
La scrittura-incubo. Sui microgrammi di Robert Walser
Pangea - Saturday, December 6, 2025La passione dell’inesteso
Fin dai suoi esordi, la prosa di Walser ha soggiogato lettori come Hesse e Rilke, Kafka e Musil. Nessuno però ha sentito ciò che avviene in quella scrittura con l’intensità e l’intimità di Benjamin. Ma per contemplare Walser come mago taoista, artefice di una vera e propria riduzione dell’universo, Benjamin dovette attraversare i territori, apparentemente remoti, della grande Romantik.
A partire dallo studio giovanile sul Concetto di critica nel Romanticismo tedesco, Benjamin ha sempre concepito la letteratura come una particolare contrazione. La sua materia prima è il Witz, l’estensione minima della scrittura, sia che essa si manifesti nella brevità conclusa e perfetta dell’aforisma (Kraus) o in quella mobile e aperta del frammento (Novalis). Il balenio fulminante del Witz invade la mente come un’esplosione silenziosa:
«Tale abbagliamento – la luce sobria – spegne la molteplicità delle opere. È l’idea».
Questa frase apparentemente enigmatica di Benjamin si lascia comprendere alla luce della teoria critica di Friedrich Schlegel (raccolta negli austeri volumi della Kritische Ausgabe), secondo cui la riduzione estensiva della forma coincide col suo potenziamento intensivo. Ecco il primato, nella critica romantica, dell’inesteso: «Ogni idea witzig è un romanzo en miniature» (XVI, p. 205). Non l’opera ma il suo abbozzo, lo schema che contiene in sé le proprie ramificazioni, il germe atemporale in cui si agitano tutti i futuri possibili. Geniale ascolto di Leibniz, colui che «potenzia le cose verso l’interno in piccolo» (XVIII, p. 50): semplice come una monade, il Witz precede ogni distinzione logica, in esso tutte le contraddizioni e possibilità coabitano indivise – per questo resiste al calcolo del pensiero rappresentativo e della ragione strumentale. Di più: analizzare il Witz significa snaturarlo, torcendolo fino a privarlo dell’onnipotenza che gli è propria. «Una sola parola analitica, anche di lode, può spegnere immediatamente la migliore trovata di spirito» (II, p. 149); «Il Witz è un puro gioco del pensiero [Gedankenspiel], mentre l’intelletto lavora coi pensieri in vista di uno scopo e intenzionalmente» (XI, p. 92).
È questo il dominio mentale dentro cui fioriscono i microgrammi di Robert Walser (di cui Adelphi presenta ora un’antologia curata da Lucas Marco Gisi, Reto Sorg e Peter Stocker, nella traduzione di Giusi Drago),l’innominabile territorio della matita (Bleistiftgebiet) emerso da una scatola delle scarpe dopo la morte dell’autore: più di cinquecento fogli ricoperti da microscopici geroglifici tracciati a matita, alti due millimetri e ritenuti a lungo illeggibili – emanazione di qualcosa che nel suo stesso apparire cerca di occultarsi.

Ma cosa dicono – o tacciono – i microgrammi? L’oggetto di questa scrittura è la pratica della scrittura stessa:
«questo componimento, per quanto breve, piccolo ed esile, eppure capace all’occorrenza di andar vagabondando nelle lande del sapere».
Interrogandosi più volte sulla natura di questo gesto («Ancora questa piccola prosa, queste digressioni e diramazioni»), Walser si arrende alle «magiche esultanze di un problema che forse non mi si chiarirà mai in tutte le sue emanazioni».
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Vita e scrittura: sostituzione
Come ha ricordato Blanchot, parallelamente alla poetica del Witz, l’arte romantica concepisce «l’ambizione di un libro totale, una specie di Bibbia in continua crescita che non rappresenti il reale ma lo sostituisca» – idea che innerva il Livredi Mallarmé e il Passagen-Werk di Benjamin. Non l’imitazione di una cosa, ma il suo incenerirsi nella poesia: la realtà non viene descritta-imitata-indicata, ma sostituita da un gesto che nei suoi confronti non è più trasparente e subalterno. La parola dell’arte si addensa come una nube, che nell’opacità della propria caligine fa sparire la cosa. Del resto, per un tedesco l’idea della ‘densità’ (Dichte) è immanente alla stessa poesia (Dichtung).
Generare, nel gesto poetico, un cosmo parallelo – le prose e i versi che compongono i microgrammi di Walser partecipano programmaticamente di quest’ambizione romantica («Al momento vagheggio la creazione di un intero mondo»), in un radicale ascolto dell’adagio nietzscheano del mondo diventato favola («Ciò che scrivo sarà forse una favola… il mondo sembrava essersi del tutto artisticizzato»). E la prima cosa che l’arte vuole sussumere, annullare e sostituire è la stessa vita, la realtà opprimente, da cui l’anima è circondata e ustionata in ogni istante. In questo senso, a un’ideale donna amata, Walser scrive:
«Ti vorrei svestire,
come l’umanità vorrebbe liberarsi dal patire».
E se alcuni passi dei microgrammi potrebbero far pensare a un’idea di letteratura come triviale fuga estetica («Il nostro istinto ci consiglia di scrollarci di dosso tutto ciò che potrebbe essere adatto sia a frenare [il] volo della fantasia sia a moderare [l’appetito], col che alludo chiaramente all’appetito per la vita in generale, ove non sia più interessante chiedersi come dominarlo»; «sarò sincero, non è da oggi/ che il coraggio mi manca di vivere davvero,/ però vagando per le vie mai mi sono lasciato/ cadere, piuttosto nei lidi del cuore/ ho oscillato dal pallido al rosato»), occorre vedere la sistematicacostruzione parallela.
La copia del mondo è l’esposizione del mondo stesso: per questo il Passagen-Werk di Benjamin non parla di Parigi, ma èParigi – nella misura in cui essa si espone al cittadino-lettore nelle vetrine-frammenti dei suoi passages. (Così anche i carpentieri di Rimbaud: Dans leur Désert de mousse, tranquilles,/ Ils preparent les lambris preciéux/ Où la ville/ Peindra de faux cieux). È la teatralizzazione integrale del mondo, dove il mimo patisce ogni esperienza possibile per trasfigurarla sulla scena, aggiogando gli spettatori nell’illusione di vivere i suoi stessi dolori e le sue gioie. Walser è chiaro: l’attore è
«un’anima costretta a subire ingiustizia che, a dispetto di questa ingiustizia, si riafferma continuamente e si impone, [appropriandosi] di tutte le sensazioni di felicità e di sventura, e rendendo partecipi di tale spettacolo gli spettatori».
L’opera assoluta – oppiaceo definitivo – è il canto delle sirene proiettato su scala universale. Una musica che avvince nella dolcezza delle sue promesse, sensuale velo di broccato che non cela nulla dietro di sé. In questo incanto tutto viene assorbito, ed entrando nella melodia di questa finzione-illusione ogni epoca e ogni evento scolorano, in una sincronia dissipatrice, dove la singolarità concreta (l’evento) è sciolta nel morto tepore del liquido circostante: «i nostri punti di vista e i nostri modi di agire si appianano e si appianano di anno in anno, o forse anche di ora in ora» – parodia dell’estasi mistica di ispirazione eckhartiana, dove l’anima singola, apparentemente sussistente, sparisce e s’invera nella realissimaLuce divina.
È Walser stesso a parlare di «un suono/ che sempre più si perde divenendo,/ riecheggiando, finché il cuore lo dimentica/ che pure l’aveva ricordato nei giorni/ che vengono e vanno. Il ricordo consuma se stesso./ Alla fine sembra quasi [quasi che] niente sia accaduto». L’idea che questo suono di oblio si posi sulla storia – coprendone le grida e i dolori come un velo impenetrabile – ritorna insistentemente. E questo incanto universale – a metà fra il canto delle sirene di Omero e le dolci narrazioni di Sheherazade – è potente proprio per la sua silenziosa ubiquità: la musica di cui parla Walser «non veniva udita da nessuna delle orecchie presenti… La suddetta non serviva a essere ascoltata, bensì piuttosto a mettere in relazione le varie corporeità e a [scorare] i cuori, che essa sapeva trasformare in qualcosa di semplice» – un canto che magicamente ha già trasformato il mondo in immagine.

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Una regione senza nome
Il gorgo di questo programma estetico finisce per avvitarsi su se stesso, accelerando forsennatamente fino a una nuova, lucidissima immobilità – produzione del proprio contravveleno: come Benjamin, che oppose al programma onirico surrealista la ‘costellazione del risveglio’, Walser scrive: «Sono molto bravo a distrarmi, ma altrettanto bisognoso di riprender subito coscienza». Lo scossone che risveglia dal sogno della parola incantatrice induce Walser a dubitare della sua stessa capacità di controllare la scrittura: «Sono fin troppo fine per essere fine./…/ vacillo nel mio essere/ che desidera il delitto/ e rifiuta qualsiasi sorveglianza./ A stento so quel che dico/ le parole mi balzano fuori come leoni/ dalla prigione della bocca». Il sogno è un sepolcro, la tomba da cui lo scrittore risorge – obbligato a non poter dire lo sterminato, tremendo paesaggio che il sonno-oblio gli ha svelato, nel terrore della guerra che si consuma nelle sue tempie:
«A me sembra spesso
spaventoso quello che penso, e dalla notte
esco come una tomba di granito
e dal sonno spettrale come da un
passato
che scaglia intorno alle sue tempie
pallide immagini di molte
povere anime tormentate
e solo al mattino la mia vita torna a rasserenarsi.
A nessuno auguro di essere me.
Solo io sono capace di sopportarmi:
sapere così tanto e aver visto tanto e
così niente, così niente dire».
Come scrive Benjamin, l’andamento di questa scrittura è quello del viandante, ma un viandante ostacolato dall’ebbrezzadelle sue stesse parole: Walser «si incorona bacchicamente di ghirlande di parole che lo fanno inciampare e cadere». Questo pensiero che continuamente cade – nomade, innocente e svagato – è consustanziale ai personaggi di Walser, perché essi «hanno dietro di sé la follia, e per questo restano di una superficialità così straziante, così interamente inumana, così imperturbabile. Se si vuole indicare con una parola ciò che essi hanno di felice e inquietante, si può dire che sono tutti “guariti”».
Intuizione decisiva: Walser non trova nella follia lo sbocco, la distruzione redentrice del proprio itinerario speculativo, perché la follia è la sorgente, è ciò che precede e innerva questa scrittura-incubo – la stessa ‘scrittura del disastro’ che avrebbe poi forsennato l’ultimo Blanchot. Ma la follia di Walser è l’invasamento, centrifugo e centripeto a un tempo, di una mente-tutto: è Dioniso. I microgrammi walseriani sono il ritratto orfico del divino – lo specchio infranto ricade in scaglie ustionanti, il loro rovinare disegna i geroglifici a matita. La mania di questa scrittura è vera ‘guarigione’ perché abolisce l’illusorio ordine del calcolo logico e del tempo, che divide le cause (passato) dalle conseguenze (futuro). Regna e prolifera l’irriducibilità degli infiniti casi possibili, granelli di sabbia simultaneamente sparsi nel deserto infinito del cosmo. (Walser è lo scriba del Nulla: pratica il dissolvimento dell’universo, la smaterializzazione del mondo come sostanza – idea che dal solvere dell’operazione alchemica giunge all’ossessivo auflösen del Malte rilkeano. In questo senso, il taoismo walseriano trova la propria discendenza ideale nello gnosticismo di Beckett: il bianco gelido e vuoto di Molloy, lo stridere dell’Inizio delle ultime prose).
La follia traghetta nella realtà l’impossibile stesso – per questo i due scrittori più citati nei microgrammi sono Hölderlin e Nietzsche:
«un insieme di impossibilità racchiude [l’]attuazione di una possibilità… il caso Nietzsche ha forse un’affinità con il caso Hölderlin».
Infatti, se in Vita di poeta Hölderlin è descritto come l’«eroe in catene», capace di vivere solo in e di pura libertà(attingendo l’infanzia prelinguistica), nei microgrammi Nietzsche è il «filosofo propenso agli entusiasmi», che
«bisogna sempre tradurre in qualche altra dimensione, come se non avesse vissuto, amato, sofferto e imbastito-scritto volume dopo volume sulla Terra, bensì piuttosto su un pianeta straniero, bizzarro, ignoto».
Ma da dove scrivono Hölderlin e Nietzsche? Qual è il nome di questa regione ignota, dove follia e innocenza si confondono?
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La neve
Walser scrive che «vedere ed essere ciechi sono collegati… l’Illuminismo può essere una porta della ragione aperta o chiusa». Questo passo richiama il capolavoro Jakob von Gunten: «Gli occhi fanno da tramite ai pensieri e perciò li chiudo ogni tanto, per non essere costretto a pensare». I personaggi walseriani sono ‘guariti’ proprio in quanto liberi dal regno razionale dei motivi – del pensiero come visione destinata a un calcolo, e del calcolo come guadagno.
Il luogo di questa forma di vita è il dono, il gratuito spendersi-spandersi, un radicale ‘darsi via’ fino a scomparire.«Io amo colui l’anima del quale si dissipa e non vuol essere ringraziato, né dà qualcosa in cambio: giacché egli dona sempre e non vuol conservare se stesso», dice lo Zarathustra di Nietzsche. L’oltreuomo – che torna nella dépense di Bataille, nell’idea di dispendio autoassolvente – è un Gesù sine glossa: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà [ἀπολέσει], chi invece la perde [ἀπολέσῃ] la salverà» (Lc., 17, 33). Il verbo ἀπολέσω, ‘perdo’, nel senso di lasciar distruggere il perduto, traduce l’ebraico אבד: ‘perdere’ come perdersi, come essere perduto – o anche smarrirsi, errare come un disperso (Is., 27, 13).
E se la scrittura di Walser è l’andare di chi inciampa nelle parole ebbre e guarenti, nella prosa e nella poesia dei microgrammi prende forma questo dono radicale, talmente gratuito da essere automatismo involontario – l’impossibile da raggiungere mutato in necessità meccanica. È questa gratuità insostenibile a rendere la scrittura di Walser tanto spaventosa:
«Oh, questi rapporti basati sul dispensare pane… Proprio qui stava il prodigioso, l’impareggiabile, che lei gli dava il pane come un automa, in tutto e per tutto. L’automatismo era il bello della faccenda. Questo brano in prosa lo scrivo anch’io in modo del tutto meccanico, debbo confessarlo, e spero che ti piaccia proprio per questo. Mi auguro che ti piaccia al punto da farti tremare. Che sia per te, in un certo senso, una prosa terrificante».
Per questo in Jakob von Gunten gli apprendisti dell’Istituto Benjamenta (la scuola dei ‘figli della felicità’) non imparano altro che servire: donarsi fino alla fine è possibile solo se si rinuncia anche al pensare stesso, alle volizioni in esso implicite. La pura libertà – felicità raggiunta – sta in questo progressivo annullare ogni attaccamento, per questo nei microgrammi si legge che «chiunque abbia un po’ di rispetto per la [pur]ezza delle cose [cerca] la disaffezione piuttosto che l’affetto»;
«Voglio essere gentile con le persone, ma a patto di poter magnificamente rinunciare a tutti quanti… La mancanza di pretese è un’arma, forse una delle più splendide che ci siano».
La volontà di un io (inesistente, pura illusione) e la sua brama di possesso (su cose che sono anch’esse fantasmi) è sconfitta dall’innocenza del desiderio puro, dall’anelito del Nulla che opera un santo rimpicciolimento:
«chi desidera è piccolo. L’amore in quanto tale è grande, mentre il desiderio è un bambino. Quando il grande desidera, diventa piccolo».
Walser sa di essersi inoltrato irrimediabilmente in un regno che non ammette ritorni («Con questa storia assurda mi sono perso in territori sconosciuti»): in questa scrittura – dove i rapporti spazio-temporali della vita delle galassie e di una passeggiata in montagna pomeridiana coincidono – è possibile abbandonarsi al flusso di questo graduale, placido sparire. Fino a quell’inesteso che coincide, come germe potenziale, con l’intero universo.
È il sentimento di Empedocle, il brivido di una vita traboccante, la gratitudine di chi si tuffa nell’Etna – o inciampa nel candore della neve. E se nei Fratelli Tanner Walser profetizza la propria sparizione con cinquant’anni di anticipo, scrivendo di una morte sopraggiunta durante una passeggiata nella neve, nei microgrammi insiste con incomparabile dolcezza sulla giustizia di un simile compimento:
«Con ardore la neve si stringe al cuore ogni rumore, si trasforma in una casa dove regna il silenzio».
Tommaso Scarponi
*In copertina: Robert Walser (1878-1956)
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