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“Turbati, come dinanzi a qualcosa di straordinario”. Storia & versi di Thomas Chatterton, il poeta maledetto
Nel 1904, per “La Nuova Rassegna” di Firenze, Ettore Allodoli scrive un ispirato profilo di Thomas Chatterton. Con l’acribia del critico, Allodoli tenta di scindere il mito dall’uomo, la leggenda dall’opera. Impresa, per lo più, vana. Thomas Chatterton, il poeta morto per scelta neppure diciottenne, aveva finito per incarnare l’idolo del genio ribelle alle coercizioni della società, l’artista incompreso, umiliato. Era una specie di Werther, rinnovava i caratteri del puer virgiliano – parola che redime i mondi –, è stato il ragazzino giunto a sconvolgere la scena lirica del proprio tempo, dominata da poeti ipocriti, da piumati, spumeggianti lacchè.  Icona triste, notturna, già totalmente ‘romantica’, dalla giovinezza lunare, Thomas Chatterton rischiò di essere il Rimbaud della poesia inglese – la morte fu per lui una sorta di infernale Harar. Non ci riuscì perché l’epoca – per usare una formula di Antonin Artaud – aveva scelto di suicidarlo. Così, il giovane Allodoli – aveva poco più di vent’anni: amico di Giovanni Papini, sarà Accademico d’Italia, critico infaticabile e biografo, tra i tanti, di Michelangelo, Savonarola e Giovanni dalle Bande Nere – riporta il ragazzo al suo vero, pionieristico ruolo: il precursore di Keats, Shelley e Byron, nei toni poetici e nella postura del vivere (dissennata: per eccesso di vitalismo come d’intimismo). Ce lo descrive “ambizioso e orgoglioso” fino alla mania – “l’orgoglio gli ottenebrò la mente e lo fece sviare nei suoi ragionamenti e nelle sue riflessioni” –, grave di “generosa baldanza” e “indipendenza di idee”. Anche il critico, tuttavia, non può non impuntarsi nel mito, dalle oscurità elisabettiane:  > “ritiratosi dalla vita brillante presso un fabbricante di manifatture in > Brookstreet nelle vicinanze di Londra, visse alquanto in silenzio finché un > giorno, dopo avere orgogliosamente rifiutato un pranzo che il padrone di casa > gli offriva, la fame, le delusioni e la disperazione lo costrinsero ad > uccidersi. Quasi nessuno parlò della sua morte e il suo corpo fu sepolto nella > fossa comune”. Alla dissipazione del corpo seguì la resurrezione del corpus: ci si accorse – troppo tardi – di essere al cospetto di un talento selvatico, dall’opera esondante, un Niagara, capace di passare, con aggressivo agio, dal poema cavalleresco alla scena ‘da camera’, dall’idillio alla satira, violenta. Non so se la solitudine ricercata, la sovrabbondante ira, la frustrazione abbiano favorito o stravolto l’opera di Chatterton: ancora oggi egli è l’autentico rivoluzionario della poesia inglese, ignifugo alle mode critiche e alle stagionali rivalutazioni. Se William Blake, per dire – per effetto, è ovvio, di una agghiacciante singolarità – è diventato un idolo, Chatterton resta nel volgo dei vampiri, a ruminare tra le ombre: per sempre insoddisfatto, non ci dà pace, ci dà di morso.  Luigi Berti – tra i rari che abbiano tentato di tradurre Chatterton nella nostra lingua – credette di trovarsi al cospetto di un genio ingenuo, di un rebus, in fondo (“Chatterton ci ha lasciato due volumi di versi e certi critici vi hanno veduto anche un’evasione immaginativa di rara potenza, altri ancora uno stato morboso che lo spingeva a crearsi un mondo d’immagini e di musica in cui la morte era regina”, in: I preromantici inglesi, Guanda, 1964); scrisse che se fosse vissuto di più, chissà, “sarebbe stato tra i più forti poeti preromantici e forse anche tra i maggiori del suo tempo”. Al tempo di Allodoli – che costella il suo saggio di qualche traduzione, qua e là –, i ragazzi mandavano a memoria le poesie di Chatterton rimpinguandosi della sua leggenda: il poeta incompreso, il poeta ribelle, l’uomo che ha scelto di vivere poeticamente, fino alla tragedia. La frase con cui Allodoli chiude il saggio – “pensando al diciottenne poeta, noi ci sentiamo turbati come dinanzi a qualcosa di straordinario” – dichiara il destro di una poetica: il poeta è sempre fuori dall’ordinario, non si lascia intimidire dalle norme stantie della storia dell’arte; il poeta è il perturbante.  Henry Wallis, The Death of Chatterton, 1856 Fresca, d’altronde, era l’impressione di Chatterton, l’opera lirica di Leoncavallo andata in scena al Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel marzo del 1896. Il libretto era tratto dalla drammaturgia del 1835 di Alfred de Vigny, tra le sue più grandi. L’introduzione dello scrittore – Dernière nuit de travail –, di fatto, fa di Chatterton un monito e un mito ‘universale’.  > “La mia causa è il perpetuo martirio del poeta, la sua perpetua immolazione – > La mia causa: il diritto che egli viva – La mia causa: il pane che non gli > diamo – La mia causa: la morte che è costretto a darsi”.  A De Vigny non importava l’opera di Chatterton, poeta solare pur nella sua disperazione, ma l’epopea del “criminale davanti a Dio e davanti agli uomini, dacché il suicidio è un crimine religioso e sociale”. Ne fa il sovrano dell’angoscia, il prototipo del suicidato dalla società – “Quando un uomo muore in questo modo possiamo parlare di suicidio? È la società che lo ha gettato negli inferi” –, l’erma di un sopruso che tutto mette in discussione:  > “Il Poeta era tutto per me; Chatterton non era che un nome; ho deliberatamente > messo da parte gli esatti fatti della sua vita per prelevare da quel destino > ciò che lo rendeva un esempio per sempre deplorevole di una nobile miseria. I > tuoi compatrioti ti dissero bimbo meraviglioso! Giusto o meno che fosse, eri > infelice; ne sono certo, e mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne! > Perdonami se ho preso come un simbolo il nome che hai portato su questa terra, > e in tuo nome aver tentato il bene”.  Il cadavere di Chatterton, pari a un burattino, si prestò a essere manovrato da molti, travestito dai tanti. Il suicidio tramutò l’esistenza di un irregolare in quella di un reietto dell’assoluto. Caso singolare in cui una vita, malridotta, ha vampirizzato l’opera.  In realtà, scevra dalla gigantografia leggendaria, la burrascosa esistenza di Thomas Chatterton si muove attorno ad alcuni, miliari, elementi. Nato a Bristol il 20 novembre del 1752 – quasi un secolo dopo, il 20 ottobre del 1854, nasce, pure lui in provincia, quell’altro “ragazzo meraviglia”, Arthur Rimbaud: nella genuflessione del genetliaco, lievemente obliquo, c’è anche la sostanziale differenza di statura lirica, ma non di carisma – Chatterton subisce, da subito, lo stigma della perdita. Il padre, che si chiamava come il figlio – biblica surplace, la saggezza del sangue – muore pochi mesi prima della sua nascita, in agosto: musico mediocre, poeta per dire, per diletto praticava l’occultismo. Thomas cresce con la madre, insegnante di cucito e di ‘ornato’: di suo, acuisce un’indole alla solitudine, alla lettura disordinata. Da bambino, faticava ad apprendere l’alfabeto, lo consideravano alla stregua di un idiota. La scuola – frequentata a Bristol – lo infastidisce, come, in generale, le gerarchie dell’ordine costituito e i fatui giochi dei suoi compagni. Mitizza, invece, i meandri della chiesa di St Mary Redcliffe, in cui è sagrestano lo zio, per tradizione legata al lignaggio dei Chatterton. Orfano di padre, Thomas Chatterton trova una parentela tra affini nei cavalieri medioevali, nei vescovi capaci nell’elargire le pene e nello sguainare la spada. Ama insinuarsi in un altro modo: predilige l’epoca della Guerra delle Rose e quella di Enrico VIII, s’inventa un XV secolo a suo uso, comincia a scovare vecchie pergamene negli archivi di famiglia e in quelli della parrocchia, balocca con la lingua. La sua precocità è inquietante: a otto anni l’idiota si rivela un lettore formidabile; a undici si ritiene poeta compiuto. È l’era in cui vanno di moda i ‘notturni’ e l’esotismo di un Medioevo ricostruito in vitro, con sapienza letteraria: spopolano i canti di Ossian di James Macpherson – stampati dagli anni settanta del Settecento, in Italia hanno un traduttore d’elezione in Melchiorre Cesarotti – e le Reliques Of Ancient English Poetry di Thomas Percy; la caccia al manoscritto perduto è lo sport più in voga tra i letterati del tempo. All’accademismo, Thomas Chatterton preferisce l’energumena genuinità dell’ispirazione; l’invenzione di Thomas Rowley, immaginario monaco vissuto nel XV secolo, nei dintorni di Bristol, è la testimonianza di un talento senza freni. Abile nella mistificazione, nell’arte di produrre poemi in un middle english di propria foggia, sagace nel gioco dei labirinti verbali, Thomas Chatterton comincia a vendere i testi di Rowley, suo medioevale alter ego, come li avesse tratti da un manoscritto fortunosamente ritrovato. Per un po’, nessuno sa sbugiardarlo e il falso gli rende – ancora nel 1778, il poeta ‘laureato’ Thomas Warton inserisce i poemi di Rowley nella sua History of English Poetry, tra John Gower e Geoffrey Chaucer. Per contrasto, la stoffa di Chatterton – portata all’esuberanza come all’esuberante depressione – non sopportava le falsità del proprio tempo.  Talento burrascoso e inarginabile, il ragazzo sbarca, sedicenne, a Londra, certo di poter sopravvivere del proprio talento. Le poesie gli rendono poco; in genere – privo di appoggi e di sostanze – una specie di sovrumana indifferenza gli fa da aura. Sono, in ogni caso, anni di prodigiosa scrittura: Chatterton tocca tutti gli angoli della sensibilità lirica – dalla satira allo ieratico poema medioevale, dall’imitazione alla poesia d’amore, dall’invettiva all’improvviso, dalla pièce teatrale al ‘pezzo’ cosmico –, è famelico di fama. A differenza dei poeti del suo tempo, vive ciò che scrive, incarna il proprio verbo, crede alla parola con fanciullesca ingenuità – è questo, in lui, a spaventare, ad atterrire chi lo incrocia, riconoscendo, nello spavaldo ragazzo, il marchio feroce del prescelto. Il rapporto con Horace Walpole è emblematico. Chatterton inviò all’autore del Castello di Otranto– che, nella finzione narrativa, è presentato come un manoscritto stampato a Napoli nel XVI secolo – una silloge di testi di Rowley. Walpole, dapprincipio, ne è entusiasta e propone una pubblicazione di quei testi; poi, scoperto l’inganno, si nega a Chatterton, rifiutando di restituirgli le poesie. Sembra – per sinistre preveggenze – la sorte subita dal manoscritto dei Canti Orfici di Dino Campana, perduti, per incuranza, da Ardengo Soffici. Sembra, cioè, che nelle retrovie di una grande opera ci sia sempre uno smarrimento, un’irriconoscenza – foss’anche dell’autore, incapace di ‘fare i conti’ con il proprio talento, di metterlo a profitto –, una perdita.  Per un carattere scheggiato come quello di Chatterton, la sconfitta è irricevibile, irredimibile. Per un po’, il ragazzo tenta di conquistare il Sindaco di Londra, William Beckford, che distrattamente lo stima; poi cerca di concupire qualche possibile mecenate. I testi più languidi lasciano spazio alle poesie corrosive; benché pubblichi, qua e là, sui giornali dell’epoca, il poeta, letteralmente, fa la fame. Poco prima di morire, chiede a un amico, chirurgo, di farlo assumere come suo assistente su un cargo che viaggia verso l’Africa – anche in questo caso, la prossimità con le scelte di Rimbaud sfiora la vita apocrifa.  Gli ultimi giorni della vita di Thomas Chatterton sono pura immersione nell’amnio di una notte oscura del cuore. Nel cimitero della chiesa di St Pancras, annebbiato dai pensieri, il poeta cade in un sepolcro vuoto, in attesa della tomba; ne esce indenne, tra gli stornelli dell’amico che lo accompagna, “Ho visto risorgere un genio”. La risposta di Chatterton ha il crisma della nottola: “Da tempo, ormai, sono in combutta con le tombe”. Morì il 24 agosto del 1770, neppure diciottenne, nella scarna soffitta in cui abitava, in Brook Street. Inghiottì arsenico, fece a pezzi i pochi quaderni che aveva con sé.  La sua morte passò praticamente inavvertita dai letterati dell’epoca; il suo corpo fu gettato in una fosse comune, nel cimitero annesso alla parrocchia di St Andrew a Holborn, presso la Shoe Lane Workhouse. Alcuni credono che lo zio abbia disseppellito e recuperato il corpo di Chatterton, insediandolo nell’amata chiesa di St Mary Redcliffe, dove un cenotafio ne fa memoria. Pochi giorni dopo la sua morte, un certo Thomas Fry approdò a Londra con l’intento di scoprire chi fosse l’autore – o lo scopritore – delle poesie ascritte a Thomas Rowley: voleva fargli da mecenate.  Non si contano gli omaggi lirici e biografici destinati a Chatterton. Uno dei più riusciti, tra i recenti, è il romanzo storico di Peter Ackroyd, Chatterton: finalista al Booker Prize nel 1987, fu tradotto in Italia due anni dopo, nel 1989, come Il ragazzo meraviglioso (Chatterton). In copertina, come è ovvio, spicca The Death of Chatterton, capolavoro del pittore preraffaellita Henry Wallis. Il ragazzo, di cerea, incredula bellezza, apollinea, è sdraiato sul letto, morto; ha i capelli rossa e al suo fianco, in un forziere, semiaperto, i fogli con le sue poesie, a pezzi – quasi che le mani potessero imitare un rogo. Il ragazzo ha i pantaloni blu; la finestra, spalancata sulla quinta londinese; una pianta, umile, eroica, sul davanzale, insegna – chissà – che la morte feconda la vita. Per il quadro, compiuto nel 1856 e che moltiplicò la fama postuma di Chatterton, aveva posato un giovane George Meredith, l’autore de L’egoista. Nella cerchia dei Preraffaelliti, Thomas Chatterton figurava come uno degli eroi; Dante Gabriel Rossetti lo omaggiò con un sonetto dall’attacco esagerato: “con la virilità di Shakespeare nel cuore selvaggio di un ragazzo”. Fu William Wordsworth, tuttavia, molto tempo prima, a coniare per Thomas Chatterton un’indelebile definizione: the marvellous Boy. La poesia – Resolution and Independence, 1807 – parla di quell’“anima insonne che perì del proprio orgoglio” e lega, in un dittico efficace, il poeta della gioia (gladness) con quello della mania (madness), il sole e la sua eclissi, la luce e la sua irredimibile ombra.  Da qui, è pressoché impossibile inseguire lo spettro di Chatterton nell’opera dei più potenti poeti inglesi di ogni tempo. Coleridge scrive una Monody of the Death of Chatterton che lo accompagna per tutta la vita: la prima versione è del 1790, nell’ultima, del 1834, il poeta della Ballata del vecchio marinaio si rivolge al Poor Chatterton, “Il tuo destino mi riempie di dolore/ chi avrebbe potuto amarti prima della fine?… ho gettato una corona di oscuri fiori/ sulla tua tomba informe”. John Keats dedica Endymion “alla memoria di Thomas Chatterton”; intorno al suo “triste destino” aveva già scritto un sonetto – To Chatterton, appunto – di azzurra tenerezza: “La tua gemma per il gelo è crollata./ Ma questo è il passato: ora sei tra le stelle/ nei più alti cieli, alle sfere canti/ soavi inni, nulla ti turba/ dell’ingrato mondo, delle umane paure”. Keats associava Chatterton “all’autunno”, lo riteneva “il più puro scrittore in Lingua Inglese” (così a John Hamilton Reynolds, 21 settembre 1819). In risposta, Percy Bysshe Shelley cita “la solenne agonia” di Chatterton in Adonais, “An Elegy on the Death of John Keats”. Entrambi, introdotti alla vita lirica dall’astro di Chatterton, morirono troppo giovani: la fatalità, al calor bianco, pare insinuare una poetica.   La poesia ‘in memoria’ di Thomas Chatterton – sorta di amuleto per accedere nell’empireo dei poeti – divenne un genere, una sorta di formula teurgica. Lo praticò, tra i tanti, anche da Dylan Thomas, legato a Chatterton dal duro lignaggio dei pionieri del verbo. O Chatterton, poesia del 1938, ha modi da musa ubriaca: “O Chatterton e altri su in soffitta/ Congiunti in uno stesso lume a gas/ A usare lysoformio per narcotico;/ Bevete alle tette della terra;/ Bevuta liscia la vita/ È un veleno migliore che in bottiglia/ Nella saliva fermenta un veleno migliore/ Di quello che uno caverebbe/ Dalle budella d’un serpente” (la traduzione è di Ariodante Marianni). Serge Gainsbourg, invece, cantò la morte di Chatterton nel 1967: “Chatterton suicida/ Annibale suicida/ Demostene suicida/ Nietzsche/ in delirio/ Quanto a me/ non va poi meglio”.  Ogni letteratura ha bisogno, per trovare nuova nascita, nuova foggia linguistica, di un capro espiatorio, di un agnello sacrificale. Il ragazzo di belle speranze che s’incaglia nella sfortuna. Il pioniere che si perde nel deserto, a un passo dalla terra promessa, appena intuita – la cui novità risiede nell’annuncio, spericolato, incomprensibile. Thomas Chatterton è stato l’agnus della poesia inglese moderna. È stato sconfitto, è vero – ma questa sconfitta, ora, ci sovrasta.  *Si pubblica, in parte, l’introduzione al volume: Thomas Chatterton, “Nell’aura del fulmine. Poesie scelte”, Feltrinelli, 2025, a cura di Davide Brullo In copertina: Nicola Samorì, Arco della sete, 2020 L'articolo “Turbati, come dinanzi a qualcosa di straordinario”. Storia & versi di Thomas Chatterton, il poeta maledetto proviene da Pangea.
June 19, 2025 / Pangea