
“Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della letteratura universale
Pangea - Thursday, November 6, 2025Per qualche tempo abbiamo duellato a colpi di WhatsApp. La discussione, impennata verso gli impossibili, deragliò quasi subito: gli domandai dell’anima, dell’eternità, del senso dell’arte, di Dio e dell’addio. Cristiano Godano ha pubblicato undici album con i Marlene Kuntz e quattro libri: il primo, I vivi (Rizzoli, 2008) è una raccolta di racconti; l’ultimo, Il suono della rabbia (il Saggiatore, 2024) è una raccolta di “Pensieri sulla musica e il mondo”. Nel suo terzo libro, Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, 2019), che sviscera “35 canzoni dei Marlene Kuntz”, Godano racconta di aver scoperto Vladimir Nabokov, il suo scrittore-idolo, “all’epoca di Catartica”, quell’album memorabile – “generazionale” come dicono gli studiosi – uscito nel 1994. Godano compiva ventotto anni, il disco era prodotto dal Consorzio Produttori Indipendenti di Gianni Maroccolo, Zamboni+Ferretti etc. e io imparavo a giocare a calcio guardando Roberto Baggio, il Bodhisattva del pallone, evangelizzare i mondiali americani.
Da lì nasce il nostro incontro. Da Vladimir Nabokov – per me, il conte Vlad della letteratura occidentale, il sommo vampiro: lo leggi e ti dissangua. Così, con Godano ci inoltriamo nei meandri di Fuoco pallido, il libro più estremo, estenuato di Nabokov; entrambi eleggiamo Intransigenze – la raccolta di corrosive e corroboranti interviste nabokoviane – a libro-totem. Insomma, diamo dimostrazione che anche WhatsApp, altrimenti umana camera degli orrori, di sbandierate banalità, può essere qualcosa di non troppo dissimile dal Fedone o da Macbeth. Entrambi – credo – crediamo che ogni verità vada temprata distruggendola; che occorra il coraggio di spogliarsi di ogni convinzione. Fare di sé il vento e il lupo, la pula e il pullulare di ululati.
Credo, piuttosto, che Cristiano Godano sia uno dei rari cantautori italiani – per un sano senso della sprezzatura e dello snobismo – non inquadrabile in schemi, non liquidabile in teoremi. Rifugge dai cliché della rockstar; ha in odio le grige manie degli ‘alternativi’ che – ormai altro da sé – fanno reddito con la malinconia, con l’epopea della giovinezza trascorsa. Gli album ‘in solitaria’ – Mi ero perso il cuore, 2020; Stammi accanto, 2025 – dicono di un artista che non si placa, inappagato, implacabile soprattutto verso se stesso, che ha imparato la voluttà di non piacere ai più. Chi è cresciuto ascoltando i Marlene Kuntz nella fetida periferia torinese, nei lividi Novanta – “Mi piacerebbe sai, sentirti piangere/ anche una lacrima, per pochi attimi” – sa che la sola speranza è spezzarsi, che la sola vita è precipitare.
Nel libro Nuotando nell’aria, Godano cita Borges e Rimbaud, Keats e Dostoevskij, scrive per trenta volte la parola “poesia” (molte più volte della parola “sesso”) e per ventisette volte la parola “poeta”; in venti circostanze appare Nick Cave, il suo prediletto. A chi gli dà del poeta, però, Godano risponde, perentorio, che “l’autore di testi per canzoni non è un poeta”, semmai “è potenzialmente un poeta mancato”. Fine della discussione.

A volte, Godano sembra decorarsi con le pose da doge del nulla: gli piace ripetere che deriviamo dai vermi e dai pesci, che l’uomo è un incidente di percorso nell’esistenza terrena, che la vita è spietata, che l’intelligenza è un sovrappiù di sfiga perché ci obbliga a indugiare sul dolore, che infine l’arte è niente. Che tutto, in fondo, finirà e nessun dio ci attende a bocca aperta negli altri mondi. Tutte cose che si sanno, che insaporiscono il discutere di zuccherine oscurità. In fondo, si ascolta una canzone per liquefarsi in un regno ulteriore della mente; in fondo, chi scrive una canzone è già al di là di questo mondo – che si dica salvezza, che si dica disperazione, che importa.
Se ti dico la parola “poesia” cosa ti viene in mente?
La famosa definizione di Paul Valéry sulla poesia (“La poesia è una lunga esitazione fra il suono e il significato”) mi è sempre piaciuta al punto da lasciarmene condizionare irrimediabilmente. Ed è ciò che mi sovviene ora a seguito della tua domanda. So che questo inizio di risposta è connesso alle specifiche necessità del creatore di versi più che al lettore, e immagino che solo un lettore molto allenato e consapevole possa avere una tale consapevolezza raffinata comprendendo la complessità del fare poesia. Dunque il lettore attento sa che la poesia ha un ritmo e ha un suono, e anche di questo gode leggendo, mentre il lettore meno strutturato ed esperto basa il suo gradimento principalmente sulle emozioni di natura sentimentale. Senza voler qua demonizzare questo tipo di emozioni, penso che si collochino a un livello inferiore nella scala del giudizio. Io, come lettore, dichiaro la mia non robusta frequentazione del genere: le leggo principalmente quando sono nel processo creativo per fare un disco nuovo, poiché in quel caso la contiguità del mio far versi per canzone con le esigenze del poeta nel suo verseggiare mi aiuta a connettermi con la specificità di ciò che sto per affrontare.
Penso che si è ottimi lettori di poesia quando si è dotati di immaginazione: a volte a me sembra di non averne a sufficienza. Detto da un sedicente artista è grave, lo so.
Nel tuo discutere e nei tuoi pezzi citi, tra i tanti, Borges (adoratissimo da Mick Jagger, per altro…), Baudelaire, Rimbaud, Gozzano, Montale… Viene fuori una specie di “Contro-Canone Godano” della letteratura. Proviamo a redigerlo una volta per tutte? Citami dieci libri che in qualche modo hanno orientato la tua vita – e perché.
Se la domanda è “i libri che hanno orientato la tua vita” sono spinto a nominare anche le opere non di finzione che sono state per me importanti. Premettendo che la più parte delle cose che ho letto è stata da me un po’ dimenticata, sto guardando in questo momento i miei libri (una parte, per lo meno) per cercare la risposta adatta; noto che molti di essi mi dicono “sì, mi leggesti tempo addietro”, e posso nominare: Lolita di Nabokov (letto due volte), Intransigenze di Nabokov (l’ho letto e riletto più volte), Fuoco pallido di Nabokov (letto due volte), La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (libro straziante), Fratello cicala di John Updike (una raccolta di racconti: mi approcciai a lui con questo libro, non certo il suo più famoso: rimasi incantato dalle qualità estetiche della sua scrittura), due o tre opere di Shakespeare contenute nello stesso libro dei ‘Meridiani’ (non importa quali: è la lettura di Shakespeare in sé che mi estasiò), Odile di Raymond Queneau (ero catturato dalle stranezze dell’Oulipo e dai tentativi di commistione matematica-letteratura), Scritti sull’artedi Paul Valéry (raccolta di micro-saggi che influenzarono molto il mio pensiero in costruzione), Sulla poesia di Eugenio Montale (raccolta di micro-saggi, idem come per Valéry), alcuni racconti e le poesie di Borges (raccolti anch’essi nei ‘Meridiani’: mi affascinavano i labirinti di Borges, ma anche le qualità riflessivo-filosofiche della sua poesia), Nera schiena del tempo di Javier Marías (ricordo che mi catturò molto: ero immerso in qualche processo creativo per un disco dei Marlene).

C’è poi – lo abbiamo capito mentre compulsavi il tuo “canone” privato – la conclamata passione per Nabokov. Da dove nasce e perché è per te fonte di ispirazione?
La mia passione per lui nasce con la lettura di Lolita e, subito dopo, con quella di Intransigenze, spassosa e serissima al contempo raccolta di interviste che rilasciò soprattutto dopo il successo di Lolita. Intransigenze fu un magnifico regalo che mi fece colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio: se già Lolita mi aveva appassionato per via di uno stile che recepii immediatamente e del tutto istintivamente come magnifico, con Intransigenze mi addentrai nell’abbagliante personalità di Nabokov, innamorandomene. Penso che Nabokov sia il classico caso di “o lo ami o lo odi”: non tutti amerebbero sentire uno scrittore sbeffeggiare Dostoevskij o Faulkner o Thomas Mann o Balzac, per dire… Ammetto di essere affascinato dalla forza tonitruante di certe opinioni: ci vuole coraggio ad averle, e lui aveva coraggio da vendere. I libri fondamentali per me, sottolineando che non ho letto Ada (lo temo!) e altri tre o quattro, sono Lolita, Fuoco pallido, Invito a una decapitazione, Il dono, Parla ricordo, La vera vita di Sebastian Knight. E Pnin, per ridere tanto.
Il mondo rigurgita di orrori. Un manipolo di vecchi si sta bombardando con una violenza equiparata alla vile scaltrezza. Che senso ha fare arte, allora? Che senso ha la ‘bellezza’?
Siamo in un momento esacerbato, e cieco, e sordo: polarizzati e sempre più incazzati vediamo il bianco o il nero e non siamo più disposti a comprendere le sfumature, quelle che la tanto vituperata democrazia ci aveva insegnato con la sua inevitabile pazienza, che non c’è più. L’arte temo possa fare poco. O perlomeno: a livello individuale può fare tantissimo (io ad esempio spero che non manchi molto al mio rifugiarmi in essa per fuggire dallo schifo intorno), ma a livello di possibilità di ergersi a barriera del deragliamento temo di no, che non possa farcela. Rileggo meglio la tua domanda: “che senso ha fare arte?” Beh, come minimo può aiutare chi la fa a sganciarsi da questo pessimo mondo: è una condizione a cui, come ho detto qua sopra, idealmente ambisco. Non so se ci riuscirò: è un auspicio.
Nel tuo ultimo album, Stammi accanto, intuisco, consapevole o meno, una qualche ricerca del sacro, un andare verso l’altro, l’oltre. È così? Siamo solo pappa per vermi? Cosa resta di ciò che abbiamo fatto, vissuto, scritto?
Ci dev’essere qualche contraddizione in me, perché spesso mi si fa notare che nonostante tutte le mie tiritere pessimiste i miei testi palesano una spiritualità di qualche tipo, o ricerca del sacro, come dici tu… Forse quando solletico il mio afflato scateno qualcosa dentro di me che lotta in sottotraccia per non farsi vessare dal raziocinio: una latenza pronta a farsi viva quando ritiene utile… O è semplicemente la mia parte più vera, che non sa arrendersi nonostante tutto alla dialettica stringente della ragione. Non so che dire: in Stammi accantoc’è una canzone, peraltro la mia preferita, che si chiama Cerco il nulla, dove mi pare di esprimere un non so che piuttosto lontano dal sacro. Ho solo 59 anni, tempo per vederci meglio e capirmi meglio ne ho ancora…
*In copertina: Cristiano Godano nel ritratto fotografico di Antonio Viscido
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