La passione dell’inesteso
Fin dai suoi esordi, la prosa di Walser ha soggiogato lettori come Hesse e
Rilke, Kafka e Musil. Nessuno però ha sentito ciò che avviene in quella
scrittura con l’intensità e l’intimità di Benjamin. Ma per contemplare Walser
come mago taoista, artefice di una vera e propria riduzione dell’universo,
Benjamin dovette attraversare i territori, apparentemente remoti, della
grande Romantik.
A partire dallo studio giovanile sul Concetto di critica nel Romanticismo
tedesco, Benjamin ha sempre concepito la letteratura come una
particolare contrazione. La sua materia prima è il Witz, l’estensione minima
della scrittura, sia che essa si manifesti nella brevità conclusa e perfetta
dell’aforisma (Kraus) o in quella mobile e aperta del frammento (Novalis). Il
balenio fulminante del Witz invade la mente come un’esplosione silenziosa:
> «Tale abbagliamento – la luce sobria – spegne la molteplicità delle opere. È
> l’idea».
Questa frase apparentemente enigmatica di Benjamin si lascia comprendere alla
luce della teoria critica di Friedrich Schlegel (raccolta negli austeri volumi
della Kritische Ausgabe), secondo cui la riduzione estensiva della forma
coincide col suo potenziamento intensivo. Ecco il primato, nella critica
romantica, dell’inesteso: «Ogni idea witzig è un romanzo en miniature» (XVI, p.
205). Non l’opera ma il suo abbozzo, lo schema che contiene in sé le proprie
ramificazioni, il germe atemporale in cui si agitano tutti i futuri possibili.
Geniale ascolto di Leibniz, colui che «potenzia le cose verso l’interno in
piccolo» (XVIII, p. 50): semplice come una monade, il Witz precede ogni
distinzione logica, in esso tutte le contraddizioni e possibilità coabitano
indivise – per questo resiste al calcolo del pensiero rappresentativo e della
ragione strumentale. Di più: analizzare il Witz significa snaturarlo, torcendolo
fino a privarlo dell’onnipotenza che gli è propria. «Una sola parola analitica,
anche di lode, può spegnere immediatamente la migliore trovata di spirito» (II,
p. 149); «Il Witz è un puro gioco del pensiero [Gedankenspiel], mentre
l’intelletto lavora coi pensieri in vista di uno scopo e intenzionalmente» (XI,
p. 92).
È questo il dominio mentale dentro cui fioriscono i microgrammi di Robert Walser
(di cui Adelphi presenta ora un’antologia curata da Lucas Marco Gisi, Reto Sorg
e Peter Stocker, nella traduzione di Giusi Drago),l’innominabile territorio
della matita (Bleistiftgebiet) emerso da una scatola delle scarpe dopo la morte
dell’autore: più di cinquecento fogli ricoperti da microscopici geroglifici
tracciati a matita, alti due millimetri e ritenuti a lungo illeggibili –
emanazione di qualcosa che nel suo stesso apparire cerca di occultarsi.
Ma cosa dicono – o tacciono – i microgrammi? L’oggetto di questa scrittura è
la pratica della scrittura stessa:
> «questo componimento, per quanto breve, piccolo ed esile, eppure capace
> all’occorrenza di andar vagabondando nelle lande del sapere».
Interrogandosi più volte sulla natura di questo gesto («Ancora questa piccola
prosa, queste digressioni e diramazioni»), Walser si arrende alle «magiche
esultanze di un problema che forse non mi si chiarirà mai in tutte le sue
emanazioni».
*
Vita e scrittura: sostituzione
Come ha ricordato Blanchot, parallelamente alla poetica del Witz, l’arte
romantica concepisce «l’ambizione di un libro totale, una specie di Bibbia in
continua crescita che non rappresenti il reale ma lo sostituisca» – idea che
innerva il Livredi Mallarmé e il Passagen-Werk di Benjamin. Non l’imitazione di
una cosa, ma il suo incenerirsi nella poesia: la realtà non viene
descritta-imitata-indicata, ma sostituita da un gesto che nei suoi confronti non
è più trasparente e subalterno. La parola dell’arte si addensa come una nube,
che nell’opacità della propria caligine fa sparire la cosa. Del resto, per un
tedesco l’idea della ‘densità’ (Dichte) è immanente alla stessa poesia
(Dichtung).
Generare, nel gesto poetico, un cosmo parallelo – le prose e i versi che
compongono i microgrammi di Walser partecipano programmaticamente di
quest’ambizione romantica («Al momento vagheggio la creazione di un intero
mondo»), in un radicale ascolto dell’adagio nietzscheano del mondo diventato
favola («Ciò che scrivo sarà forse una favola… il mondo sembrava essersi del
tutto artisticizzato»). E la prima cosa che l’arte vuole sussumere, annullare e
sostituire è la stessa vita, la realtà opprimente, da cui l’anima è circondata e
ustionata in ogni istante. In questo senso, a un’ideale donna amata, Walser
scrive:
> «Ti vorrei svestire,
> come l’umanità vorrebbe liberarsi dal patire».
E se alcuni passi dei microgrammi potrebbero far pensare a un’idea di
letteratura come triviale fuga estetica («Il nostro istinto ci consiglia di
scrollarci di dosso tutto ciò che potrebbe essere adatto sia a frenare [il] volo
della fantasia sia a moderare [l’appetito], col che alludo chiaramente
all’appetito per la vita in generale, ove non sia più interessante chiedersi
come dominarlo»; «sarò sincero, non è da oggi/ che il coraggio mi manca di
vivere davvero,/ però vagando per le vie mai mi sono lasciato/ cadere, piuttosto
nei lidi del cuore/ ho oscillato dal pallido al rosato»), occorre vedere
la sistematicacostruzione parallela.
La copia del mondo è l’esposizione del mondo stesso: per questo
il Passagen-Werk di Benjamin non parla di Parigi, ma èParigi – nella misura in
cui essa si espone al cittadino-lettore nelle vetrine-frammenti dei
suoi passages. (Così anche i carpentieri di Rimbaud: Dans leur Désert de mousse,
tranquilles,/ Ils preparent les lambris preciéux/ Où la ville/ Peindra de faux
cieux). È la teatralizzazione integrale del mondo, dove il mimo patisce ogni
esperienza possibile per trasfigurarla sulla scena, aggiogando gli spettatori
nell’illusione di vivere i suoi stessi dolori e le sue gioie. Walser è chiaro:
l’attore è
> «un’anima costretta a subire ingiustizia che, a dispetto di questa
> ingiustizia, si riafferma continuamente e si impone, [appropriandosi] di tutte
> le sensazioni di felicità e di sventura, e rendendo partecipi di tale
> spettacolo gli spettatori».
L’opera assoluta – oppiaceo definitivo – è il canto delle sirene proiettato su
scala universale. Una musica che avvince nella dolcezza delle sue promesse,
sensuale velo di broccato che non cela nulla dietro di sé. In questo incanto
tutto viene assorbito, ed entrando nella melodia di questa finzione-illusione
ogni epoca e ogni evento scolorano, in una sincronia dissipatrice, dove la
singolarità concreta (l’evento) è sciolta nel morto tepore del liquido
circostante: «i nostri punti di vista e i nostri modi di agire si appianano e si
appianano di anno in anno, o forse anche di ora in ora» – parodia dell’estasi
mistica di ispirazione eckhartiana, dove l’anima
singola, apparentemente sussistente, sparisce e s’invera nella realissimaLuce
divina.
È Walser stesso a parlare di «un suono/ che sempre più si perde divenendo,/
riecheggiando, finché il cuore lo dimentica/ che pure l’aveva ricordato nei
giorni/ che vengono e vanno. Il ricordo consuma se stesso./ Alla fine sembra
quasi [quasi che] niente sia accaduto». L’idea che questo suono di oblio si posi
sulla storia – coprendone le grida e i dolori come un velo impenetrabile –
ritorna insistentemente. E questo incanto universale – a metà fra il canto delle
sirene di Omero e le dolci narrazioni di Sheherazade – è potente proprio per la
sua silenziosa ubiquità: la musica di cui parla Walser «non veniva udita da
nessuna delle orecchie presenti… La suddetta non serviva a essere ascoltata,
bensì piuttosto a mettere in relazione le varie corporeità e a [scorare] i
cuori, che essa sapeva trasformare in qualcosa di semplice» – un canto che
magicamente ha già trasformato il mondo in immagine.
*
Una regione senza nome
Il gorgo di questo programma estetico finisce per avvitarsi su se stesso,
accelerando forsennatamente fino a una nuova, lucidissima immobilità –
produzione del proprio contravveleno: come Benjamin, che oppose al programma
onirico surrealista la ‘costellazione del risveglio’, Walser scrive: «Sono molto
bravo a distrarmi, ma altrettanto bisognoso di riprender subito coscienza». Lo
scossone che risveglia dal sogno della parola incantatrice induce Walser a
dubitare della sua stessa capacità di controllare la scrittura: «Sono fin troppo
fine per essere fine./…/ vacillo nel mio essere/ che desidera il delitto/ e
rifiuta qualsiasi sorveglianza./ A stento so quel che dico/ le parole mi balzano
fuori come leoni/ dalla prigione della bocca». Il sogno è un sepolcro, la tomba
da cui lo scrittore risorge – obbligato a non poter dire lo sterminato, tremendo
paesaggio che il sonno-oblio gli ha svelato, nel terrore della guerra che si
consuma nelle sue tempie:
> «A me sembra spesso
> spaventoso quello che penso, e dalla notte
> esco come una tomba di granito
> e dal sonno spettrale come da un
> passato
> che scaglia intorno alle sue tempie
> pallide immagini di molte
> povere anime tormentate
> e solo al mattino la mia vita torna a rasserenarsi.
> A nessuno auguro di essere me.
> Solo io sono capace di sopportarmi:
> sapere così tanto e aver visto tanto e
> così niente, così niente dire».
Come scrive Benjamin, l’andamento di questa scrittura è quello del viandante, ma
un viandante ostacolato dall’ebbrezzadelle sue stesse parole: Walser «si
incorona bacchicamente di ghirlande di parole che lo fanno inciampare e cadere».
Questo pensiero che continuamente cade – nomade, innocente e svagato – è
consustanziale ai personaggi di Walser, perché essi «hanno dietro di sé la
follia, e per questo restano di una superficialità così straziante, così
interamente inumana, così imperturbabile. Se si vuole indicare con una parola
ciò che essi hanno di felice e inquietante, si può dire che sono tutti
“guariti”».
Intuizione decisiva: Walser non trova nella follia lo sbocco, la distruzione
redentrice del proprio itinerario speculativo, perché la follia è la sorgente, è
ciò che precede e innerva questa scrittura-incubo – la stessa ‘scrittura del
disastro’ che avrebbe poi forsennato l’ultimo Blanchot. Ma la follia di Walser è
l’invasamento, centrifugo e centripeto a un tempo, di una mente-tutto: è
Dioniso. I microgrammi walseriani sono il ritratto orfico del divino – lo
specchio infranto ricade in scaglie ustionanti, il loro rovinare disegna i
geroglifici a matita. La mania di questa scrittura è vera ‘guarigione’ perché
abolisce l’illusorio ordine del calcolo logico e del tempo, che divide
le cause (passato) dalle conseguenze (futuro). Regna e prolifera
l’irriducibilità degli infiniti casi possibili, granelli di sabbia
simultaneamente sparsi nel deserto infinito del cosmo. (Walser è lo scriba del
Nulla: pratica il dissolvimento dell’universo, la smaterializzazione del mondo
come sostanza – idea che dal solvere dell’operazione alchemica giunge
all’ossessivo auflösen del Malte rilkeano. In questo senso, il taoismo
walseriano trova la propria discendenza ideale nello gnosticismo di Beckett: il
bianco gelido e vuoto di Molloy, lo stridere dell’Inizio delle ultime prose).
La follia traghetta nella realtà l’impossibile stesso – per questo i due
scrittori più citati nei microgrammi sono Hölderlin e Nietzsche:
> «un insieme di impossibilità racchiude [l’]attuazione di una possibilità… il
> caso Nietzsche ha forse un’affinità con il caso Hölderlin».
Infatti, se in Vita di poeta Hölderlin è descritto come l’«eroe in catene»,
capace di vivere solo in e di pura libertà(attingendo
l’infanzia prelinguistica), nei microgrammi Nietzsche è il «filosofo propenso
agli entusiasmi», che
> «bisogna sempre tradurre in qualche altra dimensione, come se non avesse
> vissuto, amato, sofferto e imbastito-scritto volume dopo volume sulla Terra,
> bensì piuttosto su un pianeta straniero, bizzarro, ignoto».
Ma da dove scrivono Hölderlin e Nietzsche? Qual è il nome di questa regione
ignota, dove follia e innocenza si confondono?
*
La neve
Walser scrive che «vedere ed essere ciechi sono collegati… l’Illuminismo può
essere una porta della ragione aperta o chiusa». Questo passo richiama il
capolavoro Jakob von Gunten: «Gli occhi fanno da tramite ai pensieri e perciò li
chiudo ogni tanto, per non essere costretto a pensare». I personaggi walseriani
sono ‘guariti’ proprio in quanto liberi dal regno razionale dei motivi – del
pensiero come visione destinata a un calcolo, e del calcolo come guadagno.
Il luogo di questa forma di vita è il dono, il gratuito spendersi-spandersi, un
radicale ‘darsi via’ fino a scomparire.«Io amo colui l’anima del quale si
dissipa e non vuol essere ringraziato, né dà qualcosa in cambio: giacché egli
dona sempre e non vuol conservare se stesso», dice lo Zarathustra di Nietzsche.
L’oltreuomo – che torna nella dépense di Bataille, nell’idea di dispendio
autoassolvente – è un Gesù sine glossa: «Chi cercherà di salvare la propria vita
la perderà [ἀπολέσει], chi invece la perde [ἀπολέσῃ] la salverà» (Lc., 17, 33).
Il verbo ἀπολέσω, ‘perdo’, nel senso di lasciar distruggere il perduto, traduce
l’ebraico אבד: ‘perdere’ come perdersi, come essere perduto – o anche smarrirsi,
errare come un disperso (Is., 27, 13).
E se la scrittura di Walser è l’andare di chi inciampa nelle parole ebbre e
guarenti, nella prosa e nella poesia dei microgrammi prende forma questo dono
radicale, talmente gratuito da essere automatismo involontario – l’impossibile
da raggiungere mutato in necessità meccanica. È questa gratuità insostenibile a
rendere la scrittura di Walser tanto spaventosa:
> «Oh, questi rapporti basati sul dispensare pane… Proprio qui stava il
> prodigioso, l’impareggiabile, che lei gli dava il pane come un automa, in
> tutto e per tutto. L’automatismo era il bello della faccenda. Questo brano in
> prosa lo scrivo anch’io in modo del tutto meccanico, debbo confessarlo, e
> spero che ti piaccia proprio per questo. Mi auguro che ti piaccia al punto da
> farti tremare. Che sia per te, in un certo senso, una prosa terrificante».
Per questo in Jakob von Gunten gli apprendisti dell’Istituto Benjamenta (la
scuola dei ‘figli della felicità’) non imparano altro che servire: donarsi fino
alla fine è possibile solo se si rinuncia anche al pensare stesso, alle
volizioni in esso implicite. La pura libertà – felicità raggiunta – sta in
questo progressivo annullare ogni attaccamento, per questo nei microgrammi si
legge che «chiunque abbia un po’ di rispetto per la [pur]ezza delle cose [cerca]
la disaffezione piuttosto che l’affetto»;
> «Voglio essere gentile con le persone, ma a patto di poter magnificamente
> rinunciare a tutti quanti… La mancanza di pretese è un’arma, forse una delle
> più splendide che ci siano».
La volontà di un io (inesistente, pura illusione) e la sua brama di possesso (su
cose che sono anch’esse fantasmi) è sconfitta dall’innocenza del desiderio puro,
dall’anelito del Nulla che opera un santo rimpicciolimento:
> «chi desidera è piccolo. L’amore in quanto tale è grande, mentre il desiderio
> è un bambino. Quando il grande desidera, diventa piccolo».
Walser sa di essersi inoltrato irrimediabilmente in un regno che non ammette
ritorni («Con questa storia assurda mi sono perso in territori sconosciuti»): in
questa scrittura – dove i rapporti spazio-temporali della vita delle galassie e
di una passeggiata in montagna pomeridiana coincidono – è possibile abbandonarsi
al flusso di questo graduale, placido sparire. Fino a quell’inesteso che
coincide, come germe potenziale, con l’intero universo.
È il sentimento di Empedocle, il brivido di una vita traboccante, la gratitudine
di chi si tuffa nell’Etna – o inciampa nel candore della neve. E se nei Fratelli
Tanner Walser profetizza la propria sparizione con cinquant’anni di anticipo,
scrivendo di una morte sopraggiunta durante una passeggiata nella neve, nei
microgrammi insiste con incomparabile dolcezza sulla giustizia di un simile
compimento:
> «Con ardore la neve si stringe al cuore ogni rumore, si trasforma in una casa
> dove regna il silenzio».
Tommaso Scarponi
*In copertina: Robert Walser (1878-1956)
L'articolo La scrittura-incubo. Sui microgrammi di Robert Walser proviene da
Pangea.
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Un passo lieve, la strada sfiora una suola in una mattina come le altre; un uomo
lascia il suo scrittoio per abbandonarsi al ritmo dei marciapiedi, alle
preghiere dei vicoli che urlano monotonia. Dove comincia il senso delle cose?
Nella vastità dei palazzi o nella piega di un fazzoletto?
A volte è difficile gestire una trama quando, nel senso tradizionale, è di fatto
inesistente: racconto senza intreccio, svolgimento o epilogo; solo un io
narrante che decide, in un giorno qualunque, di uscire a passeggiare. Come se
fosse un diario, una confessione, una divagazione, Robert Walser crea un cammino
che non porta da nessuna parte. La meta non conta, è il vagare stesso, il farsi
condurre dall’invisibile.
> “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del
> genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti
> di passata librai e funzionari di banca […] Eppure ciò può avvenire, e io
> credo che in realtà sia avvvenuto.”
Il protagonista – che altri non è se non un alter ego dell’autore – si fa
minuscolo per poter ingigantire il mondo. L’estetica del dettaglio diviene
cosmologia: la cravatta osservata distrattamente, la tenda che ondeggia, la voce
ironica di un banchiere; l’atomo è cosmo, il dettaglio cattedrale.
La prima versione de La passeggiata, oggi edita nella versione italiana da
Adelphi, nasce nel 1917, tra le macerie di un’Europa ferita, destinata a
confondersi tra i rumori della storia e a brillare solo per chi sa fermarsi e
ascoltare la musica di sottofondo. Mentre i cannoni dettano il ritmo del
continente, Walser scrive il suo vangelo minore, trasformando l’ordinario in
epifania.
La vita di Walser è dello stesso tessuto fragile del suo libro. Nato nel 1878 a
Bienne, ultimo di una lunga schiera di fratelli, cresce in una Svizzera
periferica, discreta come lui. Lavora come impiegato, servitore, copista;
mestieri umili che lo avvicinano più ai margini che al centro. Pubblica racconti
e romanzi, alfabeti ridotti a pulviscolo, che incantano giganti come Kafka,
Musil, Canetti, Benjamin. Ma non cerca la ribalta. Walser preferisce dissolversi
nella sua lingua minuta, che un giorno diverrà davvero microscopica, nei
famosi microgrammi, fogli fittissimi di scrittura minuscola come polline. La sua
estetica definitiva è scomparire. Non lasciare monumenti, ma tracce. Non statue,
ma impronte di passi sulla neve.
> “Ero disperato. Sì, in realtà io non avevo più nulla da dire. […] Spento,
> estinto come una vecchia stufa. […] Andò a finire che mia sorella Lisa mi
> portò nella clinica Waldau. Ancora davanti alla porta d’ingresso le chiesi se
> quello che facevamo era giusto. Il silenzio di lei mi bastò. Che altro mi
> rimaneva se non entrare?”
Dal 1933, la sua esistenza si ritira nei sanatori con una prima diagnosi di
schizofrenia, poi mai riconfermata. Da quel momento inziano ventiquattro anni di
silenzio, trascorsi in istituti psichiatrici tra Berna e Appenzell, dove scrive
sempre meno fino a smettere. Walser muore il giorno di Natale del 1956, in un
campo di neve, riverso nel bianco durante una delle ultime passeggiate. Le
fotografie ne immortalano le orme e, più avanti, il corpo, avvolto in un
mantello nero, solo, pervaso dalla voglia di scomparire nel nulla.
> “L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire
> sono una cosa sola”.
Sappiamo bene che ogni autore ha la sua unità di misura; Walser con questo
racconto compone un’anti-epopea del quotidiano. Laddove i grandi romanzi
dell’Ottocento si dilatano in trame ciclopiche, lui restringe la lente fino a
cogliere il tremolio di una foglia o il sorriso sbiadito di un libraio. Non
dominare il mondo così da farsi sorprendere da esso.
> “Molte volte l’apparenza inganna, e l’esprimere un giudizio su qualcuno è
> meglio lasciarlo a lui stesso, giacchè un uomo che ne abbia vissute di tutte
> si conosce più a fondo di chiunque altro.”
È nel granello che si apre la più grande figura retorica che
governa La passeggiata: l’iperbole dell’infinitamente piccolo, dove un ciuffo
d’erba può valere più di un impero. Walser ricama la città, la miniaturizza,
come se ogni parola fosse un punto di ago su di un tessuto di brina. Lì dove
altri autori vedono un fondale, lui scorge un oceano.
C’è inoltre una retorica della leggerezza, in Walser, che tuttavia non scivola
mai nella frivolezza, anzi. La sua è una leggerezza gravosa, come un palloncino
che porta in sé il peso della malinconia. Le sue immagini e i suoi personaggi,
cesellati e ironici, sanno trasformare la passeggiata in un pellegrinaggio
laico, un atto di fede nell’insignificante.
> “Quando mai c’è stata un’anima che senza nulla sacrificare, abbia visto
> compirsi ogni sua ardita ispirazione, ogni dolce, sublime idea di felicità?”
Il narratore, pur occupando la scena, non è mai davvero protagonista. Walser
adotta una postura di auto-svanimento; egli parla, osserva, descrive, ma sempre
con una modestia che lo dissolve. È un io che si offre e si ritira, che si
mostra per rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe occulto. Le sue frasi
sono sentieri che non portano a lui, ma al paesaggio. Sono scale che salgono non
verso l’autore, ma verso la brezza che le attraversa.
Le frasi, lunghe, sinuose, sono esse stesse passeggiate; divagano, si perdono,
deviano, ritornano. Non sono mai rette, bensì curve, avvolgenti, labirintiche. È
la periodicità serpentina di una scrittura che preferisce l’ombra alla luce
diretta, l’allusione alla dichiarazione, il sorriso ironico al tono assertivo.
> “Sono pronto a riconoscere che la nautra e la vita umana mi appaiono come
> tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che
> ritengo sia da giudicare bello e fecondo.”
Non a caso, Walter Benjamin trova in Walser l’esempio della teologia del
minuscolo. L’opera di Walser sembra manifestare una politica della riduzione che
Benjamin teorizza a suo modo nelle Passagen-Werk. Entrambi sono attenti al
frammento come luogo rivelatore della storia. Per Benjamin la vetrina, la
réclame, il frammento urbano custodiscono la storia materiale; per Walser ogni
frammento custodisce una cosmologia privata.
Benjamin e Walser convergono nell’idea che l’attenzione al marginale apre una
conoscenza antigerarchica; il particolare diventa lente per leggere il generale.
Tuttavia qui la prassi diverge – Benjamin indaga il politico e lo storico in
quelle fessure; Walser li trasforma in esperienza estetica e morale, in modo
meno teorico e più lirico. Il loro incontro è fecondo perché mostra come il
frammento funzioni come vettore critico e come sublime ridotto.
L’opera di Walser, però, incontra anche altre ombre discrete. Come nei Saggi
di Montaigne, anche qui la divagazione è forma di verità, metodo. Montaigne
scivola da un aneddoto a un ricordo, costruendo un io curioso, sfaccettato;
Walser, nei suoi passi, porta la stessa pratica al limite della sparizione. Dove
il francese si moltiplica, lo svizzero si riduce.
Inoltre, dietro la leggerezza, affiora il passo come terapia, il camminare come
rimedio contro l’angoscia. Søren Kierkegaard percorreva le vie di Copenaghen per
non soccombere alla disperazione; in Walser si ritrova la stessa intuizione: il
movimento fisico come salvezza esistenziale. Solo che qui la cura non nasce da
una scelta tragica, ma dalla sospensione stessa della scelta, dal balsamo del
piccolo. Non a caso, a Herisau, luogo della morte di Walser, è stato inaugurato
un sentiero dedicato a lui (Robert Walser-Pfad).
> “Non perdete il desiderio di camminare; ho camminato fino ai miei migliori
> pensieri, e non conosco pensiero così gravoso da cui non si possa camminare
> lontano. […] Più si sta seduti, più ci si avvicina a sentirsi male. Salute e
> salvezza si possono trovare solo nel movimento… se uno continua a camminare,
> andrà tutto bene.”
>
> Søren Kierkegaard
In un’epoca che idolatra velocità, risultato e rumore, Walser è il santo patrono
del rallentare. Il suo libro è un vero e proprio manuale di invisibilità; ci
mostra come svanire per poter finalmente vedere. Ci insegna a essere distratti
con cura, a perdere tempo come forma suprema di attenzione. È un inno alla
lentezza, al vagare, al lasciarsi trasportare. Un invito a guardare i dettagli
dimenticati, a riconoscere la grandezza nel piccolo, a vivere come perdersi.
Walser compone dunque un’elegia al dettaglio, una litania dell’insignificante.
Il suo libro è fragile come il vetro, e dunque incorruttibile come la verità.
Solo chi si fa piccolo può toccare l’infinito, ma allora chi tocca veramente la
realtà, chi guarda o ciò che viene guardato?
Tommaso Filippucci
L'articolo Per un’estetica della scomparsa. Su Robert Walser, il santo patrono
dell’insignificante proviene da Pangea.
> «Ciò che non viene detto, ha la vita più forte, perché ogni dire ed ogni
> accennare toglie qualcosa all’oggetto, lo intacca, e così lo diminuisce».
Riflessioni del genere non possono venire che da un grande silenzioso come lo
scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956). Il più silenzioso dei
silenziosi. Un antidoto a un mondo come quello di oggi dominato dal
presenzialismo a tutti i costi, dalla facile indignazione, dalla protesta a buon
mercato, dallo spasmodico bisogno di apparire e di parlare anche quando non si
ha niente da dire. Leggerlo e conoscerlo vuol dire disintossicarsi dalla
stupidità dilagante per entrare in regioni dello spirito dove soffia un vento
sicuramente gelido, ma tonificante e salutare, che ci può aiutare a conservare
un minimo di dignità.
Sto parlando di uno scrittore unico e di una personalità originalissima, non
classificabile in nessun gruppo, in nessuna categoria o comunità. Un isolato
cultore della riservatezza e della povertà che non ha mai alzato la voce o
protestato; un uomo che ha fatto dell’assenza la sua religione e che si è
nascosto nelle pieghe della vita per salvarsi l’anima.
Se stiamo ai canoni esistenziali dominanti Walser è uno sconfitto dalla vita, un
perdente, ma se si impara a conoscerlo un po’ si capisce che in realtà è un
vincente. Sì, perché quest’uomo mite e inerme ha combattuto una lotta titanica e
probabilmente è uno dei pochi esseri umani che sia riuscito a non farsi
inghiottire da quell’ingranaggio infernale che ci stritola tutti, giorno per
giorno, ora per ora.
> «Non è forse bello che nella nostra esistenza rimanga qualcosa d’ignoto, di
> strano, come dietro un muro coperto d’edera? Questo le conferisce un fascino
> indicibile che sempre più si va perdendo. Oggi si ha voglia di tutto, ci
> s’impossessa di tutto con brutalità».
I protagonisti dei suoi romanzi e delle sue prose brevi sono sempre dei
perdigiorno o dei servitori che conducono un’esistenza insignificante, costretta
nei limiti imposti da qualche entità superiore. Ma è proprio in questa
subalternità il segreto. Solo mimetizzandosi in un ruolo anonimo è possibile
salvaguardare il proprio io, non essere identificati dal potere e non cadere
nella macina sociale.
Walser vede con grande lucidità il vuoto e il non senso della realtà ed è
convinto che per preservare un minimo di identità sia necessario abdicare alla
vita. L’unica via di salvezza è in un’apparente sconfitta. Da qui la sua
ossessione del “servire”. Dipendere da qualcuno o da qualcosa vuol dire
rinunciare a un’effimera affermazione della propria personalità, ma anche essere
esentati dal partecipare all’orrore del mondo.
Robert Walser (1878-1956)
La stessa biografia di Walser è una testimonianza di questa sofisticata e
silente tecnica di sopravvivenza. Prima si è dato a mille mestieri:
dall’apprendista in banca nella natia Biel al commesso di libreria, dal copista
al domestico in un continuo peregrinare tra la Svizzera e la Germania, quasi
sempre a piedi perché Robert Walser era un formidabile camminatore, nel senso
più nobile del termine come afferma Piero Citati:
> «Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la
> sua inquietudine, era la gioia, l’estasi. Dove poteva abitare, se la vita lo
> teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla
> pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida
> sull’erba sino alla discesa delle tenebre».
Poi, in seguito a certi suoi comportamenti e a crisi di ansia, nel gennaio del
1929, quando Walser ha cinquant’anni, viene ricoverato in una clinica per
malattie nervose vicino a Berna. Da allora, per ventisette anni, vivrà sempre in
case di cura, in un’assoluta solitudine, rinunciando anche a scrivere per
coltivare solo e soltanto il silenzio. Almeno ufficialmente. In realtà molti
anni dopo la sua morte si è scoperto che anche nei lunghi anni di ricovero
Walser aveva continuato a scrivere, ma lo aveva fatto alla sua maniera, in modo
nascosto; a matita, utilizzando fogli riciclati che trovava qua e là, e con una
grafia talmente minuta da risultare illeggibile a occhio nudo. Sono i suoi
cosiddetti microgrammi. Un altro modo per celarsi agli occhi del mondo.
Nei lunghi anni di ricovero l’unico contatto con l’esterno saranno le lunghe
passeggiate fatte in compagnia dell’amico Carl Seelig, che ci ha lasciato una
toccante e preziosa testimonianza con il libro Passeggiate con Robert Walser di
cui consiglio vivamente la lettura. Per il resto Walser passava le giornate
nella grande camerata con gli altri malati intento a piegare sacchetti di carta,
osservando in modo scrupoloso tutte le regole dell’istituto, anche le più
stupide e insensate, e quando l’amico Seelig gli propose un trasferimento che
migliorasse la sua situazione rifiutò in modo deciso. Non voleva avere privilegi
né tanto meno rientrare in contatto con il mondo e si proponeva soltanto di
soddisfare quella che una volta definì come la sua massima
aspirazione: «diventare uno zero assoluto».
> «Preferisco sparire, adesso. Certo, potevo scegliere un convento per
> chiudermici dentro e pregare, rispettato dalla chiesa e dai potenti. Ma forse
> è meglio il manicomio. Ci sono meno idee su Dio qui dentro, meno preghiere
> incomprensibili, meno riti da accettare. Qui si sopravvive calmi. Qui si è
> sicuramente malati. Certificazioni, esami, firme, diagnosi. Perché bisogna
> avere sempre la testa inquieta? Il mondo non è già abbastanza agitato? Almeno
> opponiamoci al furore. Qui deve esserci la quiete».
La mattina di Natale del 1956 Robert Walser uscì dall’istituto psichiatrico di
Herisau per una delle sue solite passeggiate. Da solo, nel silenzio più
assoluto. Qualche ora più tardi venne ritrovato morto in un pendio coperto di
neve. Giaceva disteso con la testa un po’ piegata, la bocca aperta e sul volto
aveva un’espressione che assomigliava a un lieve sorriso.
Silvano Calzini
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divenne uno zero assoluto proviene da Pangea.