“Devi cambiare la tua vita”. Rilke di fronte al torso arcaico di Apollo

Pangea - Wednesday, November 5, 2025

Molte cose può la poesia: consolare, cullare ma – più delle altre – anche comandare. Chi entra in un museo – in questo caso il Louvre, dove i capolavori vanno in carcere e gli dèi all’obitorio – per cercare il sollievo borghese dell’estetica in una placida contemplazione del “bello”, ha già tradito tutto. Si muove orizzontalmente, come un turista dell’assoluto, e non verrà mai toccato dalla lama. Perché l’arte che ispira davvero è padrona e non ancella, lo sa bene chi in una statua o in un testo ieratico non ci ha visto un parere o un’interpretazione ma un giudizio. Un giudizio divino che fissando dal suo abisso marmoreo spoglia chi lo osserva.

Ecco Rainer Maria Rilke davanti il Torso arcaico di Apollo. Un pezzo di pietra a cui la barbarie del tempo ha amputato la testa, le braccia e le gambe; è rimasto il nucleo del torso, un blocco tellurico che ne contiene il cuore. Eppure, c’è chi in questo più che una mancanza, ci ha visto una potenza accresciuta, una folgore contenuta in quel petto mozzo di ogni arto. La critica si è arrovellata per decenni, producendo biblioteche di esegesi flaccide, tentando di addomesticare quella violenza finale traducendola in inoffensivo gergo psicologico, in un invito a essere “più buoni”, “più consapevoli”. Non volevano vedere nulla. Gli dèi dettano ordini, non suggerimenti, lo sa Rilke e certamente, lo sa anche Apollo. L’imperativo che chiude il sonetto – “Devi cambiare la tua vita” – è un decreto divino, non derubricabile ad un mite consiglio amichevole. 

La prima fondamentale operazione che questo torso compie è un atto di iconoclastia sublime annientando il suo stesso volto. La testa, con la sua mimica delle labbra e con i suoi occhi che si dice siano ponte per l’anima, è stata decapitata. Ma non si tratta di una perdita, chiaramente è una purificazione che emenda Apollo della maschera dell’Io e di ogni teatro emotivo umano. Si tratta di emendare il corpo dal logos cerebrale, che tutto vuole spiegare e ridurre a concetto. L’assenza della testa permette al corpo di diventare esso stesso sguardo totale. Rilke osserva come il torso, anche sprovvisto di occhi, ha uno sguardo simile a una stella che osserva da ogni punto della sua superficie. Altrimenti, sarebbe una pietra deforme e monca, ma non lo è; è intera metafisicamente, prima che anatomicamente.

Lo sguardo di Apollo non emana più da un centro, ma si irradia dall’intera massa. È uno sguardo panottico-somatico di una divinità che non si esprime più attraverso un volto umano, ma per mezzo della tensione pura della forma. Il marmo trasuda luce e brilla come un candelabro sacro, la cui energia interna preme contro i confini della pietra fino a farla esplodere di incandescenza. Questo è un dio apocrifo, che non ha nulla della ragione apollinea e che invece ha assorbito la potenza dionisiaca. Rilke legge il torso di Apollo in maniera verticale. L’uomo orizzontale consuma arte come consuma cibo, la giudica passivamente e la recensisce con aggettivi esausti senza lasciarsi ferire o accettarne i comandi. Il torso che descrive Rilke, invece, irrompe su questo piano e impone l’incontro con il sacro e con una bellezza che non ammette neutralità. Si è costretti a prendere una posizione per elevarsi o annichilirsi, ma il torso apollineo diviene in ogni caso un maestro di una ginnastica spirituale. Il museo trae in inganno l’osservatore: il torso non è lì per essere ammirato ma per essere imitato nel campo di battaglia della propria esistenza.

L’imperativo “Du mußt dein Leben ändern”, l’enfasi è sulla parola finale che – in tedesco si lega ad andere, altro – chiede l’alterità, rendere la propria vita altro. Cambiare la propria vita è il fondamento di ogni ascesi e disciplina, di ogni aristocrazia dello spirito. È il comando che sente il monaco nella sua cella e che l’atleta percepisce nello spasmo dei muscoli, un richiamo all’ordine, alla forma e al rifiuto del caso informe della vita biologica. Vivere orizzontalmente significa subire la propria esistenza, fluttuare secondo le correnti delle passioni e delle mode. Vivere verticalmente significa imporre una forma alla propria vita e farne un’opera, significa – in altre parole – praticare.

Fu Sloterdijk a cogliere questo nucleo nella poesia. Rilke stava promulgando la legge fondamentale dell’antropotecnica: l’uomo è l’animale che si auto-impone discipline sovrumane per non restare semplicemente umano. La storia della civiltà non è la storia del progresso sociale, ma la storia degli esercizi che gli uomini hanno inventato per costringersi a diventare qualcosa di più. Dallo yoga alla filosofia stoica, dalla maratona alla meditazione, la posta in gioco è sempre la stessa: creare una tensione verticale, che distanzi ciò che si è da ciò che si deve essere.

Il torso apollineo è latore di questa etica feroce, accusa con la sua bellezza, ci guarda e ci vede flaccidi, informi e indulgenti con noi stessi. Ci vede annegare e nella sua perfezione muta, ordina di smetterla di lamentarsi e di opinare per iniziare, finalmente, a praticare. Scolpire la propria giornata come uno scultore scolpisce la pietra. Imporsi un rigore affinché la morale non sia volgarmente intesa come un catalogo di divieti, ma come un’estetica della condotta. Il bene non è ciò che è giusto, ma ciò che ha forma. Rilke mette in pratica una controrivoluzione spirituale riconoscendo nell’opera d’arte una forma autocratica che esige obbedienza. Il suo messaggio è un imperativo estetico: la propria vita, così com’è, è inaccettabile. È un’opera mancata, insufficiente ed amorfa. Ora che si è stati visti, trafitti dalla luce del dio, non ci sono più alibi.

Ciò a cui il poema chiama, in ultima istanza, è il superamento della sterile dialettica tra Apollo e Dioniso, ordine e caos, una dicotomia che ha nutrito la filosofia occidentale da Nietzsche in poi. Il Torsonon è semplicemente apollineo nella sua perfezione formale. Al suo interno, come nota Rilke, la pietra “flimmert… wie Raubtierfelle”, scintilla come pelle di belva, e il suo potere è pronto a straripare da ogni suo contorno. Questa non è chiaramente la fredda geometria del dio del rigore. È una forma che a stento contiene un’energia selvaggia e primordiale. L’Apollo che osserva Rilke è un punto di fusione tra la disciplina più rigorosa, la perfezione di quel torace sospeso, ed una vitalità sfrenata contenuta al suo interno, un dio che non ha mai essenzialmente abbandonato la statua che abitava. Questa è la tirannia benefica dell’Oggetto, Rilke mette in atto una sovversione gerarchica: non è lo spettatore a guardare l’opera, ma è l’opera che lo plasma. L’unica risposta degna a tale Epifania è la scelta di un’ascesi. Il torso non ha più il volto perché ora il suo volto è il nostro, e ci chiede cosa ne stiamo facendo. Tutto il resto è intellettualismo, e l’intelletto oggi più che mai, non serve a nulla.

“Non conoscevamo il suo capo inaudito
in cui maturarono i pomi oculari. Ma
il suo torso ancora arde come un candelabro,
dove il suo sguardo, ormai scorciato,

si conserva e risplende. Non potrebbe sennò la curva
del suo petto abbagliarti, e scorrendo la torsione delicata
dei lombi non riuscirebbe un sorriso a posarsi
su quel luogo centrale cui spettava la procreazione.

Sarebbe sennò deforme questa pietra e corta
sotto lo spiovere invisibile delle spalle,
e non tremolerebbe come pelo di belva feroce;

e non irradierebbe da ogni suo contorno
come una stella: perché non v’è punto qui
che non ti veda. Devi cambiare la tua vita.”

Andrea Falco Profili

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