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“Devi cambiare la tua vita”. Rilke di fronte al torso arcaico di Apollo
Molte cose può la poesia: consolare, cullare ma – più delle altre – anche comandare. Chi entra in un museo – in questo caso il Louvre, dove i capolavori vanno in carcere e gli dèi all’obitorio – per cercare il sollievo borghese dell’estetica in una placida contemplazione del “bello”, ha già tradito tutto. Si muove orizzontalmente, come un turista dell’assoluto, e non verrà mai toccato dalla lama. Perché l’arte che ispira davvero è padrona e non ancella, lo sa bene chi in una statua o in un testo ieratico non ci ha visto un parere o un’interpretazione ma un giudizio. Un giudizio divino che fissando dal suo abisso marmoreo spoglia chi lo osserva. Ecco Rainer Maria Rilke davanti il Torso arcaico di Apollo. Un pezzo di pietra a cui la barbarie del tempo ha amputato la testa, le braccia e le gambe; è rimasto il nucleo del torso, un blocco tellurico che ne contiene il cuore. Eppure, c’è chi in questo più che una mancanza, ci ha visto una potenza accresciuta, una folgore contenuta in quel petto mozzo di ogni arto. La critica si è arrovellata per decenni, producendo biblioteche di esegesi flaccide, tentando di addomesticare quella violenza finale traducendola in inoffensivo gergo psicologico, in un invito a essere “più buoni”, “più consapevoli”. Non volevano vedere nulla. Gli dèi dettano ordini, non suggerimenti, lo sa Rilke e certamente, lo sa anche Apollo. L’imperativo che chiude il sonetto – “Devi cambiare la tua vita” – è un decreto divino, non derubricabile ad un mite consiglio amichevole.  La prima fondamentale operazione che questo torso compie è un atto di iconoclastia sublime annientando il suo stesso volto. La testa, con la sua mimica delle labbra e con i suoi occhi che si dice siano ponte per l’anima, è stata decapitata. Ma non si tratta di una perdita, chiaramente è una purificazione che emenda Apollo della maschera dell’Io e di ogni teatro emotivo umano. Si tratta di emendare il corpo dal logos cerebrale, che tutto vuole spiegare e ridurre a concetto. L’assenza della testa permette al corpo di diventare esso stesso sguardo totale. Rilke osserva come il torso, anche sprovvisto di occhi, ha uno sguardo simile a una stella che osserva da ogni punto della sua superficie. Altrimenti, sarebbe una pietra deforme e monca, ma non lo è; è intera metafisicamente, prima che anatomicamente. Lo sguardo di Apollo non emana più da un centro, ma si irradia dall’intera massa. È uno sguardo panottico-somatico di una divinità che non si esprime più attraverso un volto umano, ma per mezzo della tensione pura della forma. Il marmo trasuda luce e brilla come un candelabro sacro, la cui energia interna preme contro i confini della pietra fino a farla esplodere di incandescenza. Questo è un dio apocrifo, che non ha nulla della ragione apollinea e che invece ha assorbito la potenza dionisiaca. Rilke legge il torso di Apollo in maniera verticale. L’uomo orizzontale consuma arte come consuma cibo, la giudica passivamente e la recensisce con aggettivi esausti senza lasciarsi ferire o accettarne i comandi. Il torso che descrive Rilke, invece, irrompe su questo piano e impone l’incontro con il sacro e con una bellezza che non ammette neutralità. Si è costretti a prendere una posizione per elevarsi o annichilirsi, ma il torso apollineo diviene in ogni caso un maestro di una ginnastica spirituale. Il museo trae in inganno l’osservatore: il torso non è lì per essere ammirato ma per essere imitato nel campo di battaglia della propria esistenza. L’imperativo “Du mußt dein Leben ändern”, l’enfasi è sulla parola finale che – in tedesco si lega ad andere, altro – chiede l’alterità, rendere la propria vita altro. Cambiare la propria vita è il fondamento di ogni ascesi e disciplina, di ogni aristocrazia dello spirito. È il comando che sente il monaco nella sua cella e che l’atleta percepisce nello spasmo dei muscoli, un richiamo all’ordine, alla forma e al rifiuto del caso informe della vita biologica. Vivere orizzontalmente significa subire la propria esistenza, fluttuare secondo le correnti delle passioni e delle mode. Vivere verticalmente significa imporre una forma alla propria vita e farne un’opera, significa – in altre parole – praticare. Fu Sloterdijk a cogliere questo nucleo nella poesia. Rilke stava promulgando la legge fondamentale dell’antropotecnica: l’uomo è l’animale che si auto-impone discipline sovrumane per non restare semplicemente umano. La storia della civiltà non è la storia del progresso sociale, ma la storia degli esercizi che gli uomini hanno inventato per costringersi a diventare qualcosa di più. Dallo yoga alla filosofia stoica, dalla maratona alla meditazione, la posta in gioco è sempre la stessa: creare una tensione verticale, che distanzi ciò che si è da ciò che si deve essere. Il torso apollineo è latore di questa etica feroce, accusa con la sua bellezza, ci guarda e ci vede flaccidi, informi e indulgenti con noi stessi. Ci vede annegare e nella sua perfezione muta, ordina di smetterla di lamentarsi e di opinare per iniziare, finalmente, a praticare. Scolpire la propria giornata come uno scultore scolpisce la pietra. Imporsi un rigore affinché la morale non sia volgarmente intesa come un catalogo di divieti, ma come un’estetica della condotta. Il bene non è ciò che è giusto, ma ciò che ha forma. Rilke mette in pratica una controrivoluzione spirituale riconoscendo nell’opera d’arte una forma autocratica che esige obbedienza. Il suo messaggio è un imperativo estetico: la propria vita, così com’è, è inaccettabile. È un’opera mancata, insufficiente ed amorfa. Ora che si è stati visti, trafitti dalla luce del dio, non ci sono più alibi. Ciò a cui il poema chiama, in ultima istanza, è il superamento della sterile dialettica tra Apollo e Dioniso, ordine e caos, una dicotomia che ha nutrito la filosofia occidentale da Nietzsche in poi. Il Torsonon è semplicemente apollineo nella sua perfezione formale. Al suo interno, come nota Rilke, la pietra “flimmert… wie Raubtierfelle”, scintilla come pelle di belva, e il suo potere è pronto a straripare da ogni suo contorno. Questa non è chiaramente la fredda geometria del dio del rigore. È una forma che a stento contiene un’energia selvaggia e primordiale. L’Apollo che osserva Rilke è un punto di fusione tra la disciplina più rigorosa, la perfezione di quel torace sospeso, ed una vitalità sfrenata contenuta al suo interno, un dio che non ha mai essenzialmente abbandonato la statua che abitava. Questa è la tirannia benefica dell’Oggetto, Rilke mette in atto una sovversione gerarchica: non è lo spettatore a guardare l’opera, ma è l’opera che lo plasma. L’unica risposta degna a tale Epifania è la scelta di un’ascesi. Il torso non ha più il volto perché ora il suo volto è il nostro, e ci chiede cosa ne stiamo facendo. Tutto il resto è intellettualismo, e l’intelletto oggi più che mai, non serve a nulla. “Non conoscevamo il suo capo inaudito in cui maturarono i pomi oculari. Ma il suo torso ancora arde come un candelabro, dove il suo sguardo, ormai scorciato, si conserva e risplende. Non potrebbe sennò la curva del suo petto abbagliarti, e scorrendo la torsione delicata dei lombi non riuscirebbe un sorriso a posarsi su quel luogo centrale cui spettava la procreazione. Sarebbe sennò deforme questa pietra e corta sotto lo spiovere invisibile delle spalle, e non tremolerebbe come pelo di belva feroce; e non irradierebbe da ogni suo contorno come una stella: perché non v’è punto qui che non ti veda. Devi cambiare la tua vita.” Andrea Falco Profili L'articolo “Devi cambiare la tua vita”. Rilke di fronte al torso arcaico di Apollo proviene da Pangea.
November 5, 2025 / Pangea
Tra storia e mito: il leggendario viaggio di Ossendowski alla ricerca del Re del Mondo
Uno scienziato polacco in Asia, un positivista tra gli idoli e gli asceti, fugge dal materialismo dentro le viscere della terra. Questa è la vertigine che prende l’anima quando si sfoglia Bestie, Uomini e Dei, l’opera maledetta di Ferdinand Ossendowski. Sono pagine che danzano tra la rivelazione e l’eresia. Siamo nel 1922, l’Europa lecca ancora le ferite della Grande Guerra, e questo polacco esploratore e fuggitivo scaraventa nel mercato editoriale occidentale un’avventura che – forse mai avvenuta, almeno così come narrata – popolarizza un immaginario fino ad allora non esoterico, ma inscrutabile. La storia inizia con una fuga. Sempre con una fuga iniziano le grandi apocalissi. Ossendowski scappa dai bolscevichi, attraversa la Siberia ghiacciata alla ricerca di uno spiazzo sicuro, ma ciò che trova è molto più inquietante: il Regno sotterraneo dell’Agartha e il suo enigmatico sovrano, il Re del Mondo. Un’entità che governa l’umanità dalle profondità della Terra, tirando i fili invisibili della storia come un burattinaio cosmico. Nel cuore della Mongolia devastata, Ossendowski incontra Roman von Ungern-Sternberg, figura onirica che sembra uscita da un incubo sciamanico. Il barone, membro di una famiglia protestante con radici vichinghe – così riporterà Julius Evola nella prefazione –, si è trasformato in una sorta di messia guerriero, convinto di essere lo strumento del destino orientale. Ungern non combatte per la politica, ma per un’escatologia più alta. Consulta lama e oracoli prima di ogni battaglia, vive in uno stato di ascesi guerriera che terrorizza anche i suoi seguaci mongoli.  Nel 1939, Heinrich Harrer avrebbe tentato di scalare il Nanga Parbat per onorare la Germania, ma già negli anni ’20 il fascino magnetico dell’Oriente esoterico aveva catturato l’immaginazione europea. Ungern cattura Urga (l’odierna Ulaanbaatar) nel 1921, restaura il Bogd Khan, l’ultimo sovrano buddhista della Mongolia, ma la sua parabola dura pochi mesi. L’Armata Rossa lo cattura e lo fucila, ma il seme delle sue visioni continua a germinare nell’anima di Ossendowski. > “Morirò! Morirò!… Ma non importa, non importa… La causa è sulla buona strada e > non perirà con me… So che vie seguirà la causa. Le tribù dei successori di > Gengis Khan si sono destate. Nessuno potrà mai spegnere il fuoco che arde nel > cuore dei mongoli! In Asia sorgerà un grande Stato esteso dal Pacifico > all’Oceano Indiano e fino alle rive del Volga. La saggia religione del Buddha > si espanderà al Nord e all’Ovest. Sarà la vittoria dello spirito.” L’Agartha di Ossendowski non nasce dal nulla. Il concetto era già stato sviluppato da scrittori occultisti come Saint-Yves d’Alveydre, che aveva descritto Agartha come un regno ancora esistente all’interno della Terra, raggiungibile attraverso la proiezione astrale. Ma il polacco pretende di aver sentito queste storie direttamente dalle fonti orientali, dai lama tibetani e dai saggi mongoli. Una testimonianza, vera o fasulla che sia, che possiede una forza suggestiva impressionante. Spesso collegata alla teoria della Terra cava, Agartha è descritta come un regno nascosto abitato da esseri avanzati che possiedono una saggezza profonda. Le tradizioni induiste parlano di Shambhala, il regno nascosto della saggezza. Nicholas Roerich, filosofo ed etnologo russo, rimase scioccato nel 1926 quando, attraversando le montagne dell’Asia Centrale, lui e le sue guide videro un incredibile globo dorato che fluttuava nel cielo. Ma l’Agartha di Ossendowski è diversa dalla Shambhala di Roerich. Quest’ultimo vedeva il regno nascosto come una promessa di evoluzione spirituale, legata al New Age e all’avvento di una civiltà più illuminata. Ossendowski, invece, dipinge Agartha come un centro di potere che governa il mondo in segreto, una teocrazia sotterranea che muove le pedine della Storia dall’ombra. Le testimonianze che Ossendowski raccoglie sono di una potenza visionaria sconvolgente. Un lama gli racconta che il Re del Mondo è apparso cinque volte durante le antiche festività buddiste in Siam e India, viaggiando su un carro splendido trainato da elefanti bianchi ornati d’oro. Portava un mantello bianco e una corona rossa, da cui pendevano frange di diamanti che gli coprivano il volto. Benediceva il popolo con una mela d’oro sormontata da un agnello. I ciechi riacquistavano la vista, i sordi l’udito, i malati camminavano e i morti uscivano dalle tombe ovunque passasse il Re del Mondo. Centoquarant’anni prima della testimonianza del lama, il sovrano sotterraneo era apparso a Erdeni-Dzu e aveva visitato i monasteri di Sakkia e Narabanchi Kure. Uno dei Buddha incarnati e il Tashi Lama ricevettero da lui un messaggio scritto in lettere sconosciute su tavolette d’oro. Nessuno riusciva a decifrare la scrittura, finché il Tashi Lama non entrò nel tempio, si pose le tavolette sul capo e iniziò a pregare. Attraverso la preghiera, i pensieri del Re del Mondo penetrarono nel suo cervello, permettendogli di comprendere e attuare il messaggio. Fu con il libro di Ossendowski che il mito e l’idea di Agartha esplosero definitivamente. Bestie, Uomini e Dei diventa un bestseller, influenza occultisti, scrittori e – cosa nota – anche i gerarchi nazisti. La spedizione tedesca del 1938 in Tibet cercava il mitico regno dell’Agartha tentando di dimostrare la Teoria della Cosmogonia Glaciale. Il fascino per l’Agartha da parte del Terzo Reich non era casuale. L’idea di una stirpe superiore nascosta nelle viscere della Terra, depositaria di saperi arcani e di poteri soprannaturali, si sposava perfettamente con alcune derive völkisch. Il mistero dell’Agartha continua a ossessionare l’immaginazione collettiva. Ossendowski intraprese un viaggio epico attraverso l’Asia Centrale, registrando non solo le sfide ma anche i misteri e le credenze che permearono queste terre. Che sia verità o finzione, il racconto del polacco che fugge dai bolscevichi, incontra non l’armata bianca ma il Barone pazzo e la sua setta di visionari e, infine, discende nelle viscere della terra per conoscere il Re del Mondo, resta uno degli immaginari più affascinanti e suggestivi nell’incontro tra Oriente e Occidente, nella guerra tra materialismo e spiritualità, qualcuno direbbe tra Storia e Mito. > “Il Re del Mondo apparirà al cospetto di tutte le genti quando per lui verrà > il momento di guidare tutti i popoli buoni del mondo contro i cattivi; ma > questo tempo non è ancora giunto. Il più malvagio degli umani non è ancora > nato” Andrea Falco Profili *In copertina: una mappa tratta dal “Mundus subterraneus, quo universae denique naturae divitiae” di Athanasius Kircher L'articolo Tra storia e mito: il leggendario viaggio di Ossendowski alla ricerca del Re del Mondo proviene da Pangea.
August 14, 2025 / Pangea
“Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano, tiranno-poeta
Marlowe, poeta dal destino corsaro, forse spia, blasfemo per vocazione, morto giovane in una rissa oscura – solo una mano del genere poteva partorire una creatura come Tamerlano il Grande. Se Shakespeare è il mare, Marlowe è la folgore. In Tamerlano il Grande, tragedia teatrale febbrile, il poeta raduna i fuochi dell’universo per incoronare il potere come esercizio di estasi poetica. Il pastore sciita ascende al trono del mondo non per diritto divino ma per la forza esclusiva del verbo e della spada, che sono la stessa cosa: poesia in atto, massacro come forma lirica estrema. Tamerlano è flagello, è astro nero sorto a ustionare le retine dell’umanità quietata, un’opera che è un monumento alla hybris che precede Nietzsche e ne divora già l’ombra. Tamerlano è un profeta armato, un poeta in guerra contro la realtà. L’assurdità, la sproporzione, la reiterazione dei suoi gesti non indicano difetti drammaturgici, ma la tensione apocalittica verso l’assoluto. Tamerlano costruisce un altare per trascendere la figura del generale geniale: vuole essere il logos che si fa fuoco. La vera chiave dell’opera, punto spesso trascurato, è che Tamerlano è prima di tutto un poeta. Non nel senso manierato del termine, ma ritornando all’origine: ποιητής, colui che crea, plasma la realtà con il linguaggio. Le sue campagne militari sono versi in azione. Tamerlano conquista con la spada ciò che ha già conquistato con l’immaginazione. La poesia, dunque, è l’essenza della sua tirannia. Ma è una poesia dell’eccesso, dell’iperbole, della verticalità, una poesia aristocratica. “Ch’è la bellezza? Chiedono le mie angosce. Se ogni penna che mai prese un poeta ne avesse espresso tutto il sentimento, e ogni dolcezza che su temi ammirati ispirò i cuori e le menti e le Muse; se ogni celeste quintessenza che stilla dai loro fiori eterni di poesia dove vediamo come in uno specchio i più alti voli dell’ingegno umano; se tutto fosse messo in una strofa di combinata lode alla bellezza, pur rimarrebbe in quelle teste inquiete un pensiero, una grazia, uno stupore che nessun’arte può dire in parole. Ma quanto sono inadatti al mio sesso, al mio mestiere d’armi e cavalleria, al mio genio, al terrore del mio nome, questi pensieri effemminati e deboli! Salvo quel giusto applauso della bellezza, col cui istinto ogni anima è dotata; e ogni soldato rapito dall’amore della fama, il coraggio e la vittoria deve a volte pensare alla bellezza: io che ci penso e tutt’e due soggiogo… quel che ha abbassato la furia degli dèi dall’igneo velo costellato del cielo fino al fuoco gentile dei pastori per vivere in capanne di paglia sparsa io proverò, malgrado la mia nascita che solo il merito porta alla gloria e insegna all’uomo la nobiltà vera.” Se si parla di morale in senso borghese, intesa come limite, non si può capire Tamerlano. Qui si sta parlando dell’etica dell’incommensurabile. La tragedia non insegna, non ammonisce, non migliora l’uomo. La tragedia lo costringe a guardare il sole senza filtri e bruciare. Tamerlano è l’eroe della supremazia, rifiuta il secondo posto, non perché voglia comandare, ma perché non può non farlo. Il potere lo abita come una febbre, come un canto ossessivo. Due sono le forze che reggono il mondo, scrive Machiavelli: la virtù e la fortuna. Tamerlano le unisce in un terzo elemento, la poesia. La poesia di Tamerlano è la forma ultima del potere, che non si misura col consenso ma col timore, con l’incantamento, con la verticalità dell’estasi. La poesia è la forma più assoluta di dominio perché non richiede eserciti, né leggi: le basta una frase per instaurare un impero. Ecco perché Tamerlano, che è il re dei re, parla come un dio. La sua è una teologia del desiderio, postula che l’anima umana non sia fatta per la pace ma per la scalata, il riposo è peccato e la quiete è resa. L’unico modo per onorare la vita è consumarla nell’azione. È l’espressione teatrale di una visione del mondo premoderna e anti-egualitaria. Marlowe nella figura del gran Tamerlano riunisce l’archetipo del conquistatore orientale e del poeta prometeico.  Certo, c’è Zenocrate, la bellezza rapita che sembra addomesticare la furia, un raggio di luna su un mattatoio. Ma la sua morte scatena un dolore che è ancora delirio cosmico, guerra dichiarata agli dèi indifferenti o inesistenti. Tamerlano brucia la città dove lei muore, sfida Maometto, si proclama “terrore del mondo”, “flagello di Dio”. > “Ma questo vostro viso celestiale > è degno solo di chi vincerà l’Asia, > e verrà detto il terrore del mondo > e stenderà i confini del suo impero > dall’est all’ovest come il corso di Febo” Oltre al Dio delle scritture, convenientemente assente dal mondo che Marlowe scuoia nelle parole del dominatore, l’unica forza dominatrice è proprio Tamerlano, che si fa dio attraverso la negazione radicale di ogni limite, la profanazione sistematica del sacro e dell’umano. Marlowe personifica così l’archetipo del dominatore assoluto, è l’eruzione di una forza elementare che cova sotto la crosta della civiltà come esigenza insopprimibile di grandezza che, privata di sbocchi celesti, si fa titanismo infernale. Non vuole essere apologia della tirannia, quanto la constatazione – tragica e grandiosa – che certe forze esistono e che la poesia può essere strumento di dominio. “Sete di regno, gioia di una corona, che il figlio anziano di Opi in cielo indussero a scacciare dal trono il vecchio padre per sostituirlo nel cielo imperiale: quello, mi spinse a dichiararti guerra. Quale esempio migliore del grande Giove? Natura che in noi mise quattro elementi sempre in guerra nel petto per regnare, ci insegna ad avere una mente ambiziosa; l’anima nostra, le cui facoltà intendono l’architettura stupenda del mondo e misurano il corso dei pianeti, sempre salendo a una scienza infinita, sempre movendosi come le sfere inquiete, vuole che ci esauriamo, senza riposo, fino a raggiungere il frutto più maturo, perfetta gioia, sola felicità, dolce fruizione di una corona in terra.” Ciò che Tamerlano ci lascia – se vogliamo parlare di lascito – è che la poesia è l’unica forma tollerabile di tirannide. Perché essa non uccide nel nome dell’interesse, ma della bellezza. E se c’è una morale, è che l’unico diritto dell’uomo è quello di aspirare all’impossibile. Anche a costo della dannazione. Christopher Marlowe ventenne, nel 1585 Tamerlano il Grande è un inno al divino che sopravvive nel cuore della barbarie. È la lirica dell’eccesso, la liturgia del genius isolato. È una riflessione su come la vera poesia non celebri la pace, ma la guerra, perché solo nel conflitto si manifesta la grandezza. Come nella Bhagavadgītā, dove Krishna spinge Arjuna a combattere per scoprire il proprio dharma, così Marlowe spinge il capo dello spettatore dentro l’abisso a riconoscere al suo interno il proprio volto. Non si tratta, ovvero, di capire Tamerlano, quanto di riconoscersi in lui. Possiamo rinnegarlo con orrore, ma con la consapevolezza di ciò che incarna, la potenza della parola, l’incanto dell’assoluto e il fascino del dominio inscritti nel cuore stesso dell’uomo. > “Ho il Destino ben saldo incatenato, > faccio girare la ruota della Sorte, > dovrà cadere il sole dalla sua sfera > prima che Tamerlano sia morto o vinto.” Andrea Falco Profili L'articolo “Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano, tiranno-poeta proviene da Pangea.
June 5, 2025 / Pangea
“Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina
Nell’età di mezzo, quando si parla di epica eroica si fa riferimento a qualcosa di marmoreo, codificato, noto e arcinoto: le chansons carolingie, l’Orlando che si immola a Roncisvalle per il suo sovrano, redivivo nella letteratura italiana; El Cid, quel Rodrigo Diaz de Bivar che nella sua onorata sventura continua a servire il suo sovrano. Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro. Digenis Akritas è un titolo e un nome, aspro come l’uomo che designa: il “due volte nato”, il “guardiano del confine”. Digenis, al battesimo Basilio, osserva la frontiera dal suo avamposto sul fiume Eufrate, limite estremo di una Bisanzio non ancora crepuscolare. Chi era l’Akrita Basilio? Figlio di un emiro siriano convertito e di una nobildonna greca rapita – già nella sua carne, nel sangue digenis, c’è l’ordalia del confine, lo scontro e l’abbraccio tra Cristianità e Islam, tra due civiltà destinate a scrutarsi e scontrarsi – nasce da questa unione ma cresce con coordinate salde, che non possono non essere la crosta di Bisanzio, il gesto ieratico del pantocratore. Cresce distinguendosi per le eccezionali doti fisiche: in piena adolescenza, iniziano le gesta dell’eroe. L’eroe è sempre bastardo, non ha genealogie rassicuranti, non risiede nel cuore dell’Impero ma ai suoi margini, dove la legge è eco lontana e la civiltà si stempera nella ferocia del limes. La Bisanzio stessa che gli dona i natali faticherebbe a riconoscerne i connotati come tale. La sua epopea non celebra paladini immacolati al servizio di Dio e dell’Imperatore. Digenis è scheggia impazzita, individualismo che rasenta l’asocialità, campione di un onore selvatico che si misura nel ratto, nella razzia come esercizio di virilità primordiale. L’Imperatore desidera conoscerlo, l’eroe orientale non si smuove, che sia il sovrano a scomodarsi e raggiungerlo sulle rive dell’Eufrate «con pochi soldati». Sorveglia un deserto pullulante di nemici: saraceni, gli apelatai (i predoni delle montagne, fantasmi della libertà anarchica), persino draghi e amazzoni evocati da un immaginario ancora intriso di mito pagano sotto la patina cristiana. Non c’è netta contrapposizione etica tra lui e i suoi nemici, agiscono sullo stesso piano, rispondono allo stesso codice ancestrale. Digenis chiede addirittura di arruolarsi tra gli apelatai, rifiutando infine di unirsi ai predoni solo dopo aver constatato la loro inferiorità fisica, la forza è misura del diritto e del bene. Poi c’è l’amore, un amore che è rapina, possesso, difesa gelosa. Non poteva essere diversamente: il poema si apre con un ratto, quello della madre di Digenis; la vicenda dell’eroe stesso è poi inaugurata dal ratto della sposa, Eudokia. > “La pernice prese il volo e l’afferrò il falcone.  > Dolcemente si baciavano…” Alla celebrazione lirica dell’amor cortese si sostituisce l’affermazione di un diritto primordiale, ferino quasi. Il codice d’onore impone di rapire la donna amata e di difenderla dagli aggressori, che siano draghi, leoni o bande di predoni. La lotta per la sposa è teatro di una competizione maschile feroce, dove la donna è insieme premio e strumento per affermare la propria onorabilità virile. C’è anche un’altra faccia di Digenis: l’eroe cristiano, il timorato seminarista – ruolo che mal s’addice all’eroe – tormentato dal peccato dopo aver compiuto adulterio, essersene pentito e poi aver reiterato il misfatto nel canto successivo, l’amore per Eudokia non è sufficiente a placarlo: il fuoco non può ardere indefinitamente vicino all’erba, così si assolve mentre cede alla tentazione con una principessa araba – poco fanno i kyrie eleison recitati con il cuore colmo di sofferenza e ancor meno persuadono dopo aver ripetuto il gesto con l’amazzone Maximò. Ma questa duplicità, schizofrenia apparente, non è sintomo di labilità psicologica da lettino d’analisi. È lo stigma del poema stesso, prodotto ibrido di due modelli culturali contrastanti e mai perfettamente conciliati: l’arcaico eroe della frontiera, amorale e vitalistico da un lato, dall’altro il più tardo archetipo dell’eroe cristiano. In Digenis agiscono, sovrapposti e non fusi, questi due codici, generando cortocircuiti, contraddizioni che sono la cifra più autentica e perturbante del personaggio. La stessa storia della tradizione manoscritta del poema – con pochi codici superstiti, dal più antico e rude dell’Escorial al più tardo e ingentilito di Grottaferrata (dove aumentano le lodi all’imperatore e l’episodio degli apelatai è omesso) – testimonia un lavorio incessante, un tentativo di addomesticare una materia incandescente e ricondurre l’eroe bastardo entro schemi più rassicuranti, più “letterari”. Il crepuscolo dell’eroe è segnato dalla malattia, dalla consapevolezza del declino fisico e dall’avvicinarsi della morte. La tradizione posteriore, in particolare i canti popolari akritici, amplificherà questo momento finale, immaginando un’ultima, titanica lotta di Digenis contro la morte personificata, Charon o Thanatos. È l’unica battaglia che l’eroe è destinato a perdere. Questo confronto finale con l’oblio rappresenta il limite invalicabile di ogni potenza umana, la vanità ultima di ogni conquista terrena. La morte di Digenis, descritta quasi come un anticlimax nel poema – con la moglie che opportunamente spira prima di lui – distanzia ulteriormente questa epica da quella convenzionale. Non c’è apoteosi finale, ma lo spegnersi di una forza immensa di fronte all’inevitabile. > “Vedete dove mai giace l’audacia del valore!  > Vedete dove mai giace il Digenis Akrita, il fiore dei Romei” Andrea Falco Profili L'articolo “Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina proviene da Pangea.
May 3, 2025 / Pangea