qualcuno ha fatto diventare “cool” grazie a Instagram. E poi Armani che muore. Il Leonka che chiude. Il Plastic che chiude.  I negozi che chiudono.  I maranza.  I figli di papà. Le mogli degli uomini ricchi che piazzano bambini come pensione di vecchiaia.  Le case che non si trovano o che costano una follia. La gente costretta ad andarsene.  Una città che espelle chi l’ha nutrita.  L’aria che non si respira. Le troppe auto. Il caldo che sale dal cemento e ci soffoca, ci annienta, ci consuma.  Le persone sempre più infelici, sole, nervose, schizzate, di fretta. Non si rendono conto di scappare da sé stesse. Milano è il simbolo della fine di un’epoca, di un mondo stanco che non ha più voglia di appartenere a nessuno se non a sé stesso.  Siamo tutti pronti ad andarcene.  Quando troveremo i soldi e il coraggio.  Dejanira Bada L'articolo Fine di un’epoca. Milano è il simbolo di un mondo stanco, che non appartiene più a nessuno proviene da Pangea.
September 29, 2025 / Pangea