Scritti o verbali, la sciatteria linguistica e l’analfabetismo di ritorno sono
come la calunnia della cavatina famosa: iniziano in sordina, montano, si
espandono e finalmente producono «un’esplosione – Come un colpo di cannone, –
Come un colpo di cannone, – Un tremuoto, un temporale, – Un tumulto generale –
Che fa l’aria rimbombar».
C’è però una differenza cruciale: mentre spesso calunnia calunniatori e
calunniati, proprio come il temporale, passano, i disastri linguistici restano e
si aggravano, e più che da Sterbini e Rossini, dovremmo toglier da un trattato
d’oncologia o dal Dsm.
Ora isolerò alcuni modi di esprimersi ormai cuciti a doppio fil di ferro sulle
lingue degli italiani, che tali possono essere definiti soltanto in modo
residuale e anagrafico. Li trascelgo, questi macelli, in modo quasi aleatorio e
assai parzialmente: ma a ogni buon conto avremo, con dovizia e tristizia, la
misura della sciagura.
Iniziamo stappando una bottiglia di bollicine.
Sino a non gran tempo addietro ne avremmo sturata una di spumante, ovvero di
vino frizzante o mosso, magari di champagne (sciampagna, pei puristi vecchio
stile). Gli astemii o chi avesse dovuto guidare si sarebbero contentati d’acqua
gassata, o gasata, o frizzante. E siccome fa male bere senza mangiare, sarà
nostro piacere comandare un dolcino, che non è il medievale frate chiliasta, ma,
a esempio, una pannina cotta o, per esser più rigorosi, una pannacottina, come
ho sentito dire, lo giuro, da un pasticcere (o pasticciere: è davvero lo
stesso), per giunta di toschi natali. Ahi Guido! Ahi Cino! Ahi Cecco! E s’i’
fosse foco…
Che sbadato, però. Ho scordato d’annunciare che in precedenza la “bollicina”
serviva di accompagnamento a una pietanza (parola, quest’ultima, definitivamente
sostituita con «piatto», che è poi aggettivo perfettissimo per il linguaggio
attuale), una pietanza, dicevo, di carnina, guarnita con del
succulento prosciuttino e un po’ piccantina(doppietta!) e contorno vegetale. Ma,
o disdetta!, essendo indaffarato a sgorbiare per questo articolo ho dovuto
ripiegare al supermercato e acquistare, leggo sul tubo, una «Salsina per
le verdurine», che rammenta l’omogeneizzato.
A soccorso di chi avesse trascurate le scuole alte e ignorasse o avesse
dimenticato il significato di «frizzante» o «gassata», si precipita un’azienda
imbottigliatrice che tosto ha modificata l’etichetta: un tempo scriveva «Acqua
gassata», ora «Tante bollicine». Non ne faccio il nome per ovvie ragioni, ma vi
assicuro che esiste.
Avanti di sorbire un corroborante caffettino o magari un ginsenghino (ho sentita
anche questa), arrestiamoci un istante ché il pasto si sta facendo greve assai,
e «tra noi parliamo da buoni amici», come invita Scarpia la buona Floria Tosca
offrendole «vin di Spagna» che ignoro se fosse con o senza “bollicine”.
Quand’ero balilla gl’insegnanti e anche qualche adulto di casa, non per forza
laureati alla Normale summa cum laude, ti fulminavano udendo implorare «un
attimino»; e quanti lazzi contro le casalinghe che impetravano «un aiutino,
signor Mike!». Dire e scrivere «tante bollicine» e «pannacottina», oltre a fare
esteticamente schifo, è sintomo di regressione cognitiva, emotiva, psicologica.
È il linguaggio dei e pei bambini, che ora si è tradotto negli “adulti”.
Una traduzione con, a mio giudizio, due origini.
Da una parte la regressione intellettuale e psicologica dei così detti “adulti”
disabituati alla serietà, come già dissi nell’intervento sulla fotografia e le
risate; dall’altra la tendenza, anch’essa scimmiesca come le risate sguaiate, a
imitare il prossimo per farsene accettare.
Se tuttavia lo scimmiottamento è manifestazione del cervello primitivo, non sono
altrettanto certo (non lo sono per nulla) che il rimminchionimento universale
sia il frutto marcio di una ipotetica stanchezza della civiltà e non, più tosto,
il resultato d’un ammaestramento subìto a traverso i mezzi di comunicazione e di
svago, che poi oggi i due pari sono.
Ho ancòra nella memoria le parole d’un dirigente d’una grande televisione
privata, per le quali appresi che progetto lucidamente perseguìto dagli
inventori dei programmi è di somministrare spazzatura e droga a che i cervelli
si atrofizzino. Come si vede i complottisti (accusa di chi non ha argomenti) non
sempre sono complottisti.
Tornando alle “bollicine” e simili è giocoforza che il suo indefesso utilizzo
contribuisca anche all’egerstà di linguaggio, il quale non a caso, giusta
indagini ufficiali, è sempre più limitato banale trasandato.
Pur restando a tavola, andiamo avanti.
Una mattina mia moglie mi annuncia con tono tra il minaccioso e l’accorato, che
la sera sarebbe arrivata a cena una sua amica, che non mi era propriamente
gradita. Non mi sarei potuto opporre neppur volendo ché si era a casa dei
suoceri. La consegna implicita riservatami era: profilo basso, voglio trascorre
una serata piacevole. Obbedisco.
Arriva l’amica e ci accomodiamo attorno al tavolo. La madre di mia moglie ha
preparata la sua solita squisitissima pizza, ma a pranzo ho mangiato un po’
troppa pasta e quindi declino i riquadri di pomodoro e funghi e mi contento di
pan biscotto inzuppato nel latte.
Perché mai non condividevo la succulenta pizza?, chiede l’ospite. Rispondo che
per via della pasta del mezzogiorno, etcoetera. E quella con tono serissimo:
«Uhm… Ma adesso mangi pane… carbo su carbo non va bene». Carbo: una marca di
pane? Mi ero perso un pezzo della conversazione? Macché: carbo stava
per carboidrati, che poi naturalmente, nella testolina della fanciulla, la pizza
non ha.
Mica finita.
Mia moglie, appena udita l’amica, mi scaglia un’occhiata più lancinante della
folgore di Donner: per l’amor del Cielo taci. Io mi limito a replicare
all’ospite con un’alzata di spalle e un’espressione facciale altrettanto
eloquente. Ma quella si ostina e si sente in dovere anche di darmi un
suggerimento: «Dopo, dammi retta, bevi una tisa digerente».
Rimasi col cucchiaio a mezz’aria e qualche goccia di latte mi dové colar per la
barba. Strizzai la faccia in un’espressione di ribrezzo; ma qui, oltre
all’occhiataccia, mi arrivò un calcetto di sotto il tavolo.
Naturalmente tisa stava per «tisana». E c’era poi l’altra
bestialità: digerente in vece di digestiva.
Incassai occhiatacce, calci e insulti alla madrelingua e me ne andai via,
lasciando i carbo sotto forma di pane galleggiare nel latte ormai quasi freddo.
Soffocai anche un rutto, che non era indizio di ribellione gastrica per il
lattosio ma del tutto psicosomatico.
E adesso possiamo andare a parlare d’altro.
Dalla televisione al bar, dall’idraulico al gazzettiere, dall’insegnante al
musicista: s’è pigliato il vizio d’infilare il verbo «andare» ovunque e a
sproposito. Il cuciniere televisivo ai fornelli: «Vado a mettere il sale nella
padella e poi vado a scolare la pasta»; lo “iutuber”: «Andiamo a guardare questo
video» (per inciso non esistono più «filmati» o «riprese»: esistono
solo video e contenuti); il giornalista ci invita: «Andiamo a sentire gli
ospiti» che sono lì a un metro.
Persone più edotte di me in inglese mi spiegano che è una sorta di calco da
quella lingua: «Let’s go to…». Dunque non bastavano gli innumeri intarsi, gli
abusivi, i clandestini verbali imposti nudi e crudi al nostro idioma: adesso c’è
anche un virus che lo aggredisce alla base, corrodendolo polverizzandolo e
spazzandolo via, per infilarci quei cancheri.
Se poi io sia stato informato male o abbia fraintesa la spiegazione, poco
importa: “andare” quando non si va da nessuna parte è da dementi.
Ravviso in questa forma che si pensa elegante il vezzo degli incolti o, razza
ancor più perniciosa, semi-colti, gli orecchianti, gli “studiati” a mezz’aria,
come il cocciuto Willy il Coyote che precipita al fondo del burrone poiché
incapace di spiccare il salto completo. Ma l’irresistibile cartone perlomeno si
schianta da solo e ci dà sollazzo. Quegli altri in vece ci cadono sulla zucca e
ci impestano l’aria.
Per mascherare insipienza e ottusità costoro si annettono espressioni che al
loro cerèbro suonano colte, raffinate. Ma sono come l’innocente gatto un po’
goffo, che tenta di nascondere la cacca raspando nella sabbia. (Per inciso, non
conto più le volte che m’è toccato di sentire sabbietta, parola doppiamente
fessa, ché la sabbia di lettiera ha grani sensibilmente più grandi di quelli
d’arena).
Mi ricordo d’un tanghero che conoscevo una quindicina d’anni fa, proprietario
d’una caffetteria nel centro di Torino, fisiognomicamente – e non è un’iperbole
– assai più prossimo a un gibbone che a un sapiens, e di un’ignoranza da fare
invidia, benché dicesse d’aver studiato e s’accompagnasse a una donna, dicevano,
laureata. Più e più volte lo sentivo dire: «Nel tal caso che Paola arriva
[ovvio], dille…», «Nel tal caso che il fornitore…».
Il vocabolo «tale» era ai suoi orecchi così alato che gli pareva doveroso
infilarlo ovunque; ma è come spruzzarsi un mediocre profumo su stracci
puteolenti.
Che fatica! Ma, insomma, pur tanta roba, no? Ecco un altro mostro.
«Roba mia, vientene con me!», risovviene dai gorghi della memoria insieme alla
spiegazione della maestra (un tempo già alle elementari ci facevano almeno
assaggiare la buona letteratura, oh sì). La spiegazione era seguìta
dall’ammonimento, ribadita alle medie, di non dar di «roba» o «cosa» a
checcheffosse; i dizionari grondano di parole, di sinonimi: che li imparassimo,
che li usassimo, senza ripieghi generalissimi.
Parole al vento per moltissimi, vistoché anche miei coetanei che si suppone
abbiano frequentate almeno buone scuole di base, lardellano il discorso di
quell’espressione grossolana, davanti a ogni vetrina, notizia, sensazione che
colpisca, ma altrettanto a capocchia. Meglio, di questa espressione tappabuchi o
ombrello, una sana imprecazione veneta: greve bensì ma senza che chi la sbuffa
pretenda d’essere alla moda.
Eppoi, suvvia, ogni tanto manifestare lode al cielo con una bestemmia ci sta,
nevvero? Ecco un altro colpo di mannaia ai diti (Leopardi scrive così, non mi
scocciate) dei negletti e defraudati Tommaseo, Prèmoli, Zingarelli, Devoto,
Oli.(Per inciso – questa non me la posso tenere – c’era un di quei professori
laureati col Sessantotto pel quale Devoto e Oli erano una sola persona, anche se
non si capacitava di non aver trovato sulle Pagine Bianche alcun «Oli professor
Devoto». Chissà che non lo stia ancòra cercando: e chi aveva il coraggio di
togliergli la convinzione?).
Ci sta, dicevamo. ‘Sta specie di singhiozzo interiettivo è talmente entrato
nell’uso da aver impestato anche penne che un tempo sapevano stare inclinate
correttamente, e non stravaccate. Me la ritrovo in fatti in un piccolo libro su
Amadeo Bordiga, il comunista più serio d’ogni internazionale e scrittore
abbagliante, di Pietro Basso – docente di sociologia, niente di meno, a Ca’
Foscari – il quale, bontà sua, consapevole dell’anomalia piega le due parolette
in corsivo come usa per gli esterismi (mio pseudoneologismo da «estero» e
«isterismo»), anche se ahimè sempre di meno.
Questo linguaggio giovanilistico (Basso ha ampiamente varcati di settanta) sarà
un modo per cattivarsi i semprinvocati giovani, dovendo trattare d’un soggetto
che in Italia conosceremo non solo per sentito dire in duecento, età media
settant’anni. Se è così, ci sta. O forse no. (Siccome il libro uscì anche in
Gran Bretagna come prefazione a un’antologia bordighiana, mi domando come
accidenti se la siano cavata).
C’è anche il tu distribuito come coriandoli a carnevale. In pratica il Lei è in
via d’abolizione. Dico, si noti, abolizione e non estinzione, ché questa è un
processo spontaneo, naturale, mentre l’altra è deliberata scelta. Non a caso –
conservo ancòra il messaggio di una medichessa – non a caso lo chiamano «tu
inclusivo», e ormai a milioni lo dispensano a ogni categoria e anagrafe. Persone
alle quali avantieri non si sarebbe rivolta parola se non a capo chino e
sull’attenti eccole apostrofate con la seconda persona singolare; nemmeno la
nuora o il capufficio li arpiona così, e adesso arrivano bimbiminkia, anche di
cinquant’anni. E ciò, in parentesi, nell’epoca dell’autismo universale, dove
ognuno si contempla nemmen più allo specchio, ma solo il proprio orifizio anale.
È la compensazione.
E con la medichessa, giustappunto, dovetti altercare, ché nonostante il «tu
inclusivo» non si degnava di rispondermi al telefono, giacché rifiutava per
principio di sentire i pazienti a voce: solo inclusivissimi messaggi.
È però arrivato il momento di fermarci, anche se potremmo davvero seguitare a
lungo.
Vado solo ad aggiungere una noticina, che ci sta.
Che sia saltata la discriminazione tra espressione scritta e parlata, è ormai
ahinoi storia vecchia. Più recente è la sgangheratezza irremeabile insinuatasi
nella carta stampata.
Saranno almeno tre o quattr’anni che mi càpita d’imbattermi in titolazioni di
grandi quotidiani italiani “in rete” privi di punteggiatura, sicché il soggetto
della prima frase sembra passare alla seconda, ma senza concordare col verbo, e
un predicato è conteso tra due frammenti di titolo. Tutto ciò comporta che
occorra mezzo secondo in più per capire che cosa si stia leggendo. Le prime
volte, giuro, per un istante temetti qualche mia microischemia cerebrale, sopra
tutto quando di secondi me ne occorsero ben due o tre per cogliere che accidenti
si volesse comunicare.
Sono le medesime negligenze sintattiche che spesso, sempre più spesso ricevo sul
telefono. Con la differenza che qui mi scrive per solito un idraulico, il
barista cinese, o la donna delle pulizie.
So per certo che i titoli, sulle pagine virtuali dei giornaloni, sono affidati
perlopiù a giovanissimi praticanti (non pagati) o arcigiovanissimi “stagisti”
(non pagati). I quali, tuttavia, stanno lì perché vogliono, poveretti!,
diventare gazzettieri. E che costoro non abbiano le basi per farlo, è evidente.
Ma a chi controlla la titolazione, o sia giornalisti fatti e finiti, quei
“whatsapp” o “sms” non fanno problema e forse nemmeno se ne accorgono. È molto
indisponente che su fogli che ogni santo giorno ammanniscono lezioncine
politiche e morali non si controlli nemmeno la lingua italiana.
Ma questo ennesimo imbarbarimento della stampa va a vantaggio di molti: avete
una ragione in più per non leggerla e per invitare chi possiate a evitare quelle
pattumaie.
Sulle quali, ne sono certo, non vedrete mai comparire un articolo come questo.
Luca Bistolfi
*In copertina e nel testo: opere di Roland Topor
L'articolo “Andiamo” alle “bollicine”: “ci sta”! Note su alcuni orrori del
linguaggio odierno proviene da Pangea.
Tag - società
Qualche tempo fa m’imbattei nell’articolo d’un grande quotidiano nazionale
italiano, abbeveratoio della sinistra “illuminata”, che s’incaricava appunto di
rischiarare le menti dei lettori sulla ragione per cui la stragrande maggioranza
dei ritratti pittorici e fotografici del passato, remoto e più recente, fissano
volti privi di sorriso e men che meno di una risata.
La soluzione dell’enigma era laconica unica e tassativa: la dentatura guasta o
mancante.
Avendo i nostri avi una chiostra impresentabile, era giocoforza serrare i labbri
per celare il vergognoso scempio. Una rivelazione che se non avessi appresa da
quel foglio, avrei pensato a un lazzo di burlone o a un momentaneo oscuramento
cognitivo dell’autore, tanto si tratta d’una sonora e proterva imbecillità
avvolta in rigore “scientifico”.
Vale la pena di spenderci qualche parola, ché essa è segno dei tempi.
Anzitutto, ammettendo che il re, o il condottiero, o il compositore musicale,
poniamo del Seicento o del Settecento, avesse i denti marci o assenti, non vedo
la ragione da parte del pintore di darsi al verismo ante litteram, postoché
volesse serbare la committenza e magari anche il capo sul collo. E mi sento più
fesso di quel giornalista a dover osservare tanto: ma a un’idiozia si deve
replicare, non potendo con pedate nel didietro, con altrettali banalità, come si
fa coi bambini tardi.
Meno, assai meno c’è – a proposito – da ridere o sorridere, se non di
commiserazione, traducendo il discorso dalla pittura alla fotografia: giacché
non c’era alcunché da celare.
Eh sì. Se l’estensore di quell’articolo rivelatore avesse letti buoni libri o
anche soltanto scartabellato “in rete”, si sarebbe sùbito accorto che le
dentature dei nostri antenati erano più che complete sane e non di rado
bellissime. Chi avesse avute magagne dentarie aveva di poi alla disposizione
diversi tipi di protesi, le quali risalgono – si aprano bene gli occhi – al 2500
a.C. Delle condizioni di molari e incisivi nelle epoche “arretrate” si trova
ampia traccia ovunque. Penso a esempio ai Colloqui con Arthur Schopenhauer o a
qualche buona biografia di Abramo Lincoln, il quale, come riferisce John Kleeves
(Stefano Anelli) in Un Paese pericoloso, possedeva una protesi di denti umani.
Leggendo di poi l’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova si trovano non poche
descrizioni di splendide dentature naturali, anche presso le classi meno
abbienti, così mirabili che il Gran Veneziano si sente in dovere di rilevarlo.
Spostandoci nel tempo arriviamo a Gabriele d’Annunzio, del quale molti non
mancavano di far notare una dentatura infelice; segno, l’osservazione, che
ancòra cent’anni fa una bocca guasta, per di più in una persona alla quale non
mancavano di certo conoscenze e danari per farsela arrangiare, attirava
l’attenzione (e anche gli scherni di qualche tanghero).
Ci sostiene anche Totò, cantando per di più d’una popolana, l’acquaiola, nella
poesia eponima, che «se chiamma Teresina, – sì e no tene vint’anne, – capille
curte nire nire e riccie, – na dentatura janca comm’ ‘a neve».
Sulle epoche antiche o antichissime basterà sfogliare qualche volume di
archeologia per ammirare teschi con denti originali perfetti, nonostante le
migliaia d’anni trascorse. Un archeologo che interpello conferma: al massimo
manca qualche dente ogni tanto, ma sono in stragrande maggioranza bocche
intatte, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi èra. Brutte dentature in qualche
passato, beninteso, ce ne saranno state; ma non certo nella misura imaginata da
certi scribacchini perdigiorno.
Proseguiamo.
È falso che i nostri avi, celebri o meno, si facessero ritrarre pressoché sempre
col cipiglio. Ci sono intiere biblioteche di imagini di contadini, e operai, e
bottegai sorridenti (e, peraltro, talora sdentati); così come non è inferiore il
novero di figure fissate nell’abbozzo o nello spiegamento d’un sorriso. Almeno
in un paio di ritratti fotografici si vede proprio Schopenhauer con la faccia
mossa in un lieve sorriso sarcastico.
Come dunque si vede, l’analisi di quel rappresentante dell’intellettualità
progressista, che verisimilmente avrà ripresa la grande rivelazione da qualche
ricercatore americano o inglese, è, per adoperare un proverbio giusto di quelle
parti, una cagata nel ventilatore (acceso). Ma di dove viene una simile boriosa
sicumera? Credo di avere la risposta, che è duplice.
Per cominciare, da un pregiudizio tipicamente moderno, della modernità più
corriva e ottusa, per la quale tutti, sino al giorno avanti in cui il
progressista pensa e (purtroppo) parla, erano dei cavernicoli. Pei progressisti
la storia è composta di grandi magagne e orridi sociali tecnici artistici
politici, che solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo e vieppiù nella
seconda metà del XX, sono stati colmati e spazzati via. Sicché anche solo
l’esistenza di una dentiera prima d’avantieri è letteralmente impensabile. Il
che significa anche ignoranza e poltronaggine.
Ma dietro a questo pregiudizio materiale, se ne staglia uno morale, che è la
seconda scaturigine della cialtronata in esame.
Una ‘testa di carattere’ di Franz Xaver Messerschmidt (1736-1783)
Il tono dell’articolo in fatti (che peraltro consuona, per la mia esperienza,
con numerose chiacchierate avute con svariate persone, non necessariamente
progressiste, segno che il lavaggio del cervello e la tassidermia cranica sono
efficaci e democratici), il tono dell’articolo mostra stizza e contrarietà per
quella schiera di facce serie e compunte. Che noia, che tristezza, mai un
sorriso, e ridete una volta ogni tanto!, sembra di udire. È l’andazzo odierno,
uno dei segni più eloquenti e agghiaccianti dello spirito del nostro miserabile
tempo. Ridere più che sorridere e, ancor meglio, sghignazzare, magari con le
fauci spalancate, è segno di vitalità, di gioia, ci aiuta a dimenticare che la
vita è cosa seria.Guardate le fotografie sugli apparecchi telefonici, sui
“social”, guardatevi d’attorno, al lavoro, in famiglia, sul treno: quasi mai si
vedono facce serie, in ispecie se sono adunati due o più individui. Tutti (e
tutte) squadernano la chiostra e più volentieri ancòra divaricano le mascelle
(non di rado mostrando qualche otturazione…). Ed è in questi casi che costoro, e
non i nostri antenati, dimostrano di essere più prossimi ai nostri (del tutto
presunti) progenitori scimmie.
Se oggi solo provi a farti scattare una fotografia restando più o meno serio, il
Cartier-Bresson di turno – un amico, un collega – ti rintuzzano: «Uh, ma come
sei seriooo…! Non siamo mica a un funeraleee… Ridi un po’!». A me è capitato
anche durante la breve seduta dal fotografo per la carta di identità. Cosa
accidenti poi ci fosse da ridere per uno che di lì a poco si sarebbe infilato in
un ufficio pubblico, ignoro.
Oggidì la risata, sopra tutto se a sproposito e ostentata, è un segnacolo di
riconoscimento obbligatorio, come la targa dell’autovettura, come il tatuaggio,
altro emblema, quest’ultimo, della mutazione antropologica in atto.
Vi racconto questa.
Non molto tempo fa sostavo per una pausa sul portone d’una grande biblioteca.
A un metro dietro le mie spalle c’era un quartetto di donne tra i trenta e i
cinquant’anni, ben conciate e del tutto sobrie, intente a discutere di questioni
ordinarie, figli famiglia vacanze lavoro, quindi nulla che potesse suscitare
risate, men che meno di quelle a cui per venti minuti abbondanti volli assistere
con discrezione.
«Com’è andata al mare?»: giù risate di tutte.
«E tu col bambino? È guarito?»: altre risate.
«Sì sì, per fortuna»: risate.
«Massì, dài, insomma», eh eh eh ah ah ah.
Era tuttavia ammirevole che quelle donne riescissero a ridere anche mentre
“articolavano” le parole, che in effetto talvolta mi diventavano oscure. Avrò
limiti, ma quando rido della grossa (lo faccio, tranquilli, lo faccio) mi è
impossibile parlare, e viceversa.
Temo però che quelle risa, come moltissime altre, oltreché fuor di luogo e
inutili, e anche moleste, siano di natura isterica. E certi contenuti del
“dialogo” al quale assistetti me lo confermano. Una risata sincera è suscitata
da una scena o da un motto di spirito e si manifesta in tutt’altro modo. Durante
quei lunghi ma istruttivi minuti mi venne alla mente, come ogni volta che mi
imbatto in scene analoghe, un frammento dei Griffin, il cartone animato famoso,
con protagonista un gruppo di donne al ristorante intente a ordinare un dolce.
Non anticipo alcunché; ma vi assicuro che avrete la rappresentazione plastica
della scena della quale fui abusivo spettatore. E se persino Seth MacFarlane e i
suoi impietosi (e talora diabolici) collaboratori, progressisti spinti, quindi
non tacciabili di bigottismo, si sono sentiti in dovere di isolare
la mostruosità di certi contegni, occorre che gli altri progressisti – e non –
svolgano una seria riflessione su loro stessi e sul mondo in cui viviamo e che
hanno contribuito a forgiare.
Tornando ai nostri avi, la ragione in forza della quale essi si facevano
ritrarre perlopiù serii e in pose composte era una soltanto, indipendentemente
dal soggetto: dare e tramandare di sé e magari della loro categoria e del loro
ceto sociale, qualunque fosse, un’imagine decorosa esemplare e persino
nobile, sopra tutto se ricoprivano ruoli, pubblici o privati, dai quali
dipendevano e ai quali riguardavano magari migliaia o milioni di persone.
Ma di più: non solo volevano essere serii, ma lo erano, non si sforzavano di
esserlo per il tempo della seduta davanti alla macchina fotografica per poi
scomporsi una volta lontani.
A conferma e rafforzamento di questa verità basterà guardare libri fotografici o
documentarii dagli anni Quaranta ai Settanta del secolo scòrso con qualsiasi
persona a protagonista. Vedrete sùbito l’abissale e irriducibile divergenza di
contegno dall’oggi.
Ciò però non significa che un tempo non sapessero ridere anche le persone i cui
volti ci sono arrivati composti. Si pensi a Hegel, i cui ritratti possono essere
l’incarnazione della severità e della compostezza. Ma basta leggere una
paginetta dalla biografia del filosofo scritta dall’allievo e amico Karl
Rosenkranz per apprendere che il grande pensatore di Stoccarda sapeva anche
ridere di gusto. L’ultima volta fu davanti a una locanda in cui si era
intrattenuto con alcuni amici, che testimoniano della giovialità del filosofo,
il quale peraltro di lì a pochissimo tempo sarebbe morto, pare assai
serenamente, a causa del colera che aveva colpita Berlino.
Ma chissà che cosa direbbero certi partigiani della risata se sapessero che, in
tanti anni di assidua frequentazione, un suo amico ha veduto sorridere Coetzee
soltanto in un’occasione.
Beninteso: non sto tessendo un elogio della mutria. Ma si converrà che una
persona normale (sì, ho detto normale: e quindi?) si senta più al sicuro davanti
a qualcuno di composto che non a una “iena ridens”. Mi domando di poi, guardando
tutte quelle bocche spalancate e sentendo tutti gli inviti a «ridere un po’»,
quale valore rappresenti di per sé ridere, in quella maniera sguaiata e
berciante poi, che cosa aggiunga a un individuo.
Non è affascinante e rassicurante il sorriso della Gioconda o dell’Auriga di
Delfi? E forse non gli è che sommi artisti – un Bosch, un Kranak – hanno
castigata la sguaiataggine? Ricordiamoci poi l’imbarazzo (penso ancòra a
Schopenhauer) dinanzi alla bocca del Laocoonte, che sembra, anziché gridare,
nemmen ridere ma solo sbadigliare.
Se poi vogliamo “buttarla in religione” ecco san Tommaso d’Aquino, che annovera
il risus superfluus addirittura tra i peccati, benché veniali:
> «Talora invece la volontà del peccatore si volge verso cose che contengono in se stesse un certo disordine, senza però opporsi all’amore di Dio e del prossimo: tali sono le parole oziose, le risate smodate [risus superfluus] e altre cose simili. E questi peccati sono veniali nel loro genere».
>
> (Somma teologica, I-II, 88, 2)
Tuttavia non si commetta l’errore di leggere la parola «peccato» in senso
moralistico, come purtroppo molto spesso, se non quasi sempre, anche gli stessi
cristiani inclinano. «Peccato» in greco antico – che è la lingua ufficiale degli
Evangeli – è «amartía», letteralmente «mancare il bersaglio, andar fuori
strada», che può essere inteso anche in modo estensivo. E in effetto, se ci
pensiamo, quando ridiamo in modo eccessivo è come se escissimo da noi stessi, e
così quando straparliamo sospinti da un eccesso emotivo dicendo fesserie o
parole che possono nuocere ad altrui ovvero ritorcersi contro di noi: anche
Schopenhauer, non certo un partigiano del cristianesimo, raccomanda di contenere
le parole affine di non incorrere in qualche guaio. Ricordiamoci che «non ciò
che entra nella bocca contamina l’uomo; ma è ciò che esce dalla bocca, che
contamina l’uomo» (Mt 15,11).
Le Scritture sono molto eloquenti.
Forse che Sara non rise quando udì che avrebbe avuto un figlio nonostante
l’avanzata età (Gn 18,12)? Risero anche di Gesù quando questi disse che la
figlia di Iairo «non è morta, ma dorme» (Lc 8,52). E forse i soldati romani non
irridono Gesù? Ma «guai a voi che ora ridete, perché farete cordoglio e
piangerete» (Lu 6,25), e perché «io ho detto del riso: “È una follia”» (Ec 2,2).
Contemplando quelle schiere di bocche scontorte, gli elogi della sguaiataggine,
gli stimoli a ridere ridere ridere, mi vien da pensare al Batman di Tim Burton,
quando Jocker, interpretato da Jack Nicholson, sbuffa nell’aria di Gotham City
un gas verdognolo che stermina la popolazione e la irrigidisce in un ghigno
simile al suo, derivatogli dal bagno in una vasca di acido e dalle manovre
imperìte d’un chirurgo clandestino.
Un ghigno, quello di quei morti, che è l’antifrasi dell’animo di Jocker e dei
tristi cittadini, morti prima di morire, di quell’oscura città: «Anche ridendo,
il cuore può essere triste» (Pr 14,13).
Gli abitanti di Gotham City erano condannati a ridere. Proprio come voi.
Luca Bistolfi
*In copertina: Conrad Veidt in “L’uomo che ride”, 1928
L'articolo Condannati a ridere. Piccolo discorso intorno a dentature guaste e a
piccole iene proviene da Pangea.
In questi giorni, in questo periodo, su varie testate (anche su Pangea, qui) si
parla molto della Milano che è stata e che non è più, di una Milano differente,
diversa, più alternativa, più identitaria e meno vetrina di lustri post yuppies,
di grattacieli alberati e di olimpiadi di Cortina in città. Tutto vero e tutto
molto giusto.
Soprattutto la lente d’ingrandimento è puntata sulla Milano degli anni Novanta
(perché chi scrive di questo, compreso il sottoscritto, era adolescente
all’epoca) e la lamentela solitamente è legata a certi luoghi che non esistono
più, a locali come il Rolling Stones (da anni una palazzina) il Plastic (che
però ha chiuso quest’anno dopo anni di perdita d’identità) il Leoncavallo (anche
questo chiuso da poco, ma da quanto tempo era fuori dai radar musicali?) Le
Scimmie (ma chi ci andava davvero?) e proseguendo con negozi di dischi, sale
prove, locali ed altri locali e sempre ancora locali. Io, che come tutti in
quegli anni (ma a dire il vero più dal 2000 in poi) ho frequentato quei club,
quei posti di ritrovo, quei bar, quelle sale da ballo o da concerti oggi mi
sento sicuramente un po’ orfano (ma ho anche quarantacinque anni, come gli
altri, e ad un certo punto ha ancora un senso parlare di posti che frequentavo a
venti?) ma anche soddisfatto, forse, di averli vissuti e frequentati.
E oggi? Oggi Milano è cambiata totalmente. I locali e le sale da ballo tanto
amate dai giovani alternativi si sono trasformati in negozi, bar newyorkesi che
fanno ancora il caffè americano usando l’espresso allungato con l’acqua, palazzi
vertiginosi che sfidano nuvole e traffico aereo, spazi modaioli e offrono altre
realtà, altre possibilità, altri servizi per altri fruitori. Non solo agli
studenti stranieri e ai turisti ma anche a nuovi giovani, a ventenni che, nati
dopo il duemilaedieci, se ne fottono (giustamente) del Rolling Stones,
del Leoncavallo, del Govinda, della Stecca perché sono nati con altro (meglio o
peggio non importa, è solo il nostro parere di “vecchi”) e in quell’altro ci
sguazzano a colpi di Instagram, di social, di incontri gestiti in maniera
differente da come venivamo gestiti i nostri.
Ora mi domando; ma se i quarantenni/quarantacinquenni di oggi sono anche loro in
balia di Instagram, dei social, delle uscite notturne fino alle quattro del
mattino che cosa pretendono? Pure gli stessi locali di allora? Non si accorgono
di essere fuori tempo massimo? E allora, chi negli anni Novanta aveva più di
quarant’anni che cosa avrebbe dovuto rimpiangere? I night? Gli american bar? Il
festival del proletariato giovanile al Parco Lambro?
Chi ha detto che Milano era fatta solo di aggregazione dovuta a locali notturni
e centri sociali? Le gallerie, i palazzi, il rumore del tram, certi parchi (come
quello di Trenno) e qualche pizzeria sono ancora lì a testimoniare una città
bellissima (solo per i milanesi, sia chiaro) proprio perché anonima e anomala.
Milano cambia perché il tempo cambia, la società cambia. Punto. Non c’è altro. E
che sia meglio o peggio è qualche cosa di ingiudicabile. Certo, ci mancano
i Sonic Youth in questo o in quel posto ma è solo un nostro pallido e smorzato
ricordo. Milano è piena di locali dove si suona musica. Arci Bellezza,
Torchiera, Spazio Pontano, Teatro dell’arsenale, Auditorium San Fedele, e molto
altro ancora. Una città che dal punto di vista musicale, teatrale,
cinematografico è più viva che mai e forse anche più di allora. Certo, il
contesto attorno è cambiato e oggi ci sono meno case a ringhiera e più piste
ciclabili (ma un tempo non ci si lamentava che a Milano non c’erano le piste
ciclabili?) ma l’essenza è la stessa. Le sale prova aggregative come il Jungle
Sound (dove provavano Ritmo Tribale e Afterhours) sono scomparse ma è scomparsa
anche una scena (ed è giusto così, le scene evolvono e cambiano, le cose per
fortuna finiscono e Agnelli è finito a X-Factor) e ne sono riapparse altre.
Nessun allarme per la trap o scemate varie. Negli anni Novanta la maggior parte
delle persone ascoltava gli Ace of Base e i Backstreet Boys e, alla fine,
togliendo l’enfasi social, non è la stessa cosa che accade oggi? La differenza
con allora è l’algoritmo, che ha scardinato tutto facendoci vivere in un
infinito tempo presente dove tutto accade senza considerare che; quando tutto
accade alla fine non accade proprio niente.
Certo, nel mio nostalgico ricordo da bambino di una Milano sparita c’è lo zoo ai
giardini di Porta Venezia, il lunapark le Varesine e il primo Burghy. Oggi però,
se ancora ci fosse, io farei chiudere lo zoo, non andrei mai al lunapark e
sicuramente digiunerei piuttosto che concedermi un panino in un fast food. Le
cose cambiano, non restano le stesse. Così Milano ha perso un’identità che non
era di tutti ma solo di alcuni o di pochi. Era la nostra visione della
città(perché la maggior parte delle persone non andava al Teatro Smeraldo a
sentire Paolo Conte e nemmeno a sentire qualche concerto underground al Rainbow
Club, preferiva fare avanti e indietro tra Duomo e San Babila come fa ancora
oggi). Una visione elitaria e anche un po’ stronza perché era la “nostra” Milano
e non una Milano che aveva identità. Milano, purtroppo, l’identità non ce l’ha
mai avuta. Eccetto forse nel dopoguerra (guardate come è fotografata nel film
“Cronaca di un amore” di Rossellini).
Certo anche a me non piace questa versione ruspante di New York (la New York di
oggi chiaramente mica quella degli anni Ottanta) fatta di centri commerciali,
catene di ristoranti ovunque, locali costosissimi e continui week anche
piuttosto inutili. Ma non ci posso fare niente, l’unica cosa buona da fare è
vivere altrove (l’ho fatto e alla fine torno sempre qui, chissà perché…) oppure
cercare le tracce vere della Milano di ieri che ancora oggi è rimasta. E non
sono i locali, i centri sociali o la fiera di Sinigallia che bisogna andare a
stanare. Ma la città in sé, le vie e i vialoni rimasti come allora. Viale
Vincenzo Monti, Via Mac Mahon, le zone di Bande Nere, Primaticcio, Baggio. E poi
ancora Piazzale Buonarroti, viale Gran Sasso ecc… Milano sono strade, case,
portoni. Le città sono anche questo. Senza considerare quartieri che si sono
trasformati (in bene o in male giudicate voi) in zone arabe, peruviane, cinesi e
che offrono una Milano comunque differente da quella Milano che splende tanto
suoi giornali con i suoi alberi dentro grattacieli, i suoi vetri riflettenti o i
suoi dirompenti palazzi inaccessibili.
Le città saranno sempre fatte così e la stessa cosa vale per Parigi, New York,
Lisbona, Londra, Berlino. Sempre in continuo cambiamento asfaltando tutto quello
che c’era in favore di altro. Bello o brutto ha poca importanza. Quello è
importante solo per noi e purtroppo è troppo poco.
Giosuè Gorinzi
*In copertina: Antonio Lafrery, La Grande Città di Milano, 1573; Milano, Civica
Raccolta Achille Bertarelli
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diventati vecchi… proviene da Pangea.