Questa mattina ho aperto gli occhi ancor prima che l’alba sorgesse, e sono
rimasta a letto diverso tempo, immersa in una sorta di dormiveglia agitato, una
cosa che mi è capitata spesso nelle ultime notti. Quando poi la sveglia è
suonata mi sono alzata e sono andata in bagno per prepararmi, con l’obbiettivo
di andare alla lezione di yoga della mattina presto, alle sette. Lentamente, nel
ripetere tutte le piccole abitudini mattutine (andare in bagno, lavarmi il viso,
poi fare qualche minuto di meditazione, ad occhi chiusi, in piedi di fronte allo
specchio), mi sono calmata, e ho sentito di entrare in una lenta e fiduciosa
attesa: della luce, del giorno che sarebbe venuto.
Uscita dal portone al piano terreno ho attraversato la corte interna e, superato
il cancello, sono sbucata in Campo Santa Margherita, qui a Venezia. Il cielo era
ancora di un blu intenso notturno, e solo un lieve chiarore rivelava l’imminente
sorgere del giorno. La luna, illuminata e affilata come un’unghia bianchissima,
esibiva in silenzio la sua eleganza, in mezzo a un cielo terso, ancora
tempestato di stelle. Da qualche parte – al di là delle case che s’impongono
sopra le calli, al di là dei canali e del tratto di laguna che separa Venezia
dal Lido – il sole, con la sua maestosità mai invecchiata, stava sorgendo
sull’orizzonte, lungo la linea del mare. Mi dirigevo verso il centro di yoga,
rinvigorita dall’aria pungente che elettrifica l’aria di prima mattina, e mi
figuravo questo spettacolo che silenziosamente avveniva in quei luoghi vicini,
senza che io lo potessi vedere. Camminando cercavo di fare tesoro di quel
profondo raccoglimento in cui già mi ero immersa, e mi riproponevo di custodirlo
anche per il resto del giorno, senza lasciare che si dissipasse.
Mi era prezioso tanto più per il fatto che gli ultimi giorni erano stati segnati
da un’irrequietezza quasi costante, in cui pochi e fragili momenti di pace erano
guadagnati a fatica. La cosa peggiore di quando sono preda di questo stato è il
fatto che mi accorgo immediatamente quando esso insorge, e inizio, per questo,
ad agitarmi; a cercare disperatamente di risalire la china del precipizio in cui
sono caduta, con l’obbiettivo di tornare in “quell’altro stato”. Durante
quest’ultimo mi pare di stare immersa in una sorta di fiduciosa attesa, e sento
che ogni mio gesto, intenzione e pensiero, sorge come spontaneo da dentro il mio
animo: non devo far altro che accoglierlo, in tutta la sua giustezza e bellezza.
In quei momenti mi sento come il generale Pëtr Petròvič Konovnìcyn: un
personaggio che appare solo di sfuggita nella narrazione di Guerra e Pace, ma la
cui descrizione mi aveva colpita profondamente. Tolstoj scrive di lui:
> Nel suo animo c’era una profonda, inespressa convinzione che tutto sarebbe
> andato bene; ma a tale convinzione non bisognava credere, e tantomeno
> bisognava parlarne, ma bisognava fare solo il proprio dovere. Ed egli faceva
> il suo dovere, impegnandovi tutte le sue forze.
È strano: in quei momenti sento di essere certamente io a compiere
le mie azioni; e allo stesso tempo però è come se esse fossero guidate da
qualcosa che è oltre, e molto più, di me. E tuttavia mi accorgo che è solo
quando mi sento all’interno di questo “più di me” che mi sento davvero me
stessa, che sento di aderire veramente a me stessa. Il resto del tempo è come se
non sapessi dove fossi finita, e rimanesse solo una piccolissima parte di me che
rimane agganciata a quell’altro stato, che permane solo sotto la forma di un
ricordo, di una convinzione, a cui sento d’aggrapparmi con tutte le forze.
*
In un libro che ho terminato di leggere poco tempo fa, l’autore, Robin Scroggs,
biblista e teologo statunitense, descrive alla perfezione l’oscillazione di cui
ho parlato. Riprende la distinzione fatta da San Paolo tra i termini “fede” e
“speranza”, e scrive:
> Paolo non è così ingenuo da pensare che le persone vivano sempre nella gioia e
> nell’esuberanza della fede. È certamente consapevole che i membri delle sue
> congregazioni provino ansia, dubbi e mancanza di fiducia. Ciò significa che
> chi crede in una situazione del genere ha di nuovo cambiato mondo, è ricaduto
> nel mondo falso? Non necessariamente, perché il credente può ora aggrapparsi
> ostinatamente alla consapevolezza che il vero Dio esiste, che il vero mondo è
> una realtà, anche se al momento non lo sperimenta. Sì, la fede è
> esperienziale, ma non deve limitarsi alla sola esperienza. Si resta fedeli a
> quel mondo. Il termine usato da Paolo per questo impegno è “speranza.” In
> questo senso la speranza è tanto un’esperienza quanto la fede. Essa è la
> convinzione ostinata, in assenza dell’esperienza della pienezza, che esista
> davvero un mondo restaurato, reso realtà dall’atto di Dio in Cristo.
Io, più il tempo passa, più sento crescere in me questa “convinzione ostinata”:
è come se sentissi di non nutrire più alcun dubbio a riguardo. Questo tuttavia
non impedisce affatto il permanere degli altri stati – di dubbio, di rabbia, di
paura – che a volte è come se ricoprissero la mia anima, l’accecassero e
portassero a fondo col loro peso.
Infinite volte mi interrogo sulle ragioni di questo oscillare: sul perché a
tratti si riesca a vivere in una sorta d’estasi fiduciosa, e ci si senta avvolti
da un mistero che, per quanto infinito e insondabile, rimane comunque un mistero
d’amore; e a tratti invece questa realtà si dissolva, e venga sostituita da
tutto quanto le è opposto, e in sua negazione: un mondo forse ben più conosciuto
dell’altro, fatto di arrivismo, di rabbia, di competizione, sopraffazione. In
quei momenti mi pare ci si senta separati da tutto: dagli altri, ma anche, e
forse soprattutto, dalla propria stessa persona, che viene ad esser la prima e
la più disprezzata di tutte le altre creature. È quando ricado di nuovo in
questo stato penoso che inizio a guardare all’altro mondo (quello che Paolo, nel
passo di Scroggs, definisce “vero”) come dall’esterno, desiderando con tutta me
stessa di farvi ritorno, senza però riuscire a trovare, dentro al mio cuore, la
mappa che possa condurvi.
È stato per questo che ormai da moltissimi mesi io ho iniziato a chiedermi,
quasi in continuazione, quale fosse, in questo quadro che dentro al mio animo si
era tracciato, il ruolo di Cristo. Questa domanda è come rimasta sospesa per
mesi sulla mia persona; come un pensiero costante, una richiesta, che aveva
preso ad abitare dolcemente ogni cosa facessi, vedessi, leggessi.
*
Che Cristo avesse assunto, in questo senso, un ruolo importante, che tuttavia
nemmeno io riuscivo a comprendere, credo d’essermelo detto la prima volta un
anno fa, un giorno in cui ero tornata, per un breve periodo, a Rimini, la città
in cui sono nata e cresciuta. Era quel periodo in cui il freddo delle giornate
invernali lascia spazio all’aria tiepida di quelle primaverili, e il parco
improvvisamente s’inonda di nuovi colori, suoni e profumi. Quel giorno avevo
passato il pomeriggio a studiare, leggendo il Vangelo, assorta nel silenzio di
camera mia. A fine giornata ero uscita per fare una passeggiata nel parco.
Camminavo e sentivo come se, alla lettura del testo, la mia anima si fosse
sempre di più spalancata, spogliata in tutta la sua interezza. Mi sembrava quasi
che essa – in tutta la fragilità, il candore, l’audacia con cui la percepivo in
quel preciso momento – si affacciasse fuori dal mio stesso corpo, come standomi
“a fior di pelle”; e che, al suo passaggio, tutto il mondo (gli alti ed eleganti
alberi, i cespugli fioriti col loro profumo, i passanti, il cinguettio degli
uccelli, persino il vento) si voltasse per assistere al suo passaggio, e per
porgerle il suo gentile saluto, che lei a sua volta, quasi ridendo, gli
ricambiava.
Camminando, osservavo il viale del parco, che si estendeva dritto di fronte a
me, incorniciato dagli alberi: osservavo le fronde voluminose dei rami, che
danzavano eleganti, gonfiate dal vento; i passanti, nella diversità dei loro
aspetti e delle loro singole azioni; ascoltavo i grandi e piccoli suoni che si
sprigionavano in ogni angolo di quella natura. Nel mentre in cui il mio sguardo
era come rapito, e incantato, da tutto questo, ripensavo al Vangelo e, più di
tutto, a Cristo, che mi pare esserne il centro assoluto. Nel farlo mi sono detta
(con la stessa arrendevole gioia con cui si constata che il proprio cuore si è
innamorato di quella o quell’altra persona) che quella figura ormai era giunta a
rappresentare quanto di più bello, di più nobile e di prezioso abiti nella mia
anima, e, più in generale, nell’essere umano. Si tratta di quella parte
dell’uomo che ne esprime i desideri più nobili e genuini e che, qualsiasi valore
le si voglia assegnare, rappresenta in tutto e per tutto qualcosa di sacro.
Simone Weil la descrive come l’aspettativa, e la speranza, di ricevere amore.
Io, quando questa parte è scoperta, come quel giorno nel parco, sento quasi
d’esserne, più che custode, custodita: come se mi accovacciassi, e prendessi
vita, dentro di essa. Ma, nel mio caso almeno, nulla, più di Cristo, alimenta
questa speranza. È come se lui avesse dato corpo a tutto ciò che di più intimo
abita dentro al mio cuore; e quel corpo continuasse ad evolvere giorno per
giorno, senza che io ne possa esaurire l’enigmaticità.
*
Le ragioni per le quali la figura di Cristo è in grado, almeno per me, di far
così potentemente emergere la mia anima, con tutta la bellezza e la
fragilità dei suoi desideri, credo d’averle iniziate a capire una domenica di
ormai un anno fa. Mi trovavo a Rimini, ero andata a messa assieme a mia madre,
nella piccola chiesa del convento delle clarisse in cui andiamo sempre. Era
sera, ricordo che mi sentivo immensamente stanca: stavo seduta, quasi nascosta,
su una panca in fondo alla chiesa, e mi sembrava di stare avvolta in un dolce e
fiducioso abbandono, come se tutto il mio corpo, e il mio cuore, avessero
trovato casa in quel luogo, in cui mi pareva che nessuna pretesa mi fosse
avanzata. Solo la mia presenza era, non pretesa, bensì accolta, come se qualcuno
l’avesse pazientemente attesa, e intensamente desiderata.
Mentre ascoltavo, quasi passivamente, lo svolgersi della messa ho alzato, d’un
tratto, lo sguardo, e l’ho rivolto al grande crocifisso che stava appeso proprio
al mio fianco, sulla parete sinistra di quella piccola chiesa. Gli ero distante
solo di qualche metro, e ne potevo distinguere ogni dettaglio. Infinite versioni
di quella rappresentazione erano capitate sotto i miei occhi nel corso della mia
vita, ma ricordo che mai, come prima di quel giorno, ne sono stata attratta,
come ipnotizzata. Era come se ogni suo dettaglio mi richiamasse, e mi si
imprimesse nell’anima: guardavo le mani trafitte dai chiodi sul legno, le dita
mollemente ripiegate sul palmo; poi le lunghe e sottili braccia, tese a
sorreggere, come cavi in tensione, il corpo nudo, che sembrava volersi
accasciare sempre più su stesso, fino a raggiungere terra. Ho guardato a lungo
la ferita aperta sopra il magro e bianco costato; poi i piedi posti l’uno
sull’altro, anch’essi trafitti dai chiodi, che sembravano l’unica cosa volta a
sorregger quel corpo. Persino il capo, e le ciocche di capelli sopra di lui, si
abbandonava e cadeva ripiegato sulla spalla e sul petto.
La voce del prete in fondo all’altare era diventata solo un fioco e lontano
suono, e a me pareva d’essere stata completamente sottratta a tutto ciò che
accadeva, per esser rapita, per sempre, da quella scena. Era come se ne fossi
addolorata, e innamorata allo stesso tempo. Innamorata di lui soprattutto in
quel suo momento, nel momento in cui stava sopra la croce. E nel provar questo
mi dicevo che ormai per me quella era divenuta la chiave di tutto, che
dell’onnipotenza non m’importava nulla, che niente era in grado di sprigionare e
attirare l’amore su questa terra come chi si lascia trafiggere e crocifiggere,
senza opporre la benché minima resistenza.
*
Per molto tempo ho cercato di riflettere su questo fatto, che nel mio cuore,
ogni volta che si riproduce, risulta essere di un’evidenza travolgente e
dolcissima allo stesso tempo. L’esperienza in effetti mi suggerisce, ogni volta,
che è solo attraverso il quasi corporeo passaggio per questa miseria (cioè
mancanza) che il mio cuore finalmente si apre, e si dispone, docilmente,
all’amore. Senza il passaggio, quasi fisico, che porta il cuore a divenir
consapevole della sua mancanza e del suo desiderio, nulla di tutto ciò si
renderebbe possibile.
Credo che ciò che più di tutto, della figura di Cristo, ha catturato il mio
sguardo, sia stata esattamente questa capacità di fare spazio, dentro di sé, e
che lo ha reso, ai miei occhi, tutto intriso, trasfigurato, dall’amore di Dio.
Nel mio immaginario è come se questo amore attraversasse, e s’irradiasse, da
ogni poro, ogni centimetro di quel suo corpo: nella leggerezza e fierezza dei
gesti, nella morbidità e profondità ipnotica degli sguardi, nel misterioso
tepore delle sue parole.
Tutto ciò lo vedo, soprattutto, nel momento dell’abbassamento più grande, che è
quello sopra la croce. Non per caso infatti, nel Vangelo di Giovanni, ci si
riferisce a quest’ultimo col termine “glorificazione”. Il Gesù del quarto
Vangelo non ha, infatti, le parole di disperazione che si ritrovano nei Vangeli
sinottici:
> Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per
> adempiere la Scrittura: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno d’aceto; posero
> perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono
> alla bocca. E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E,
> chinato il capo, spirò.
>
> (Gv 19,28-30)
È proprio in quel momento, quasi in quello stesso chinare il capo e spirare, che
il mio cuore, più di tutto, se ne innamora.
E, mi pare, se ne innamora proprio perché, come dicevo più sopra, riconosce in
esso qualcosa che già, in qualche modo, gli apparteneva, e di cui forse si era
dimenticato. Accade qualcosa di simile anche per la persona amata: sembra quasi
che ci si innamori perché si riconosce, in lei, qualcosa che anche a noi
appartiene, e che allo stesso tempo desideriamo.
*
È questo innamoramento, e riconoscimento, che porta, naturalmente,
all’imitazione. Per questa ragione, se permetto alla lettura del testo di farsi
strada, carsicamente, dentro al mio animo, io ne esco quasi trasfigurata, come
se tutto il mio animo, per imitazione, vi avesse aderito.
Nei discorsi di addio presenti nel quarto Vangelo, Gesù sembra voler spiegare la
segretezza e la semplicità, di questa dinamica. Nel capitolo quattordicesimo, in
particolare, egli è interrogato dai discepoli su dove si trovino i posti
(monai, in greco, sostantivo cui è correlato il verbo menein, dimorare) ch’egli
dice d’aver preparato per loro nel Regno. I discepoli più volte domandano
sconcertati, senza riuscire a capire cosa Gesù intenda quando dice di essere lui
stesso “la Via, la Verità e la Vita” (Gv 14,6). Ed è solo davanti all’ultima,
stupita domanda di Giuda, che Gesù porta a conclusione il vorticoso, quasi
concentrico ragionamento, con queste parole:
> Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a
> lui e prenderemo dimora (monḗn) presso di lui.
>
> (Gv 14,23)
A leggere queste parole, sento come se tutto il mio animo finalmente cedesse, e
lentamente obbedisse. Da questo innamoramento infatti, l’imitazione e
“l’osservanza della parola” scaturiscono in modo consequenziale, quasi
spontaneo: come un ruscello d’alta montagna, la cui acqua fuoriesce,
gorgogliando dolcemente, da una fessura tra il muschio e le rocce.
Così nel far questo io sento che quello stesso amore del Padre, che il Figlio ha
mostrato e insegnato facendosene portatore, prende dimora presso di me, rendendo
anche me portatrice, anche me testimone. Si tratta, appunto, di una
“imitazione”, o forse ancor meglio del tentativo di una “sequela” – termine che,
come un mio professore mi ha fatto notare, porta con sé, a differenza
dell’altro, l’idea di un movimento continuo, invece che di una staticità da
raggiungere. In effetti è come se, anche quando finalmente riesco a far sorger
di nuovo quella parte di me che era rimasta sopita, acquisissi un osservatorio,
dal quale guardo tutte le altre realtà che continuano, comunque, ad abitare, sia
dentro che fuori dal mio animo.
Infatti, anche nel momento in cui riesco a interiorizzare quello sguardo che è
Cristo, le “altre parti” di me non spariscono affatto: non scompaiono affatto i
pensieri meschini, faticosi, meno nobili. Io continuo, anche quando sento così
accesa la parte sacra, a “portarmi addosso la mia umanità”, la pesantezza della
mia carne. Ma, a differenza di tutto il resto del tempo, è come se quest’ultima
s’alleggerisse, e smettesse d’esser motivo di odio e di giudizio, nei confronti
della mia persona e di quella degli altri, e iniziasse invece ad essere
l’oggetto di un’infinita misericordia, pietà, compassione, da cui io stessa, a
mia volta, mi sono lasciata ferire, ed attraversare. In effetti in quei momenti
sembra quasi che l’universo intero, e Dio stesso, non siano nulla di tanto
diverso da questo amore, che è come una preghiera, la cui melodia risuona senza
sosta dal fondo stesso dell’anima.
*
Accade però che, per qualche ragione (talvolta anche la più banale: un passante
che nella fretta mi urta senza riguardo, le faccende quotidiane che incombono e
i pensieri che si affollano in frotte violente nella mia mente) il mio animo
s’impaurisca ed irrigidisca di nuovo, e che quell’armonia, d’improvviso, si
perda. Ma, ogni volta, io mi accorgo che è solo attraverso la gentile
accoglienza (e quasi il fisico attraversamento) della mia umanità, che io mi
sento, poi, di nuovo avvolgere, quasi risorgere.
Alla fine, più che una questione di grazia, o di volontà, mi sembra una
questione di desiderio, di umile esercizio, e di richiesta. Io spesso,
spessissimo, forse per la maggior parte del tempo, non sono affatto in quello
stato di fiducia e d’amore, in quel “mondo vero” di cui parla Paolo. Ma mi
accorgo che, negli anni, il desiderio che ho di esso è come se s’intensificasse,
e rinvigorisse; come se tutto il mio cuore, la mia volontà, fossero una
preghiera tesa verso di esso, tenuta presente anche durante le pratiche più
quotidiane e banali, come mangiare, fare la spesa, sistemare la stanza, o rider
di cuore assieme agli amici, per qualche sciocchezza che è stata detta. Era
questo, forse, che intendevo, quando tempo fa mi ero detta, osservandomi, che
avevo la sensazione di “pensare a Dio tutto il tempo”, per poi rendermi conto
che, in realtà, non lo stavo affatto “pensando”, bensì cercando, chiamando,
quasi costantemente.
In ciò consiste l’importanza, e la potenza, del fare memoria: ricordare in noi
stessi, e gli uni con gli altri, di quei giorni antichi ed avvolti dentro al
mistero, che hanno riportato alla luce quella parte di noi che anche oggi, nella
diversità degli animi e delle culture, rimane. Non importa che cosa sia in grado
di far fare, agli uomini, memoria di quella parte di sé che consiste nel sacro.
L’importante è che quella parte vi sia, e che vi sia qualcosa, nel singolo, che
sia in grado di farla risorgere.
Su quale sia, poi, il “luogo” in cui l’anima innamorata conduca, questo è, e
rimane, un profondo mistero ai miei occhi. Ma cerco di non far dipendere le mie
scelte dalla risoluzione di questo mistero, e di fare come quel generale
di Guerra e Pace, che si lascia guidare dal cuore, senza troppo interrogarsi a
riguardo. Mi esercito allora ad abbandonarmi, sempre di più, a questo amore, e a
nutrire per esso una crescente fiducia. Essa, in rari ed estasiati momenti di
pace, lascia avvertire con chiarezza la presenza di qualcosa, o di qualcuno, che
sta, già ora, con braccia spalancate, in un luogo senza tempo. È come quella
brezza che, all’alba, spira dolcemente da oltre l’orizzonte, lungo la linea del
mare.
Bianca Cesari
*In copertina e nel testo, disegni di Guercino (1591-1666)
L'articolo “La convinzione ostinata”. Abbandonarsi al bene: tra rapimento e
dolore proviene da Pangea.
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Il Vangelo di Marco, come si sa, finisce con un colpo di ghigliottina, con una
immedicabile cesura. Giunte al sepolcro vuoto, le tre donne – “Maria di Màgdala,
Maria madre di Giacomo e Salome” – scappano, “fuggirono via dal sepolcro, perché
erano piene di spavento e di stupore”. Paura le ammutolisce, “e non dissero
niente a nessuno”.
Se investighiamo il greco le cose assumono un’altra sfumatura. Le donne scappano
perché tremano (tromos) colte da estasi (ekstasis). Sono come in trance, sono
fuori di sé, rapite da dionisiaca ebbrezza: anch’esse un sepolcro vuoto. Uno
degli epiteti del “Dio vivente” è il terrore: è “terribile (phoberos) cadere
nelle mani del Dio che vive”, scrive Paolo. Un terrore che impone riguardo,
devozione.
Alle estatiche donne un misterioso “giovane… vestito d’una veste bianca”, assiso
di fianco al sepolcro, dice che “Gesù Nazareno, il crocefisso, è risorto, non è
qui… Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete”. Il timore delle donne davanti
al giovane (“ed ebbero paura”) ricorda il turbamento di Maria di fronte
all’angelo: lì si annunciava una nascita miracolosa, qui una ancor più
miracolosa seconda nascita. È più facile credere all’invisibile che si annuncia
in nuce d’angelo che alla verità di un corpo disfatto, maciullato, sviscerato,
disossato di sé, grave di sangue.
Chissà se poi le donne sono andate, in Galilea.
La Sapienza di Gesù Cristo comincia da lì: dal dubbio, dal timore, dall’estasi.
Il testo gnostico, databile tra il II e il III secolo, è conservato nel Papiro
di Berlino (1896), tra i papiri di Ossirinco e nella vasta messe di testi
scoperti a Nag Hammadi. Era dunque testo noto, importante, fin nella
sovrabbondanza del titolo. In lingua inglese esiste la traduzione completa di
Douglas M. Parrott; Mauro Pesce ne ha inglobato alcune lasse in Le parole
dimenticate di Gesù (Fondazione Lorenzo Valla, 2004).
In questa Sophia, il Cristo appare trasfigurato, irriconoscibile (“non nella
forma che ricordavano”): il dialogo con i discepoli – la prima domanda, che
implica una gerarchia, è di Filippo; poi prendono la parola Matteo, Tommaso,
Maria e Bartolomeo – permette al Salvatore di spiegare la creazione del mondo e
del tempo, il fine del creato, il destino dei discepoli. Secondo la cosmogonia
gnostica, esiste un Padre originario, un pre-Padre, che inaugura la lenta opera
di autoconoscenza; Sophia è l’elemento femminile del divino. Alle origini, è un
proliferare di legioni angeliche, di celesti esseri, di abnormi creature in una
continua dinamica di azione e distruzione (d’altronde, “C’erano sulla terra i
giganti”, si dice in Gn 6, 4). Il Salvatore, per così dire, è eccedenza –
finanche, difetto, benefico veleno – nell’ordine delle cose: rompe lo schema di
vita-e-morte, si disgrega dall’immobilismo divino, porta la luce “vengo per
estirparvi dall’oblio”. Il Salvatore è una figura prometeica.
La Sophia Jesu Christi fonde la rivelazione evangelica ai misteri greci; ciò che
anima il testo è ossessione per la salvezza, per la purificazione; centrale è la
domanda sul senso del male, centrale è il corpo corrotto che tenta riparo,
ristoro. Il sistema gnostico prevede un’aristocrazia dell’intelletto: si ascende
tramite strenuo percorso conoscitivo. Ciò che svanisce, è la cuspide
dell’evangelo: il Crocefisso, l’Iddio dei corrotti, l’Iddio dal corpo rotto e in
rovina. Tale carnalità latra – incute terrore. Il non avere altro che quello –
sangue che stilla dalle stimmate – confonde, confina nel dubbio.
Nella Sophia, secondo lo schema della sapienza greca, il Padre forgia il creato
dopo essersi osservato in uno specchio (“Vide se stesso in uno specchio”). Ma lo
specchio è il demoniaco – la copia che divora l’origine, l’originario. A dire di
Proclo, fu Efesto a “fabbricare uno specchio per Dioniso” e “il dio guardando
dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione
di tutta la pluralità”. Figura ambigua, lo specchio: fa dell’apparente
un’apparizione; chi cerca di riconoscersi in esso si trova disconosciuto,
contraffatto. Cosa deve vedere di sé il Padre in uno specchio – cosa che già non
sappia? Nella Sapienza di Gesù Cristo lo specchio è abisso, buco nero, vortice –
è la grande vulva, il dio per sempre gravido che crea copie di copie di copie di
sé. Dio-feto, dio-incesto.
Nel Vangelo, piuttosto, il Padre si rispecchia nel Figlio; Gesù si rispecchia
nei volti sbigottiti dei discepoli – fino a che punto il Risorto è diverso dal
Nazareno?
In questo gioco di specchi – che, contrapposti, sfoggiano l’infinito – cosa
resta, quale l’arenaria che possiamo dire ‘immagine’? Quale l’originale?
San Paolo – in 1 Cor 13, 12 – lega lo specchio all’enigma: lo specchio-Sfinge ci
fissa divinandoci, divorandoci. Lo specchio-Polifemo, lo specchio-Sauron: nostro
compito è sfuggire all’onnipotente fame dello specchio per ridiventare noi, per
ricondurci nel greto della vera forma.
Galilea – il luogo dell’appuntamento con il Risorto, che è il luogo dove tutto
ha avuto inizio (Mc 1, 14) – è il lemma di una geografia sapienziale, è nome al
di là del nome. Come fu Israele per gli ebrei, Galilea sia il nuovo nome dei
cristiani: Galilea è il luogo in cui tutto si sprigiona, in cui tutto si
sbriciola.
Il proliferare dei detti gnostici null’altro dice se non che la conoscenza è il
solo peccato, è l’ambone da cui professa il demone della separazione e della
confusione. Gesù non si apprende perché è lui il predatore, è lui che ti prende.
Gesù, il sommo analfabeta – secondo la spiazzante intuizione di José Bergamín –
non si installa in codici, in grammatiche, in enciclopedie. La sola sapienza,
qui, è l’insipienza, l’uscita da sé, la santa insania dei folli e degli
ispirati. Il regno di questo mondo – dei filosofi e degli esperti, degli scaltri
e dei letterati – mostra la sua indecente indegnità: tutto è disperso, ora –
chiamateci disperati, è sconveniente, ai vostri occhi, perfino questa gioia che
ha dote di lacrime.
**
Sapienza di Gesù Cristo
(II secolo)
Dopo essere risorto dai morti, i dodici e sette donne lo seguirono, si diressero
in Galilea nel monte detto ‘Divinazione e Gioia’. Uniti, erano, e dubbio li
avvelenava sulla realtà dell’universo, sui piani della santa provvidenza, sul
potere delle potenze e su tutto ciò che il Salvatore compiva nel segreto. Allora
apparve il Salvatore – non nella forma che ricordavano ma in invisibile spirito.
Somigliava al grande angelo della luce. Ma non mi è dato descrivere il suo
aspetto. Nessuna carne mortale può contenerlo, ma solo la carne pura e perfetto
che egli ci ha mostrato sul monte detto ‘Degli Ulivi’.
E disse: “Pace a voi, a voi do la mia pace”. Spavento li confuse. Rise il
Salvatore dicendo, “Cosa pensate? Che dubbio vi divina? Di cosa siete in
cerca?”.
*
Disse Matteo: “Signore, a verità nessuno può accedere se non tramite te.
Inoltraci alla verità”.
Disse il Salvatore: “Colui che È è ineffabile. Nessuno principio lo preda né
autorità né obbedienza a creatura alcuna dalla fondazione del mondo – proviene
dalla Prima Luce e soltanto a chi vuole si rivela. Da ora io sono il Grande
Salvatore. Immortale, eterno egli è. Non ha nascita perché ogni cosa che nasce
muore. Ingenerato, non ha inizio – chiunque ha inizio, infatti, finisce. Nessuno
lo governa e non ha nome – chiunque ha nome, è la creazione di un altro…
È infinito, dunque è incomprensibile. È imperituro e non somiglia a nulla. È
immutabile nel bene. È senza difetto. È eterno. È il benedetto. Da tutti
sconosciuto, è la conoscenza in sé. Incommensurabile – irraggiungibile –
perfetto – immortale. Ditelo: ‘Padre dell’Universo’”.
*
Maria gli chiese: “Signore, come possiamo conoscerlo allora?”
Il Salvatore, il perfetto, disse: “Giungi alle cose invisibili, oltrepassa la
soglia del visibile. Il Pensiero ti rivelerà che la fede nell’invisibile si
trova setacciando le cose visibili, investigandole. Chi ha orecchie per udire,
ascolti!
Non ‘Padre’ si chiama il Signore dell’Universo, ma ‘Pre-Padre’, principio di chi
apparirà, antenato che non ha inizio. Vide se stesso in uno specchio – si vide
somigliante a se stesso – apparizione pari al Divino Padre di Sé, confronto di
ogni confronto, il Primo Esistente Ingenerato Padre. Pari in antichità della
Luce che lo precede ma non lo eguaglia in potenza.
In seguito apparve moltitudine di esseri autogenerati, eguali in età e potenza,
in gloria, innumeri, la cui stirpe è detta ‘Generazione Senza Regno’. Quella
moltitudine non soggetta a regno è detta ‘Figli del Padre Ingenerato, Dio,
Salvatore, Figlio di Dio’, e con voi ha somiglianza. Ma ora lui è lo
Sconosciuto, l’inconoscibile grave di inalterabile gloria, di ineffabile gioia.
Tutti riposano in lui, esultano in lui, giubilo che non ha misura; questo non è
mai stato udito finora negli eoni e nei mondi”.
Matteo gli chiese: “Signore, Salvatore, come si è rivelato l’Uomo?”
Il perfetto Salvatore disse. “Voglio che tu sappia che colui che apparve
all’universo nella sua infinità, l’Auto-eletto, l’Innato, il gravido di luce, al
principio, quando decise di dare la sua immagine a una potenza, quella Luce
apparve come l’Immortale Uomo Androgino, affinché attraverso di lui potessero
giungere a salvezza e risvegliarsi dall’oblio, attraverso l’inviato, il solo
interprete che è con voi fino alla fine della povertà e della razzia.
Sua consorte è Sophia, fin dal principio destinata a unirsi a lui tramite il
Padre Auto-generato e l’Uomo Immortale, che apparve come Primo in divinità e
regno, come concesso dal Padre. E creò un grande eone, ‘Ogdoade’ è il suo nome,
in onore alla sua maestà. Autorità gli fu data e nel suo governo creò povertà.
Creò dèi e angeli, arcangeli a miriadi, da quella Luce e tripartito Spirito che
è Sophia, sua consorte. Da questo, Dio originò divinità e regno. Da allora è
‘Dio degli dèi’, è detto ‘Re dei re’.
Da ciò che fu creato apparve ciò che fu plasmato; da ciò che fu plasmato ciò che
fu formato; da ciò che fu formato ciò che fu nome. Così nasce la differenza tra
gli ingenerati, dal principio al termine”.
*
“Chi viene al mondo è una goccia di Luce: viene al mondo per ricondursi nella
Sua custodia. Vincolo di dimenticanza volle Sophia, perché attraverso di lei
l’Onnipotente possa rivelarsi in questo modo povero nonostante la cecità
l’arroganza l’ignoranza con cui lo riempiono di nomi. Ma io sono giunto dai
luoghi superiori per volontà della Luce, io sono slegato da ogni vincolo; ho
spezzato l’opera dei ladri e dei bugiardi; ho trafugato la goccia di luce di
Sophia perché portasse frutto attraverso di me, perché la gloria si diffonda e i
suoi figli, non più imperfetti, possano ritornare al Padre. Io vengo per
estirparvi dall’oblio, perché l’impuro non si manifesti più: calpesto ogni
malvagio intento”.
*In copertina: William Blake, The Angel Michael Binding Satan, 1805 ca.
L'articolo “Oltrepassa la soglia del visibile”. Sulla Sapienza di Gesù Cristo
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