“La convinzione ostinata”. Abbandonarsi al bene: tra rapimento e dolore

Pangea - Monday, December 1, 2025

Questa mattina ho aperto gli occhi ancor prima che l’alba sorgesse, e sono rimasta a letto diverso tempo, immersa in una sorta di dormiveglia agitato, una cosa che mi è capitata spesso nelle ultime notti. Quando poi la sveglia è suonata mi sono alzata e sono andata in bagno per prepararmi, con l’obbiettivo di andare alla lezione di yoga della mattina presto, alle sette. Lentamente, nel ripetere tutte le piccole abitudini mattutine (andare in bagno, lavarmi il viso, poi fare qualche minuto di meditazione, ad occhi chiusi, in piedi di fronte allo specchio), mi sono calmata, e ho sentito di entrare in una lenta e fiduciosa attesa: della luce, del giorno che sarebbe venuto.

Uscita dal portone al piano terreno ho attraversato la corte interna e, superato il cancello, sono sbucata in Campo Santa Margherita, qui a Venezia. Il cielo era ancora di un blu intenso notturno, e solo un lieve chiarore rivelava l’imminente sorgere del giorno. La luna, illuminata e affilata come un’unghia bianchissima, esibiva in silenzio la sua eleganza, in mezzo a un cielo terso, ancora tempestato di stelle. Da qualche parte – al di là delle case che s’impongono sopra le calli, al di là dei canali e del tratto di laguna che separa Venezia dal Lido – il sole, con la sua maestosità mai invecchiata, stava sorgendo sull’orizzonte, lungo la linea del mare. Mi dirigevo verso il centro di yoga, rinvigorita dall’aria pungente che elettrifica l’aria di prima mattina, e mi figuravo questo spettacolo che silenziosamente avveniva in quei luoghi vicini, senza che io lo potessi vedere. Camminando cercavo di fare tesoro di quel profondo raccoglimento in cui già mi ero immersa, e mi riproponevo di custodirlo anche per il resto del giorno, senza lasciare che si dissipasse. 

Mi era prezioso tanto più per il fatto che gli ultimi giorni erano stati segnati da un’irrequietezza quasi costante, in cui pochi e fragili momenti di pace erano guadagnati a fatica. La cosa peggiore di quando sono preda di questo stato è il fatto che mi accorgo immediatamente quando esso insorge, e inizio, per questo, ad agitarmi; a cercare disperatamente di risalire la china del precipizio in cui sono caduta, con l’obbiettivo di tornare in “quell’altro stato”. Durante quest’ultimo mi pare di stare immersa in una sorta di fiduciosa attesa, e sento che ogni mio gesto, intenzione e pensiero, sorge come spontaneo da dentro il mio animo: non devo far altro che accoglierlo, in tutta la sua giustezza e bellezza. In quei momenti mi sento come il generale Pëtr Petròvič Konovnìcyn: un personaggio che appare solo di sfuggita nella narrazione di Guerra e Pace, ma la cui descrizione mi aveva colpita profondamente. Tolstoj scrive di lui:

Nel suo animo c’era una profonda, inespressa convinzione che tutto sarebbe andato bene; ma a tale convinzione non bisognava credere, e tantomeno bisognava parlarne, ma bisognava fare solo il proprio dovere. Ed egli faceva il suo dovere, impegnandovi tutte le sue forze. 

È strano: in quei momenti sento di essere certamente io a compiere le mie azioni; e allo stesso tempo però è come se esse fossero guidate da qualcosa che è oltre, e molto più, di me. E tuttavia mi accorgo che è solo quando mi sento all’interno di questo “più di me” che mi sento davvero me stessa, che sento di aderire veramente a me stessa. Il resto del tempo è come se non sapessi dove fossi finita, e rimanesse solo una piccolissima parte di me che rimane agganciata a quell’altro stato, che permane solo sotto la forma di un ricordo, di una convinzione, a cui sento d’aggrapparmi con tutte le forze. 

*

In un libro che ho terminato di leggere poco tempo fa, l’autore, Robin Scroggs, biblista e teologo statunitense, descrive alla perfezione l’oscillazione di cui ho parlato. Riprende la distinzione fatta da San Paolo tra i termini “fede” e “speranza”, e scrive: 

Paolo non è così ingenuo da pensare che le persone vivano sempre nella gioia e nell’esuberanza della fede. È certamente consapevole che i membri delle sue congregazioni provino ansia, dubbi e mancanza di fiducia. Ciò significa che chi crede in una situazione del genere ha di nuovo cambiato mondo, è ricaduto nel mondo falso? Non necessariamente, perché il credente può ora aggrapparsi ostinatamente alla consapevolezza che il vero Dio esiste, che il vero mondo è una realtà, anche se al momento non lo sperimenta. Sì, la fede è esperienziale, ma non deve limitarsi alla sola esperienza. Si resta fedeli a quel mondo. Il termine usato da Paolo per questo impegno è “speranza.” In questo senso la speranza è tanto un’esperienza quanto la fede. Essa è la convinzione ostinata, in assenza dell’esperienza della pienezza, che esista davvero un mondo restaurato, reso realtà dall’atto di Dio in Cristo.

Io, più il tempo passa, più sento crescere in me questa “convinzione ostinata”: è come se sentissi di non nutrire più alcun dubbio a riguardo. Questo tuttavia non impedisce affatto il permanere degli altri stati – di dubbio, di rabbia, di paura – che a volte è come se ricoprissero la mia anima, l’accecassero e portassero a fondo col loro peso. 

Infinite volte mi interrogo sulle ragioni di questo oscillare: sul perché a tratti si riesca a vivere in una sorta d’estasi fiduciosa, e ci si senta avvolti da un mistero che, per quanto infinito e insondabile, rimane comunque un mistero d’amore; e a tratti invece questa realtà si dissolva, e venga sostituita da tutto quanto le è opposto, e in sua negazione: un mondo forse ben più conosciuto dell’altro, fatto di arrivismo, di rabbia, di competizione, sopraffazione. In quei momenti mi pare ci si senta separati da tutto: dagli altri, ma anche, e forse soprattutto, dalla propria stessa persona, che viene ad esser la prima e la più disprezzata di tutte le altre creature. È quando ricado di nuovo in questo stato penoso che inizio a guardare all’altro mondo (quello che Paolo, nel passo di Scroggs, definisce “vero”) come dall’esterno, desiderando con tutta me stessa di farvi ritorno, senza però riuscire a trovare, dentro al mio cuore, la mappa che possa condurvi.

È stato per questo che ormai da moltissimi mesi io ho iniziato a chiedermi, quasi in continuazione, quale fosse, in questo quadro che dentro al mio animo si era tracciato, il ruolo di Cristo. Questa domanda è come rimasta sospesa per mesi sulla mia persona; come un pensiero costante, una richiesta, che aveva preso ad abitare dolcemente ogni cosa facessi, vedessi, leggessi. 

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Che Cristo avesse assunto, in questo senso, un ruolo importante, che tuttavia nemmeno io riuscivo a comprendere, credo d’essermelo detto la prima volta un anno fa, un giorno in cui ero tornata, per un breve periodo, a Rimini, la città in cui sono nata e cresciuta. Era quel periodo in cui il freddo delle giornate invernali lascia spazio all’aria tiepida di quelle primaverili, e il parco improvvisamente s’inonda di nuovi colori, suoni e profumi. Quel giorno avevo passato il pomeriggio a studiare, leggendo il Vangelo, assorta nel silenzio di camera mia. A fine giornata ero uscita per fare una passeggiata nel parco. Camminavo e sentivo come se, alla lettura del testo, la mia anima si fosse sempre di più spalancata, spogliata in tutta la sua interezza. Mi sembrava quasi che essa – in tutta la fragilità, il candore, l’audacia con cui la percepivo in quel preciso momento – si affacciasse fuori dal mio stesso corpo, come standomi “a fior di pelle”; e che, al suo passaggio, tutto il mondo (gli alti ed eleganti alberi, i cespugli fioriti col loro profumo, i passanti, il cinguettio degli uccelli, persino il vento) si voltasse per assistere al suo passaggio, e per porgerle il suo gentile saluto, che lei a sua volta, quasi ridendo, gli ricambiava. 

Camminando, osservavo il viale del parco, che si estendeva dritto di fronte a me, incorniciato dagli alberi: osservavo le fronde voluminose dei rami, che danzavano eleganti, gonfiate dal vento; i passanti, nella diversità dei loro aspetti e delle loro singole azioni; ascoltavo i grandi e piccoli suoni che si sprigionavano in ogni angolo di quella natura. Nel mentre in cui il mio sguardo era come rapito, e incantato, da tutto questo, ripensavo al Vangelo e, più di tutto, a Cristo, che mi pare esserne il centro assoluto. Nel farlo mi sono detta (con la stessa arrendevole gioia con cui si constata che il proprio cuore si è innamorato di quella o quell’altra persona) che quella figura ormai era giunta a rappresentare quanto di più bello, di più nobile e di prezioso abiti nella mia anima, e, più in generale, nell’essere umano. Si tratta di quella parte dell’uomo che ne esprime i desideri più nobili e genuini e che, qualsiasi valore le si voglia assegnare, rappresenta in tutto e per tutto qualcosa di sacro. Simone Weil la descrive come l’aspettativa, e la speranza, di ricevere amore. 

Io, quando questa parte è scoperta, come quel giorno nel parco, sento quasi d’esserne, più che custode, custodita: come se mi accovacciassi, e prendessi vita, dentro di essa. Ma, nel mio caso almeno, nulla, più di Cristo, alimenta questa speranza. È come se lui avesse dato corpo a tutto ciò che di più intimo abita dentro al mio cuore; e quel corpo continuasse ad evolvere giorno per giorno, senza che io ne possa esaurire l’enigmaticità. 

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Le ragioni per le quali la figura di Cristo è in grado, almeno per me, di far così potentemente emergere la mia anima, con tutta la bellezza e la fragilità dei suoi desideri, credo d’averle iniziate a capire una domenica di ormai un anno fa. Mi trovavo a Rimini, ero andata a messa assieme a mia madre, nella piccola chiesa del convento delle clarisse in cui andiamo sempre. Era sera, ricordo che mi sentivo immensamente stanca: stavo seduta, quasi nascosta, su una panca in fondo alla chiesa, e mi sembrava di stare avvolta in un dolce e fiducioso abbandono, come se tutto il mio corpo, e il mio cuore, avessero trovato casa in quel luogo, in cui mi pareva che nessuna pretesa mi fosse avanzata. Solo la mia presenza era, non pretesa, bensì accolta, come se qualcuno l’avesse pazientemente attesa, e intensamente desiderata. 

Mentre ascoltavo, quasi passivamente, lo svolgersi della messa ho alzato, d’un tratto, lo sguardo, e l’ho rivolto al grande crocifisso che stava appeso proprio al mio fianco, sulla parete sinistra di quella piccola chiesa. Gli ero distante solo di qualche metro, e ne potevo distinguere ogni dettaglio. Infinite versioni di quella rappresentazione erano capitate sotto i miei occhi nel corso della mia vita, ma ricordo che mai, come prima di quel giorno, ne sono stata attratta, come ipnotizzata. Era come se ogni suo dettaglio mi richiamasse, e mi si imprimesse nell’anima: guardavo le mani trafitte dai chiodi sul legno, le dita mollemente ripiegate sul palmo; poi le lunghe e sottili braccia, tese a sorreggere, come cavi in tensione, il corpo nudo, che sembrava volersi accasciare sempre più su stesso, fino a raggiungere terra. Ho guardato a lungo la ferita aperta sopra il magro e bianco costato; poi i piedi posti l’uno sull’altro, anch’essi trafitti dai chiodi, che sembravano l’unica cosa volta a sorregger quel corpo. Persino il capo, e le ciocche di capelli sopra di lui, si abbandonava e cadeva ripiegato sulla spalla e sul petto. 

La voce del prete in fondo all’altare era diventata solo un fioco e lontano suono, e a me pareva d’essere stata completamente sottratta a tutto ciò che accadeva, per esser rapita, per sempre, da quella scena. Era come se ne fossi addolorata, e innamorata allo stesso tempo. Innamorata di lui soprattutto in quel suo momento, nel momento in cui stava sopra la croce. E nel provar questo mi dicevo che ormai per me quella era divenuta la chiave di tutto, che dell’onnipotenza non m’importava nulla, che niente era in grado di sprigionare e attirare l’amore su questa terra come chi si lascia trafiggere e crocifiggere, senza opporre la benché minima resistenza.

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Per molto tempo ho cercato di riflettere su questo fatto, che nel mio cuore, ogni volta che si riproduce, risulta essere di un’evidenza travolgente e dolcissima allo stesso tempo. L’esperienza in effetti mi suggerisce, ogni volta, che è solo attraverso il quasi corporeo passaggio per questa miseria (cioè mancanza) che il mio cuore finalmente si apre, e si dispone, docilmente, all’amore. Senza il passaggio, quasi fisico, che porta il cuore a divenir consapevole della sua mancanza e del suo desiderio, nulla di tutto ciò si renderebbe possibile. 

Credo che ciò che più di tutto, della figura di Cristo, ha catturato il mio sguardo, sia stata esattamente questa capacità di fare spazio, dentro di sé, e che lo ha reso, ai miei occhi, tutto intriso, trasfigurato, dall’amore di Dio. Nel mio immaginario è come se questo amore attraversasse, e s’irradiasse, da ogni poro, ogni centimetro di quel suo corpo: nella leggerezza e fierezza dei gesti, nella morbidità e profondità ipnotica degli sguardi, nel misterioso tepore delle sue parole. 

Tutto ciò lo vedo, soprattutto, nel momento dell’abbassamento più grande, che è quello sopra la croce. Non per caso infatti, nel Vangelo di Giovanni, ci si riferisce a quest’ultimo col termine “glorificazione”. Il Gesù del quarto Vangelo non ha, infatti, le parole di disperazione che si ritrovano nei Vangeli sinottici: 

Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno d’aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò. 

(Gv 19,28-30)

È proprio in quel momento, quasi in quello stesso chinare il capo e spirare, che il mio cuore, più di tutto, se ne innamora. 

E, mi pare, se ne innamora proprio perché, come dicevo più sopra, riconosce in esso qualcosa che già, in qualche modo, gli apparteneva, e di cui forse si era dimenticato. Accade qualcosa di simile anche per la persona amata: sembra quasi che ci si innamori perché si riconosce, in lei, qualcosa che anche a noi appartiene, e che allo stesso tempo desideriamo. 

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È questo innamoramento, e riconoscimento, che porta, naturalmente, all’imitazione. Per questa ragione, se permetto alla lettura del testo di farsi strada, carsicamente, dentro al mio animo, io ne esco quasi trasfigurata, come se tutto il mio animo, per imitazione, vi avesse aderito. 

Nei discorsi di addio presenti nel quarto Vangelo, Gesù sembra voler spiegare la segretezza e la semplicità, di questa dinamica. Nel capitolo quattordicesimo, in particolare, egli è interrogato dai discepoli su dove si trovino i posti (monai, in greco, sostantivo cui è correlato il verbo menein, dimorare) ch’egli dice d’aver preparato per loro nel Regno. I discepoli più volte domandano sconcertati, senza riuscire a capire cosa Gesù intenda quando dice di essere lui stesso “la Via, la Verità e la Vita” (Gv 14,6). Ed è solo davanti all’ultima, stupita domanda di Giuda, che Gesù porta a conclusione il vorticoso, quasi concentrico ragionamento, con queste parole: 

Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora (monḗn) presso di lui. 

(Gv 14,23)

A leggere queste parole, sento come se tutto il mio animo finalmente cedesse, e lentamente obbedisse. Da questo innamoramento infatti, l’imitazione e “l’osservanza della parola” scaturiscono in modo consequenziale, quasi spontaneo: come un ruscello d’alta montagna, la cui acqua fuoriesce, gorgogliando dolcemente, da una fessura tra il muschio e le rocce.

Così nel far questo io sento che quello stesso amore del Padre, che il Figlio ha mostrato e insegnato facendosene portatore, prende dimora presso di me, rendendo anche me portatrice, anche me testimone. Si tratta, appunto, di una “imitazione”, o forse ancor meglio del tentativo di una “sequela” – termine che, come un mio professore mi ha fatto notare, porta con sé, a differenza dell’altro, l’idea di un movimento continuo, invece che di una staticità da raggiungere. In effetti è come se, anche quando finalmente riesco a far sorger di nuovo quella parte di me che era rimasta sopita, acquisissi un osservatorio, dal quale guardo tutte le altre realtà che continuano, comunque, ad abitare, sia dentro che fuori dal mio animo. 

Infatti, anche nel momento in cui riesco a interiorizzare quello sguardo che è Cristo, le “altre parti” di me non spariscono affatto: non scompaiono affatto i pensieri meschini, faticosi, meno nobili. Io continuo, anche quando sento così accesa la parte sacra, a “portarmi addosso la mia umanità”, la pesantezza della mia carne. Ma, a differenza di tutto il resto del tempo, è come se quest’ultima s’alleggerisse, e smettesse d’esser motivo di odio e di giudizio, nei confronti della mia persona e di quella degli altri, e iniziasse invece ad essere l’oggetto di un’infinita misericordia, pietà, compassione, da cui io stessa, a mia volta, mi sono lasciata ferire, ed attraversare. In effetti in quei momenti sembra quasi che l’universo intero, e Dio stesso, non siano nulla di tanto diverso da questo amore, che è come una preghiera, la cui melodia risuona senza sosta dal fondo stesso dell’anima. 

*

Accade però che, per qualche ragione (talvolta anche la più banale: un passante che nella fretta mi urta senza riguardo, le faccende quotidiane che incombono e i pensieri che si affollano in frotte violente nella mia mente) il mio animo s’impaurisca ed irrigidisca di nuovo, e che quell’armonia, d’improvviso, si perda. Ma, ogni volta, io mi accorgo che è solo attraverso la gentile accoglienza (e quasi il fisico attraversamento) della mia umanità, che io mi sento, poi, di nuovo avvolgere, quasi risorgere. 

Alla fine, più che una questione di grazia, o di volontà, mi sembra una questione di desiderio, di umile esercizio, e di richiesta. Io spesso, spessissimo, forse per la maggior parte del tempo, non sono affatto in quello stato di fiducia e d’amore, in quel “mondo vero” di cui parla Paolo. Ma mi accorgo che, negli anni, il desiderio che ho di esso è come se s’intensificasse, e rinvigorisse; come se tutto il mio cuore, la mia volontà, fossero una preghiera tesa verso di esso, tenuta presente anche durante le pratiche più quotidiane e banali, come mangiare, fare la spesa, sistemare la stanza, o rider di cuore assieme agli amici, per qualche sciocchezza che è stata detta. Era questo, forse, che intendevo, quando tempo fa mi ero detta, osservandomi, che avevo la sensazione di “pensare a Dio tutto il tempo”, per poi rendermi conto che, in realtà, non lo stavo affatto “pensando”, bensì cercando, chiamando, quasi costantemente. 

In ciò consiste l’importanza, e la potenza, del fare memoria: ricordare in noi stessi, e gli uni con gli altri, di quei giorni antichi ed avvolti dentro al mistero, che hanno riportato alla luce quella parte di noi che anche oggi, nella diversità degli animi e delle culture, rimane. Non importa che cosa sia in grado di far fare, agli uomini, memoria di quella parte di sé che consiste nel sacro. L’importante è che quella parte vi sia, e che vi sia qualcosa, nel singolo, che sia in grado di farla risorgere.

Su quale sia, poi, il “luogo” in cui l’anima innamorata conduca, questo è, e rimane, un profondo mistero ai miei occhi. Ma cerco di non far dipendere le mie scelte dalla risoluzione di questo mistero, e di fare come quel generale di Guerra e Pace, che si lascia guidare dal cuore, senza troppo interrogarsi a riguardo. Mi esercito allora ad abbandonarmi, sempre di più, a questo amore, e a nutrire per esso una crescente fiducia. Essa, in rari ed estasiati momenti di pace, lascia avvertire con chiarezza la presenza di qualcosa, o di qualcuno, che sta, già ora, con braccia spalancate, in un luogo senza tempo. È come quella brezza che, all’alba, spira dolcemente da oltre l’orizzonte, lungo la linea del mare. 

Bianca Cesari 

*In copertina e nel testo, disegni di Guercino (1591-1666)

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