Uno scienziato polacco in Asia, un positivista tra gli idoli e gli asceti, fugge
dal materialismo dentro le viscere della terra. Questa è la vertigine che prende
l’anima quando si sfoglia Bestie, Uomini e Dei, l’opera maledetta di Ferdinand
Ossendowski. Sono pagine che danzano tra la rivelazione e l’eresia. Siamo nel
1922, l’Europa lecca ancora le ferite della Grande Guerra, e questo polacco
esploratore e fuggitivo scaraventa nel mercato editoriale occidentale
un’avventura che – forse mai avvenuta, almeno così come narrata – popolarizza un
immaginario fino ad allora non esoterico, ma inscrutabile.
La storia inizia con una fuga. Sempre con una fuga iniziano le grandi
apocalissi. Ossendowski scappa dai bolscevichi, attraversa la Siberia ghiacciata
alla ricerca di uno spiazzo sicuro, ma ciò che trova è molto più inquietante: il
Regno sotterraneo dell’Agartha e il suo enigmatico sovrano, il Re del
Mondo. Un’entità che governa l’umanità dalle profondità della Terra, tirando i
fili invisibili della storia come un burattinaio cosmico. Nel cuore della
Mongolia devastata, Ossendowski incontra Roman von Ungern-Sternberg, figura
onirica che sembra uscita da un incubo sciamanico. Il barone, membro di una
famiglia protestante con radici vichinghe – così riporterà Julius Evola nella
prefazione –, si è trasformato in una sorta di messia guerriero, convinto di
essere lo strumento del destino orientale. Ungern non combatte per la politica,
ma per un’escatologia più alta. Consulta lama e oracoli prima di ogni battaglia,
vive in uno stato di ascesi guerriera che terrorizza anche i suoi seguaci
mongoli.
Nel 1939, Heinrich Harrer avrebbe tentato di scalare il Nanga Parbat per onorare
la Germania, ma già negli anni ’20 il fascino magnetico dell’Oriente esoterico
aveva catturato l’immaginazione europea. Ungern cattura Urga (l’odierna
Ulaanbaatar) nel 1921, restaura il Bogd Khan, l’ultimo sovrano buddhista della
Mongolia, ma la sua parabola dura pochi mesi. L’Armata Rossa lo cattura e lo
fucila, ma il seme delle sue visioni continua a germinare nell’anima di
Ossendowski.
> “Morirò! Morirò!… Ma non importa, non importa… La causa è sulla buona strada e
> non perirà con me… So che vie seguirà la causa. Le tribù dei successori di
> Gengis Khan si sono destate. Nessuno potrà mai spegnere il fuoco che arde nel
> cuore dei mongoli! In Asia sorgerà un grande Stato esteso dal Pacifico
> all’Oceano Indiano e fino alle rive del Volga. La saggia religione del Buddha
> si espanderà al Nord e all’Ovest. Sarà la vittoria dello spirito.”
L’Agartha di Ossendowski non nasce dal nulla. Il concetto era già stato
sviluppato da scrittori occultisti come Saint-Yves d’Alveydre, che aveva
descritto Agartha come un regno ancora esistente all’interno della Terra,
raggiungibile attraverso la proiezione astrale. Ma il polacco pretende di aver
sentito queste storie direttamente dalle fonti orientali, dai lama tibetani e
dai saggi mongoli. Una testimonianza, vera o fasulla che sia, che possiede una
forza suggestiva impressionante. Spesso collegata alla teoria della Terra cava,
Agartha è descritta come un regno nascosto abitato da esseri avanzati che
possiedono una saggezza profonda. Le tradizioni induiste parlano di Shambhala,
il regno nascosto della saggezza. Nicholas Roerich, filosofo ed etnologo russo,
rimase scioccato nel 1926 quando, attraversando le montagne dell’Asia Centrale,
lui e le sue guide videro un incredibile globo dorato che fluttuava nel cielo.
Ma l’Agartha di Ossendowski è diversa dalla Shambhala di Roerich. Quest’ultimo
vedeva il regno nascosto come una promessa di evoluzione spirituale, legata al
New Age e all’avvento di una civiltà più illuminata. Ossendowski, invece,
dipinge Agartha come un centro di potere che governa il mondo in segreto, una
teocrazia sotterranea che muove le pedine della Storia dall’ombra.
Le testimonianze che Ossendowski raccoglie sono di una potenza visionaria
sconvolgente. Un lama gli racconta che il Re del Mondo è apparso cinque volte
durante le antiche festività buddiste in Siam e India, viaggiando su un carro
splendido trainato da elefanti bianchi ornati d’oro. Portava un mantello bianco
e una corona rossa, da cui pendevano frange di diamanti che gli coprivano il
volto. Benediceva il popolo con una mela d’oro sormontata da un agnello. I
ciechi riacquistavano la vista, i sordi l’udito, i malati camminavano e i morti
uscivano dalle tombe ovunque passasse il Re del Mondo. Centoquarant’anni prima
della testimonianza del lama, il sovrano sotterraneo era apparso a Erdeni-Dzu e
aveva visitato i monasteri di Sakkia e Narabanchi Kure. Uno dei Buddha incarnati
e il Tashi Lama ricevettero da lui un messaggio scritto in lettere sconosciute
su tavolette d’oro. Nessuno riusciva a decifrare la scrittura, finché il Tashi
Lama non entrò nel tempio, si pose le tavolette sul capo e iniziò a pregare.
Attraverso la preghiera, i pensieri del Re del Mondo penetrarono nel suo
cervello, permettendogli di comprendere e attuare il messaggio.
Fu con il libro di Ossendowski che il mito e l’idea di Agartha esplosero
definitivamente. Bestie, Uomini e Dei diventa un bestseller, influenza
occultisti, scrittori e – cosa nota – anche i gerarchi nazisti. La spedizione
tedesca del 1938 in Tibet cercava il mitico regno dell’Agartha tentando di
dimostrare la Teoria della Cosmogonia Glaciale. Il fascino per l’Agartha da
parte del Terzo Reich non era casuale. L’idea di una stirpe superiore nascosta
nelle viscere della Terra, depositaria di saperi arcani e di poteri
soprannaturali, si sposava perfettamente con alcune derive völkisch.
Il mistero dell’Agartha continua a ossessionare l’immaginazione
collettiva. Ossendowski intraprese un viaggio epico attraverso l’Asia Centrale,
registrando non solo le sfide ma anche i misteri e le credenze che permearono
queste terre. Che sia verità o finzione, il racconto del polacco che fugge dai
bolscevichi, incontra non l’armata bianca ma il Barone pazzo e la sua setta di
visionari e, infine, discende nelle viscere della terra per conoscere il Re del
Mondo, resta uno degli immaginari più affascinanti e suggestivi nell’incontro
tra Oriente e Occidente, nella guerra tra materialismo e spiritualità, qualcuno
direbbe tra Storia e Mito.
> “Il Re del Mondo apparirà al cospetto di tutte le genti quando per lui verrà
> il momento di guidare tutti i popoli buoni del mondo contro i cattivi; ma
> questo tempo non è ancora giunto. Il più malvagio degli umani non è ancora
> nato”
Andrea Falco Profili
*In copertina: una mappa tratta dal “Mundus subterraneus, quo universae denique
naturae divitiae” di Athanasius Kircher
L'articolo Tra storia e mito: il leggendario viaggio di Ossendowski alla ricerca
del Re del Mondo proviene da Pangea.
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Marlowe, poeta dal destino corsaro, forse spia, blasfemo per vocazione, morto
giovane in una rissa oscura – solo una mano del genere poteva partorire una
creatura come Tamerlano il Grande. Se Shakespeare è il mare, Marlowe è la
folgore. In Tamerlano il Grande, tragedia teatrale febbrile, il poeta raduna i
fuochi dell’universo per incoronare il potere come esercizio di estasi
poetica. Il pastore sciita ascende al trono del mondo non per diritto divino ma
per la forza esclusiva del verbo e della spada, che sono la stessa cosa: poesia
in atto, massacro come forma lirica estrema. Tamerlano è flagello, è astro nero
sorto a ustionare le retine dell’umanità quietata, un’opera che è un monumento
alla hybris che precede Nietzsche e ne divora già l’ombra. Tamerlano è un
profeta armato, un poeta in guerra contro la realtà. L’assurdità, la
sproporzione, la reiterazione dei suoi gesti non indicano difetti drammaturgici,
ma la tensione apocalittica verso l’assoluto. Tamerlano costruisce un altare per
trascendere la figura del generale geniale: vuole essere il logos che si fa
fuoco.
La vera chiave dell’opera, punto spesso trascurato, è che Tamerlano è prima di
tutto un poeta. Non nel senso manierato del termine, ma ritornando
all’origine: ποιητής, colui che crea, plasma la realtà con il linguaggio. Le sue
campagne militari sono versi in azione. Tamerlano conquista con la spada ciò che
ha già conquistato con l’immaginazione. La poesia, dunque, è l’essenza della sua
tirannia. Ma è una poesia dell’eccesso, dell’iperbole, della verticalità, una
poesia aristocratica.
“Ch’è la bellezza? Chiedono le mie angosce.
Se ogni penna che mai prese un poeta
ne avesse espresso tutto il sentimento,
e ogni dolcezza che su temi ammirati
ispirò i cuori e le menti e le Muse;
se ogni celeste quintessenza che stilla
dai loro fiori eterni di poesia
dove vediamo come in uno specchio
i più alti voli dell’ingegno umano;
se tutto fosse messo in una strofa
di combinata lode alla bellezza,
pur rimarrebbe in quelle teste inquiete
un pensiero, una grazia, uno stupore
che nessun’arte può dire in parole.
Ma quanto sono inadatti al mio sesso,
al mio mestiere d’armi e cavalleria,
al mio genio, al terrore del mio nome,
questi pensieri effemminati e deboli!
Salvo quel giusto applauso della bellezza,
col cui istinto ogni anima è dotata;
e ogni soldato rapito dall’amore
della fama, il coraggio e la vittoria
deve a volte pensare alla bellezza:
io che ci penso e tutt’e due soggiogo…
quel che ha abbassato la furia degli dèi
dall’igneo velo costellato del cielo
fino al fuoco gentile dei pastori
per vivere in capanne di paglia sparsa
io proverò, malgrado la mia nascita
che solo il merito porta alla gloria
e insegna all’uomo la nobiltà vera.”
Se si parla di morale in senso borghese, intesa come limite, non si può capire
Tamerlano. Qui si sta parlando dell’etica dell’incommensurabile. La tragedia non
insegna, non ammonisce, non migliora l’uomo. La tragedia lo costringe a guardare
il sole senza filtri e bruciare. Tamerlano è l’eroe della supremazia, rifiuta il
secondo posto, non perché voglia comandare, ma perché non può non farlo. Il
potere lo abita come una febbre, come un canto ossessivo.
Due sono le forze che reggono il mondo, scrive Machiavelli: la virtù e la
fortuna. Tamerlano le unisce in un terzo elemento, la poesia. La poesia di
Tamerlano è la forma ultima del potere, che non si misura col consenso ma col
timore, con l’incantamento, con la verticalità dell’estasi. La poesia è la forma
più assoluta di dominio perché non richiede eserciti, né leggi: le basta una
frase per instaurare un impero. Ecco perché Tamerlano, che è il re dei re, parla
come un dio. La sua è una teologia del desiderio, postula che l’anima umana non
sia fatta per la pace ma per la scalata, il riposo è peccato e la quiete è resa.
L’unico modo per onorare la vita è consumarla nell’azione. È l’espressione
teatrale di una visione del mondo premoderna e anti-egualitaria. Marlowe nella
figura del gran Tamerlano riunisce l’archetipo del conquistatore orientale e del
poeta prometeico.
Certo, c’è Zenocrate, la bellezza rapita che sembra addomesticare la furia, un
raggio di luna su un mattatoio. Ma la sua morte scatena un dolore che è ancora
delirio cosmico, guerra dichiarata agli dèi indifferenti o inesistenti.
Tamerlano brucia la città dove lei muore, sfida Maometto, si proclama “terrore
del mondo”, “flagello di Dio”.
> “Ma questo vostro viso celestiale
> è degno solo di chi vincerà l’Asia,
> e verrà detto il terrore del mondo
> e stenderà i confini del suo impero
> dall’est all’ovest come il corso di Febo”
Oltre al Dio delle scritture, convenientemente assente dal mondo che Marlowe
scuoia nelle parole del dominatore, l’unica forza dominatrice è proprio
Tamerlano, che si fa dio attraverso la negazione radicale di ogni limite, la
profanazione sistematica del sacro e dell’umano. Marlowe personifica così
l’archetipo del dominatore assoluto, è l’eruzione di una forza elementare che
cova sotto la crosta della civiltà come esigenza insopprimibile di grandezza
che, privata di sbocchi celesti, si fa titanismo infernale. Non vuole essere
apologia della tirannia, quanto la constatazione – tragica e grandiosa – che
certe forze esistono e che la poesia può essere strumento di dominio.
“Sete di regno, gioia di una corona,
che il figlio anziano di Opi in cielo indussero
a scacciare dal trono il vecchio padre
per sostituirlo nel cielo imperiale:
quello, mi spinse a dichiararti guerra.
Quale esempio migliore del grande Giove?
Natura che in noi mise quattro elementi
sempre in guerra nel petto per regnare,
ci insegna ad avere una mente ambiziosa;
l’anima nostra, le cui facoltà intendono
l’architettura stupenda del mondo
e misurano il corso dei pianeti,
sempre salendo a una scienza infinita,
sempre movendosi come le sfere inquiete,
vuole che ci esauriamo, senza riposo,
fino a raggiungere il frutto più maturo,
perfetta gioia, sola felicità,
dolce fruizione di una corona in terra.”
Ciò che Tamerlano ci lascia – se vogliamo parlare di lascito – è che la poesia è
l’unica forma tollerabile di tirannide. Perché essa non uccide nel nome
dell’interesse, ma della bellezza. E se c’è una morale, è che l’unico diritto
dell’uomo è quello di aspirare all’impossibile. Anche a costo della dannazione.
Christopher Marlowe ventenne, nel 1585
Tamerlano il Grande è un inno al divino che sopravvive nel cuore della barbarie.
È la lirica dell’eccesso, la liturgia del genius isolato. È una riflessione su
come la vera poesia non celebri la pace, ma la guerra, perché solo nel conflitto
si manifesta la grandezza. Come nella Bhagavadgītā, dove Krishna spinge Arjuna a
combattere per scoprire il proprio dharma, così Marlowe spinge il capo dello
spettatore dentro l’abisso a riconoscere al suo interno il proprio volto. Non si
tratta, ovvero, di capire Tamerlano, quanto di riconoscersi in lui. Possiamo
rinnegarlo con orrore, ma con la consapevolezza di ciò che incarna, la potenza
della parola, l’incanto dell’assoluto e il fascino del dominio inscritti nel
cuore stesso dell’uomo.
> “Ho il Destino ben saldo incatenato,
> faccio girare la ruota della Sorte,
> dovrà cadere il sole dalla sua sfera
> prima che Tamerlano sia morto o vinto.”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano,
tiranno-poeta proviene da Pangea.
Nell’età di mezzo, quando si parla di epica eroica si fa riferimento a qualcosa
di marmoreo, codificato, noto e arcinoto: le chansons carolingie, l’Orlando che
si immola a Roncisvalle per il suo sovrano, redivivo nella letteratura italiana;
El Cid, quel Rodrigo Diaz de Bivar che nella sua onorata sventura continua a
servire il suo sovrano. Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini
dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle
icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei
ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è
irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un
poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati
a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro.
Digenis Akritas è un titolo e un nome, aspro come l’uomo che designa: il “due
volte nato”, il “guardiano del confine”. Digenis, al battesimo Basilio, osserva
la frontiera dal suo avamposto sul fiume Eufrate, limite estremo di una Bisanzio
non ancora crepuscolare. Chi era l’Akrita Basilio? Figlio di un emiro siriano
convertito e di una nobildonna greca rapita – già nella sua carne, nel
sangue digenis, c’è l’ordalia del confine, lo scontro e l’abbraccio tra
Cristianità e Islam, tra due civiltà destinate a scrutarsi e scontrarsi – nasce
da questa unione ma cresce con coordinate salde, che non possono non essere la
crosta di Bisanzio, il gesto ieratico del pantocratore. Cresce distinguendosi
per le eccezionali doti fisiche: in piena adolescenza, iniziano le gesta
dell’eroe. L’eroe è sempre bastardo, non ha genealogie rassicuranti, non risiede
nel cuore dell’Impero ma ai suoi margini, dove la legge è eco lontana e la
civiltà si stempera nella ferocia del limes. La Bisanzio stessa che gli dona i
natali faticherebbe a riconoscerne i connotati come tale. La sua epopea non
celebra paladini immacolati al servizio di Dio e dell’Imperatore. Digenis è
scheggia impazzita, individualismo che rasenta l’asocialità, campione di un
onore selvatico che si misura nel ratto, nella razzia come esercizio di virilità
primordiale. L’Imperatore desidera conoscerlo, l’eroe orientale non si smuove,
che sia il sovrano a scomodarsi e raggiungerlo sulle rive dell’Eufrate «con
pochi soldati». Sorveglia un deserto pullulante di nemici: saraceni, gli
apelatai (i predoni delle montagne, fantasmi della libertà anarchica), persino
draghi e amazzoni evocati da un immaginario ancora intriso di mito pagano sotto
la patina cristiana. Non c’è netta contrapposizione etica tra lui e i suoi
nemici, agiscono sullo stesso piano, rispondono allo stesso codice ancestrale.
Digenis chiede addirittura di arruolarsi tra gli apelatai, rifiutando infine di
unirsi ai predoni solo dopo aver constatato la loro inferiorità fisica, la forza
è misura del diritto e del bene.
Poi c’è l’amore, un amore che è rapina, possesso, difesa gelosa. Non poteva
essere diversamente: il poema si apre con un ratto, quello della madre di
Digenis; la vicenda dell’eroe stesso è poi inaugurata dal ratto della sposa,
Eudokia.
> “La pernice prese il volo e l’afferrò il falcone.
> Dolcemente si baciavano…”
Alla celebrazione lirica dell’amor cortese si sostituisce l’affermazione di un
diritto primordiale, ferino quasi. Il codice d’onore impone di rapire la donna
amata e di difenderla dagli aggressori, che siano draghi, leoni o bande di
predoni. La lotta per la sposa è teatro di una competizione maschile feroce,
dove la donna è insieme premio e strumento per affermare la propria onorabilità
virile.
C’è anche un’altra faccia di Digenis: l’eroe cristiano, il timorato seminarista
– ruolo che mal s’addice all’eroe – tormentato dal peccato dopo aver compiuto
adulterio, essersene pentito e poi aver reiterato il misfatto nel canto
successivo, l’amore per Eudokia non è sufficiente a placarlo: il fuoco non può
ardere indefinitamente vicino all’erba, così si assolve mentre cede alla
tentazione con una principessa araba – poco fanno i kyrie eleison recitati con
il cuore colmo di sofferenza e ancor meno persuadono dopo aver ripetuto il gesto
con l’amazzone Maximò. Ma questa duplicità, schizofrenia apparente, non è
sintomo di labilità psicologica da lettino d’analisi. È lo stigma del poema
stesso, prodotto ibrido di due modelli culturali contrastanti e mai
perfettamente conciliati: l’arcaico eroe della frontiera, amorale e vitalistico
da un lato, dall’altro il più tardo archetipo dell’eroe cristiano. In Digenis
agiscono, sovrapposti e non fusi, questi due codici, generando cortocircuiti,
contraddizioni che sono la cifra più autentica e perturbante del personaggio. La
stessa storia della tradizione manoscritta del poema – con pochi codici
superstiti, dal più antico e rude dell’Escorial al più tardo e ingentilito di
Grottaferrata (dove aumentano le lodi all’imperatore e l’episodio degli apelatai
è omesso) – testimonia un lavorio incessante, un tentativo di addomesticare una
materia incandescente e ricondurre l’eroe bastardo entro schemi più
rassicuranti, più “letterari”.
Il crepuscolo dell’eroe è segnato dalla malattia, dalla consapevolezza del
declino fisico e dall’avvicinarsi della morte. La tradizione posteriore, in
particolare i canti popolari akritici, amplificherà questo momento finale,
immaginando un’ultima, titanica lotta di Digenis contro la morte personificata,
Charon o Thanatos. È l’unica battaglia che l’eroe è destinato a perdere. Questo
confronto finale con l’oblio rappresenta il limite invalicabile di ogni potenza
umana, la vanità ultima di ogni conquista terrena. La morte di Digenis,
descritta quasi come un anticlimax nel poema – con la moglie che opportunamente
spira prima di lui – distanzia ulteriormente questa epica da quella
convenzionale. Non c’è apoteosi finale, ma lo spegnersi di una forza immensa di
fronte all’inevitabile.
> “Vedete dove mai giace l’audacia del valore!
> Vedete dove mai giace il Digenis Akrita, il fiore dei Romei”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina proviene da
Pangea.