“Scrivere poesie è come rapinare in banca”. Donald Hall o dell’ardore coniugale

Pangea - Thursday, December 11, 2025

Riuscì a far ridere Thomas S. Eliot, il poeta cardinalizio, il poeta-papa, per sempre serrato in una vaticana severità. Scrisse dell’“improvviso rimbombare della risata di Eliot”. Scrisse di una risata che squarciava i cieli. Nell’ufficio della Faber and Faber – in Russell Square, Londra – una fotografia di Pio XII fronteggiava quella di Virginia Woolf, l’antica amica. La prima grande intervista – di un ciclo mitico: “The Art of Poetry” – della “Paris Review”, è firmata, nel 1959, da Donald Hall. 

Trentenne – era nato a Hamden, Connecticut, nel settembre del 1928 –, Donald Hall aveva il profilo del predestinato, dello straordinario genio. Licenza ad Harvard, borsa di studio a Stanford, nel 1957 aveva curato, insieme a Robert Pack e a Louis Simpson, una notissima antologia di New Poets of England and America; Robert Frost – uno dei suoi lari: avevano giocato a softball insieme – aveva accettato di firmare la compassata introduzione. Come poeta, Hall aveva esordito, con Exile, nel 1952: il primo tomo di una bibliografia iliadica, che finirà per accumulare una cinquantina di libri. Eliot era il suo mito. Dodicenne, frequentava i ragazzi più grandi, che transitavano a Yale. Sentì parlare di Eliot. “Con la paghetta che mi davano i miei, mi comprai l’edizione delle poesie di Eliot. Costava due dollari e cinquanta centesimi. Decisi che sarei stato un poeta per il resto della vita – decisi di dedicare almeno due ore al giorno alla poesia, dopo la scuola. Continuo a farlo”. Un suo amico – “aveva sedici anni, mi pareva un vegliardo” – gli aveva detto che “scrivere poesie è come rapinare in banca. Pensai a Bonnie e Clyde. La cosa mi piacque da impazzire”. 

Figlio di buona famiglia – il padre era un uomo d’affari – Donald Hall, negli anni, otterrà tutti i premi che possiamo immaginare. Un paio di Guggenheim Fellowship – conquistati nel 1963 e nel 1972 – gli permisero di fare della poesia la propria rendita. Nominato “Poeta laureato” degli Stati Uniti nel 2006 – un paio di anni prima a ricoprire l’incarico c’era Louise Glück, futuro Nobel per la letteratura; lo sostituirà, nell’ambito ruolo, Charles Simic – quattro anni dopo viene onorato da Barack Obama con la National Medal of Arts. Harold Bloom lo ha inserito nel fatidico “Canone Occidentale”, insieme a Nabokov, Raymond Carver, Cormac McCarthy, Philip Roth e Thomas Pynchon. In Italia, la sua opera poetica è sistematicamente ignorata, chissà perché. 

Ma torniamo ai primordi. Donald Hall aveva il culto della franchezza, la capacità – rapace – di indentificare il ‘tono’ di un uomo attraverso uno sketch. Eccelleva negli aneddoti, come se la parte – la briciola di un’esistenza – racchiudesse in vitro il tutto. Dedicò la vita al racconto dei ‘maestri’, all’incessante ricerca dei ‘padri’: all’assidua acquiescenza di troppi – tradotto: l’estetica dei paraculo – preferì la sfacciataggine. Così, ad esempio, rievocando l’antica intervista a Eliot:

“Ci incontrammo preliminarmente a New York. Era tornato da una vacanza alle Bahamas, o da un posto del genere. Era abbronzato, snello, stupendo. Il che mi sorprese. Non lo incontravo da due o tre anni – nel frattempo, si era sposato con Valerie Fletcher. Che cambiamento! La prima volta che lo avevo visto, nel 1950, pareva un cadavere. Era pallido, curvo, rigido; tossiva ininterrottamente. Quell’uomo arcano, grave di antiche gentilezze, pareva adatto alla tomba. Fu così che lo rividi, più volte. Eppure, quel giorno era felice. Il secondo matrimonio lo aveva ringiovanito di vent’anni. Rideva, tenendo per mano la giovane moglie – era una persona totalmente diversa: più leggera, radiosa, disponibile”. 

Eliot che ride – abbronzato – mentre impugna il braccio della seconda moglie. Un’immagine capace di scardinare l’intero tempio di cattedratici pregiudizi accademici. Memorabile – per stare in tema – l’aneddoto. Da Mr. Eliot – il vate e il doge dell’editoria anglofona – si approssima un giovane poeta americano. Chiede consiglio: vorrebbe iscriversi a Oxford, seguendo il sentiero di studi percorso, quarant’anni prima, da Eliot. La risposta del poeta è spiazzante: “gli disse di fornirsi di biancheria intima di lana, a causa della forte umidità che trasuda dalle pietre di Oxford”. 

Oltre all’intervista a Eliot – introduzione di Pasquale Panella, anno di grazia 2000 – l’unica altra cosa di Donald Hall tradotta in Italia è l’intervista a Ezra Pound – introdotta da Mario Luzi, era il 1996, entrambi i tomi escono per minimum fax, oggi veleggiano nel mercato secondario. In origine, l’intervista esce nel 1962, sulla “Paris Review” – i poundologi la ritengono una delle migliori mai realizzate da ‘Ez’. Hall incontra Pound a Roma, nel 1960 – “non era ancora penetrato nel silenzio, ma il silenzio lo stava lentamente compenetrando” – in un bar. “Il cameriere lo riconobbe, non ci aveva mai visti insieme, fece un collegamento. Pronunciò alcune frasi in italiano. Non le capii. L’ultima parola era ‘figlio’. Pound mi fissò, fissò il cameriere. Disse ‘Sì’”.

L’intervista a Pound va letta insieme a Fragments of Ezra Pound, formidabile saggio biografico con cui Donald Hall chiude Old Poets. Reminiscences and Opinions: uscito nel 1979, costantemente ristampato, è uno dei libri folgoranti per comprendere la grande poesia americana del Novecento. Nella chiusa al lungo testo dedicato a Pound, Hall parla di un “vecchio Odisseo senza Penelope né Telemaco”, di un uomo che “non è salpato verso il Paradiso, ma ha scelto di tornare nel proprio Inferno”, di “una navigazione che non ha trovato porto”, del “vasto e nobile linguaggio di Ezra Pound”. Scrisse che “nessun uomo compie la sua vita o i suoi Cantos, perché siamo tutti un cumulo di frammenti. Soltanto in pochi solcano i mari”. 

Nei ringraziamenti, Donald Hall cita Jane Kenyon, “che è dentro e oltre ogni mio lavoro”. Si erano conosciuti ad Ann Arbor, Michigan, dove lui insegnava. Lei aveva poco più di vent’anni, abitava lì, indossava una bellezza schiva e la stola di un talento feroce, esatto, di quelli che per penuria di tempo terrestre devono bruciare tutto. Donald Hall fu abbacinato da quella figura, al contempo aggraziata e indocile. Si sposarono nel 1972 – vent’anni prima Donald si era unito alla prima moglie, Kirby Thompson, da cui aveva avuto due figli. Nel ’75, Jane e Donald mollano tutto – insegnamento, stabilità sociale, i fumi della fama – per ritirarsi a “Eagle Pond Farm”, la casa avita degli Hall, presso Wilmot, New Hampshire. Poco più di mille abitanti, campi, boschi, poco tempo per le frivolezze, la dedizione dei monaci e dei pionieri. Fu un amore folle, assertivo, confermato da una fede nella singolarità dell’altro che non può non affascinare. Lavoravano la terra, cucinavano, cucivano poesia. Donald Hall – poeta esuberante nel dominio della tavolozza lirica: capace di alternare la forma ‘chiusa’ ai più arditi esperimenti modernisti – sapeva che era lei, Jane, l’autentico genio: sapeva ascoltarla – sapevano litigare. Roso da un cancro al colon, curato da lei, lui riuscì a venirne fuori, smagrito, smarrito, è vero, ma coriaceo. Lei, curata da lui con la venerazione del pittore di icone, fu stroncata dalla leucemia: morì nel 1995, dopo vent’anni di vita insieme, ai confini di tutto il resto. 

È difficile rassettare in altro modo la parola coniugale: una congiunzione che trascende ogni altro essere, autenticamente terribile. Cosa che allea il cuore all’astro. Donald Hall fu squarciato, la poesia pareva essersi disseccata in Jane; la prima raccolta edita dopo la morte della Kenyon, Without, è una sorta di mefistofelico requiem. The Painted Bed, a dire di molti, è la più bella poesia di Donald Hall dedicata alla moglie: il letto coniugale è, al contempo, zattera e tomba, ventre e arca. Il riferimento odisseico è implicito. Chiude così:

“E ora giaccio sul letto dipinto
rimpicciolisco, concentrato
nel viaggio che inauguro 

per dormire senza dolore
nella reggia dell’oscurità
il mio corpo accanto al tuo”. 

Preferisco Weeds and Peonies – la leggete in calce all’articolo. È “la mia prima poesia dettata dal lutto”: Donald Hall tenta di coniugare il proprio stile a quello di Jane. Il risultato è forse una delle poesie più belle di Donald Hall in assoluto. Non è un caso se l’edizione dei Selected Poems of Donald Hall allestita per mano del poeta sia, in fondo, un gigantesco atto d’amore per Jane Kenyon: è lei la vera protagonista delle poesie e del Postscriptum finale (qui tradotto in parte). Siamo nel 2015 – Jane è morta vent’anni prima – Donald muore nel 2018 – non pubblicherà più nulla. 

Donald Hall e Jane Kenyon nel 1993

È raro scoprire delle ‘coppie’ letterarie; di solito, sono legate dal famelico desiderio di agire sulla cultura del proprio tempo (penso al mostro bifronte Sartre-de Beauvoir o Aragon-Triolet). L’unico legame analogo a quello tra Donald Hall e Jane Kenyon è il rapporto Sylvia Plath/Ted Hughes. In questo caso, però, le analogie sono per sovversione d’intenti e di stili: Sylvia & Ted raffigurano – fino all’esasperazione, fino all’insopportabile – l’emblema della coppia col cappio, della coppia cannibale. I due esistono per offrire materia da divorare all’altro – inevitabile che uno soccomba. Passione che svasa in deliquio, in lotta senza quartiere. Di entrambi, ricordiamo i calchi del rancore, la cagnara lirica, gli omerici litigi, il sabba; un amore in forma di condor. Non credo sia un caso che l’ultima opera di Hughes, la più nota (per frainteso), Lettere di compleanno, sia quella meno efficace: per amare l’antica moglie, il poeta deve farsi altro da sé, fino a modificare il proprio primigenio stile. 

Diversi per genio umano e per nitore lirico, Donald Hall e Jane Kenyon si sono fusi senza confondersi, si sono mangiati senza consumarsi – sono riusciti a consuonare. Dando al matrimonio un’accezione bianca, in favore stellare, di certo poco appetibile per i tabloid ma singolarmente eccezionale – per l’eccezione che la accerchia – per la storia della letteratura; ancor più – visto che la letteratura è cosa troppo piccola, infine futile – per il nostro conforto. 

Fu Peter A. Stitt a incaricarsi di intervistare Donald Hall per la “Paris Review”. Era l’autunno del 1991 – “The Art of Poetry No. 43”. Trent’anni prima, per quella stessa rivista, Donald Hall aveva intervistato Marianne Moore, la gran dama della poesia americana, idolatrata da Pound, premio Pulitzer, adorava Muhammad Ali e andava a vedere le partite di baseball con cappello a tricorno e nero mantello. Anche Hall giocava a baseball: la copertina lo immortala con la divisa dei “Pirates”, alacre in pinguèdine, nerobarbuto, savio incrocio tra un personaggio dei Peanuts e un maestro sufi. All’intervistatore disse che da ragazzino, dodicenne, adorava gli horror. “Qualcuno mi disse, se ti piace quella roba, leggi Edgar Allan Poe. Lo lessi – me ne innamorai – da grande volevo diventare Poe. La prima poesia che ho scritto, non è troppo macabra, ma imita Poe”. La prima poesia di Donald Hall, serbata come un monito, fa così: “Hai mai ragionato/ sulla prossimità della morte?/ Puzza in ogni angolo/ di notte strilla/ ti insegue per tutto il giorno/ fino al momento in cui/ con voce ferma e forte/ ripete il tuo nome./ Allora, allora, è la fine di tutto”. Il poeta giocò con le parole. Tutto, all, suonava come il suo cognome, Hall. La fine di Hall. 

Chissà come si chiamano gli uomini che muoiono più volte. Per essere un poeta, forse, un poeta deve morire le morti di tutti. 

**

Donald Hall, Postscriptum

A dodici anni ho scritto la prima poesia – a quattordici ho deciso che avrei scritto per tutta la vita. Non me ne pento. È strano, ma per me è una piacere ripercorrere questa vita, fatta di così tanti altezze e così tanti abissi. Nasce mio figlio, il mio carnefice; muore mio padre; sposo Jane Kenyon e ci trasferiamo nel New Hampshire; Jane prospera e scriviamo poesie assieme; Jane muore; io vivo, io invecchio. 

Se leggo le mie poesie in ordine cronologico, mi accorgo del mutamento di toni e di forme. Passo dalle strofe in metrica ai versi liberi; più tardi – per amore del mio vecchio amore, Thomas Hardy – torno alle forme chiuse. Non tutti i poeti cambiano stile come ho fatto io. La maggior parte si installa in uno stile. Come accade per la maggior parte degli scultori e dei pittori: non potremmo confondere un Cézanne con un Van Gogh. 

Quando Jane e io ci siamo trasferiti qui da Ann Arbor, dove insegnavo, eravamo felici del nuovo orizzonte. Amavamo stare da soli, in campagna, in compagnia della poesia; trascorrevamo le estati a falciare il fieno con mio nonno. Scrivevamo del luogo in cui stavamo vivendo. Scrivevamo l’uno dell’altra. Dopo che Jane morì di leucemia, a quarantasette anni, nel letto dipinto della nostra camera, per cinque anni non ho scritto che della sua morte. […]

Io e Jane lavoravamo assieme alle nostre poesie. Ignoravamo le prime bozze – è una cattiva abitudine; occorre attendere che una poesia si solidifichi – quando le poesie giungevano a una forma quasi definitiva, ciascuno si affidava all’altro, il suo primo e fidato lettore. Quando ripetevo una parola – un’abitudine acquistata da Yeats – Jane la cancellava. Quando usavo degli ausiliari, li cassavo, così “stava piovendo” diventava “pioveva”. Jane liberava i versi da metafore morte, sfinite dall’uso; sapeva la mia irascibilità sull’argomento. Esultava quando ne rintracciava qualcuna, tra le mie bozze “Perkins – Perkins ero io – ecco una metafora morta!”. Questi incontri erano fondamentali, non sempre facili. A volte eravamo cortesi – nessuno dei due faceva esattamente ciò che gli diceva l’altro. Ci aiutavamo moltissimo. Jane mi ha salvato da mille errori: limava la mia connaturata esuberanza, correggeva la sintassi. Di rado diceva che la poesia andava bene. A volte diceva “Ci sei quasi”, altre volte “Perkins, hai lavorato bene”. Desideravo con ardore i suoi elogi. Eppure, era essenziale essere privi di indulgenza. Ricordo una sera, era il 1992, eravamo in soggiorno, lei leggeva il mio Museum of Clear Ideas, una cosa del tutto diversa rispetto ai miei libri precedenti. Quando mi guardò, piangeva. “Perkins, non mi piace!”. Mi fulminò, feci per piangere anche io, “Va bene lo stesso, va bene lo stesso”, le dissi. 

Quanto meglio scriveva, quanti più onori riceveva, tanto più mi preoccupavo di non essere come Jane. Dopo la sua morte, non me ne preoccupai più. Scrissi per due. La prima poesia dettata dal lutto, Weeds and Peonies, usa parola che risuonano nell’opera di entrambi. 

**

Erbacce e peonie

Sbocciano le tue peonie, bianche come squarci di neve
maculate di rosso nell’irsuto essere
nella tua cinta di prodigi, presso il portico. 
Magnanimo fiore: lo porto a casa, lo metto
in una ciotola di vetro, a galleggiare – come facevi tu.

Piaceri ordinari, il contegno della memoria
soffiano come neve nel giardino disfatto
e soggiogano le margherite. Il tuo cappotto blu
svanisce verso Pond Road, diventa una tormenta 
immaginaria: Gus ti è al fianco, la sua coda pinneggia, 

ma tu non riappari, stanca e felice
e continui quarti di dolore appestano l’aria – 
come la bestia che abbaia per tutta la notte
come il gatto che si stira, poi si accuccia
e sogna i lattiginosi capezzoli della madre. 

Un procione ha decapitato il geranio nel vaso.
Fiori e radici sono uno strazio, a terra, 
nel retro, dove i gigli cominciano
le loro escursioni quotidiane sul muro di pietra:
è la stagione delle rose. Cammino avanti e indietro
tra le erbacce – le peonie

fissano con esatto candore il Kearsarge:
l’hai vinto, una volta, indossavi scarponi viola. 
“Torna presto e fai attenzione quando scendi”.
Le tue peonie inclinano l’enorme cranio
verso ovest. Vogliono cadere. Alcune, in effetti, cadono. 

**

Gracida ghiaccio il Kearsarge; dai rami
la neve s’innerva sulla neve; nessuna fiumana, no:
                        si muove restando immobile. Stasera 
                                   portiamo legna a piene braccia

dalla legnaia di Glenwood e costruiamo un fuoco
per tenere lontana la notte dalla finestra.
                        Siediti vicino alla stufa Jane Kenyon
                                   mentre porto il vino:

parleremo del tempo per passare il tempo
senza pretendere di poterlo mutare.
                        La tempesta esige di estinguersi 
                                   con macerie di betulle brillanti

in ginocchio sui sentieri coperti di brina.
Evita le previsioni meteo, che sorridono
                        felici per la tempesta
                                   prendi il giorno così com’è

e il gelo non santificherà più queste vecchie vie
perché già urla la raganella, la primavera trotta 
                        e il giorno è dato in dono proprio 
                                   a noi, i consoli di questo regno. 

*

Pomeriggio in riva allo stagno

                        Fu luglio
e furono sedate le nere mosche primaverili
            Furono pomeriggi verdi
                        sopra il muschio
presso l’oscurità di Eagle Pond: nei pertugi
delle forre sentiamo il richiamo delle strolaghe. 

                        Quei giorni:
folli di fievole felicità e grida di falchi.
            L’ambizione e la sua rabbia ci diede tregua
                        dimenticammo tutto
dimenticammo Jane Kenyon, non sapevamo chi fosse Donald Hall
sonnambuli, dardeggiavano sguardi su pagine dorate.

                        Un giorno
attraversammo i binari della ferrovia: tremavano
            nell’obliquo sole di agosto – 
                        chi dei due dormiva, chi leggeva
sotto la quercia, vicino allo stagno. 
Poi caddero le ghiande – e quei giorni furono la nostra fine. 

*

Ardore

Lei morì e urlai – il cane
era cupo e scappò via.
Ora non mi getto più
verso la parete
ricoperta di fotografie
non mi rivolgo più a lei
il mio “tu”, nelle poesie. Lei
è rientrata nel museo
di granito: JANE KENYON (1947-1995).

Ero vivo, al suo cospetto, ero
nel mio acme animale – 
sentore di predatore. 
La sua morte è la cosa peggiore
che mi potesse accadere – 
prendermi cura di lei è stata
la mia benedizione. 

Ma ora voglio chi non c’è
la donna dai volti volubili
e molteplici, che inventa metafore
e trita cipolle, che beve vino
mentre olia la pentola e canta
tra sé e sé perché cerca
di terminare una poesia.
Quando faccio l’amore, ora, 
qualcosa non funziona.
L’autunno scorso una donna
mi ha detto: “Diffido del tuo ardore”.

Inverno, Florida:
odio le vecchie coppie
della mia età che passeggiano
tenendosi per mano, odio
la loro carne flaccida. Fisso 
le giovani donne indignato
e lascivo: non sanno amare
né lavorare né morire. 

Le ore scorrono lente, le settimane
vanno sulle rapide del nulla. 
Sul greto di ogni giorno recito
i miei lamenti. Il dolore è illecito
e la lussuria, a letto, mi volta
le spalle: guarda da un’altra parte. 

*

Orologio Luna

Come una zattera nella subacquea dimora
degli spettri, a mezzanotte, tra lumi e pozze
d’ombra, sotto la luce fumante della luna piena
che riempie di neve il soffitto, vado alla deriva
lungo la marea di gennaio, di stanza in stanza, 
verso l’orologio a pendolo che batte come 
un cuore: attendo la pausa in cui si apre lo stretto
spiraglio verso il riposo – lì le onde si bloccano
impennate, di pietra, come lunatici leoni di Micene. 

*

Lupo coltello

dal diario di bordo di C.F. Hoyt, US Navy, 1826-1889

“Metà agosto, secondo anno
della mia prima spedizione polare, nevi e ghiaccio invernali
alle calcagna, Kantiuk e io
sfrecciammo con la slitta
lungo la Crispin Bay: cercavano i resti
della Spedizione Franklin. Ci abbatté la tempesta
e tornammo indietro e lottammo, cauti,
nella neve, per timore di mollare terra
avventurandoci su pianure di ghiaccio
alla deriva, abbandonati alla Provvidenza
dei mari. 

Verso il tramonto
sentii ringhiare alle mie spalle.
Kantiuk disse 
che due lupi, magri come le ossa
di una nave in naufragio, 
ci seguivano da un’ora – ora 
digrignavano i denti
preparandosi al banchetto.
Avevo poca carica per 
il fucile: si approssimava il secondo
inverno, razionavamo le provviste. 

Fu buio
non potemmo andare oltre
ci accampammo tra capanne 
di ghiaccio – anche i lupi
si fermarono, ringhiando 
appena oltre l’orizzonte
del nostro sguardo – sentivo 
i loro artigli arpionare il suolo. 
Kantiuk rise, disse che i lupi
erano rosi dalla fame. Alzai 
il fucile, pronto a sparare al primo
sperando di spaventare l’altro.

Kantiuk mi tirò via il fucile
rideva ripetendo
che i lupi avevano fame. 
Temevo che il mio vecchio
compagno di avventure fosse
folle, impazzito nella tempesta
tra cimase di ghiaccio
braccato dai lupi. Kantiuk 
rovistò nello zaino, tirò fuori
due coltelli – turnok li dicono gli Inuit – 
li affilò con fatica, da entrambi i lati:
avevano la violenza dei rasoi da barbiere – 
si avvicinò ai cani, raspò con le lame
la bestia più giovane: zoppicava
da un paio di giorni. 

Ricordo 
che pensai di puntare il fucile
contro Kantiuk mentre mi passava
accanto, con i coltelli rossi 
del sangue del nostro cane 
che aveva mugolato e sofferto e ora
era lì, morto, mentre cugini
e zii, affamati pure loro, lo fissavano – 
e conficcò i coltelli
nella neve. 

Immediatamente 
le vaghe grige forme dei lupi
si fecero solide, uscirono dall’oscurità
della neve, piombarono fameliche 
figure simili a corvi
a leccare il sangue dell’acciaio affilato.
La lama lacerò a tal punto
la lingua di quegli esseri
che il loro sangue sgorgava 
a profusione, e rimpiazzò quello 
del cane e mangiarono furiosamente
più di prima, mentre Kantiuk rideva
tenendosi i fianchi
e rideva. 

Risi anch’io
sollevato perché la Provvidenza
ci aveva concesso di vivere ancora
una volta – o forse perché trovavo ridicole – 
così lontano dalla mia terra, il Connecticut
in condizioni così estreme – quelle
creature tanto avide
da ingozzarsi del proprio sangue.
Crollarono, esangui, prima
uno poi l’altro, nella neve: 
Kantiuk recuperò 
i suoi turnok
dopo aver tagliato
la carne più morbida
dalla coscia di uno dei lupi – 
la mangiammo
grati, benedicendo il Creatore
che ci affama 
e che ci sfama”. 

Donald Hall

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