Costretto al letto dell’ospedale della “Conception” di Marsiglia, Arthur Rimbaud
scrive al direttore delle “Messaggeries maritimes”: vuole essere destinato
ad Aphinar, benché “completamente paralizzato”. Morirà il giorno dopo, il 10 di
novembre del 1891; aveva compiuto 37 anni il mese prima. Aphinar è un luogo che
non esiste, è parte, forse, di una geografia ctonia, è un lembo di aldilà. La
grafia di quella lettera è storpia, incomprensibile il dire, di uomo che
balbetta idolatrie d’idiota, stordito dal dolore; eppure, che stupenda bravata,
che colpo di fionda: Rimbaud muore sulla cresta dell’ultima
invenzione. Aphinar è la parola-chiavistello, la parola-faina che bracca la
morte, che sconcerta l’eterno. (E noi, lì, al suo capezzale, vorremmo scortare
il poeta che ha dimenticato di essere poeta, il poeta estremista, all’ultimo
imbarco, sulla carrozzina, paralizzato, e sussurrargli nenie, ninnoli di verbo,
e asciugargli la fronte, e pettinargli i capelli, e imboccarlo).
Come si sa, Rimbaud vive gli ultimi dieci anni della sua vita in Africa, per lo
più ad Harar, in Etiopia. Si dà al commercio di caffè e di utensili vari, tenta
– con formule fallimentari – di vendere armi a Menelik, negus dello Scioa, invia
alla “Société de géographie de Paris” un Rapport sur l’Ogadine di schietta
nitidezza, scevro da lirismi. In sostanza, si annoia. Prima dell’Africa, era
stato a Londra e a Vienna, a Bruxelles e a Milano, a Giava – con la casacca
della Legione Straniera olandese – e ad Alessandria d’Egitto. A Cipro pare abbia
incidentalmente ucciso un operaio, lavorava in una cava di pietre. Scarse le
fotografie che lo ritraggono, spesso consumate dal tempo: il volto indemoniato
dal pallore, di febbrile ingenuità; a tratti, il cranio, rasato a zero.
Nell’ottobre del 1873, come vuole la leggenda, Rimbaud festeggia i suoi
diciannove anni dimenticando, a Bruxelles, nei magazzini dell’“Alliance
typographique M-J. Poot et compagnie”, le copie fresche di stampa di Une Saison
en enfer. Quasi vent’anni dopo, rassicura “Sua Eccellenza” il Ras Maconnèn:
presto “tornerò all’Harar, per esercitarvi il commercio, come prima”. Il più
grande poeta della modernità, il poeta perpetuamente contemporaneo,
infinitamente fanciullo, ha abiurato la poesia – è possibile?
Un po’ tutti hanno preso per la giacca Rimbaud: Paul Verlaine ne ha fatto il
proprio personale “angelo in esilio”; la sorella Isabelle lo ha tradotto in un
santo; secondo l’esploratore novarese Ugo Ferrandi, “era un arabista e un
poliglotta dottissimo, spiegava e commentava il Corano agli indigeni” (in: Carlo
Zaghi, Rimbaud in Africa, Guida editori, 1993). A dire dell’aitante avventuriero
francese Jules Borelli – che lo aveva scortato in un viaggio tra Ancober, Entoto
e Harar, in luoghi fino ad allora mai toccati da piede europeo – il “mercante
Rimbaud… conosce l’arabo, parla l’amarico e l’oromoo. È instancabile.
L’attitudine ad apprendere le lingue, la grande forza di volontà, l’inesausta
pazienza lo rendono uno tra i viaggiatori più esperti” (ora, insieme al
resoconto di quel viaggio, in: Scioa. L’Africa di Arthur Rimbaud, Magog, 2024).
La biografia di Rimbaud è stata anatomizzata al millimetro, forse per carpire il
segreto della sua poesia, sfuggente, per sempre nuova, inadatta al canone. I
viaggi di Rimbaud sono diventati romanzi – ne cito due: Rimbaud a Giava di Jamie
James, Melville, 2016, e Rimbaud e la vedova (sulla breve tappa milanese), di
Edgardo Franzosini, Skira, 2020 –, gli studi biografici (critici, psichici,
ipnotici) sono diventati un genere letterario a sé stante. Nel 2008, per
l’editore Marietti, Adriano Marchetti ha assemblato una fiera lista di
“Interpreti francesi di Rimbaud” in un libro di stravagante bellezza, Rapsodia
selvaggia. Tra i cinquantacinque, autorevolissimi “interpreti” – da Mallarmé ad
Aragon, da Simone Weil a Tzvetan Todorov e Yves Bonnefoy – ne preferisco due. Il
primo è René Char, che in una specie di epistola lirica inneggia al malandrino
Arthur:
> “Hai fatto bene a partire, Arhtur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare
> il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie,
> per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”.
L’altro – più che altro, per l’austerità dello stile, per la cinerea postura – è
Julien Gracq, il quale ammira in Rimbaud “l’uomo che mantiene sempre
meravigliosamente le distanze”. Secondo Gracq, il carattere imperituro della
poesia di Rimbaud – garanzia di esistenza anche quando la lingua francese perirà
– è il suo essere “abbastanza inumana”.
È vero. La poesia di Rimbaud è pura metallurgia della fuga. Rimbaud non
chiede lettori – non chiede nulla in effetti. Rimbaud lascia tracce. I suoi
versi sono una mappa, una cartografia del non ritorno. Inseguire Rimbaud,
tuttavia, è il contrario della sequela: ciò che ci è donato non è il centuplo su
questa terra e il regno nella prossima. No. Rimbaud è il primo e il solo.
Rimbaud uccide i suoi discepoli. Rimbaud consegna agli affini il sacrario della
parola Aphinar; ci obbliga all’ennui, ai morbi di un’inquietudine che ghiaccia
le ossa, alla tigre in pieno petto. Non c’è alcun guadagno, alcun conforto dalla
lettura di Rimbaud, ma l’esilio nell’enigma, il punto – magnetico, è vero – in
cui tutte le certezze si sfasciano, in cui la poesia diventa rogo, suono, inno,
come ai tempi delle pitture magdaleniane, quando la stella mangiava alle nostre
mani, con il muso da sauro, e il poeta si trasformava in falco e volpe, pietra e
prato, biscia e vento.
Fernand Léger, Ritratto di Arthur Rimbaud, 1949
Mai si è scritto tanto di un poeta così violentemente reticente. Ardengo Soffici
andò in estro per quel ragazzo “che non ebbe paura di scendere giù per tutti i
gironi dell’inferno psicologico moderno per pescarvi il segreto di una bellezza
inusitata e folgorante” (così nel saggio su Arthur Rimbaud pubblicato nel 1911
nei “Quaderni della Voce”). Eppure, non seppe riconoscere in Dino Campana un
poeta altrettanto folgorante. Per decenni, Renato Minore si è insinuato nella
vita di Rimbaud, il “poeta dalle suole di vento” (il suo Rimbaud è uscito per
Mondadori nel 1991 e in edizione ampliata per Bompiani, nel 2019); l’esito della
ricerca è quasi ovvio: far rilucere l’enigma in sé, la nuda ecchimosi del
fuggiasco, la vita “esibita e impenetrabile a un tempo”. Quando l’ho
interpellato mi ha messo in guardia dal mito di Rimbaud, perché “Un mito è anche
una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di
tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e
di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta
Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la
stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le
lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto
che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa
dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero
bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud
accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che
scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia”.
Benjamin Fondane, il prodigioso pensatore amico di Emil Cioran, su Rimbaud, si
può dire, con ribalderia da bandito, ha fondato una filosofia (il suo Rimbaud le
voyou è attualmente edito in Italia da Castelvecchi); Victor Segalen ha scritto
forse il più commosso ed elusivo ritratto del poeta – Le Double Rimbaud, edito
nel 1906 su “Mercure de France” –, intimandoci di “Non cercare di capire”.
Forse Rimbaud ha esaudito le sue poesie nel vagabondaggio, diventando egli
stesso un “battello ebbro”. Forse, più prosaicamente, il ventenne roso dal dio
della giovinezza, il prediletto dal fato, ha preferito la vita allo scranno, il
veliero alla scrivania, l’Africa al marciume parigino. La poesia è stata una
parentesi, una ragazzata (una ragazzetta): il “ladro del fuoco” è diventato
fuoco, incede nell’incendio.
È proprio dei poeti pionieri – i rarissimi: Rimbaud, Friedrich Hölderlin,
William Blake, Emily Dickinson – abitare l’irriconoscenza, non riconoscere la
propria opera, obliarla, tra i nastri, nelle fauci di un baule, nella pazzia,
nella fuga.
Le poesie sono il lascito sinistro di Rimbaud: non possono stazionare su un
comodino, non si accomodano in una biblioteca. Queste poesie scalpitano, hanno
la criniera, recano vigoria di formula magica. Queste poesie agiscono, agitano.
Altro che Je est un autre: qui l’Altro ci fissa con occhi intimidatori. A volte
ha il volto di un Minotauro, altre della cincia, a volte è una betulla altre
volte un lupo.
Queste poesie fanno paura – la paura ci donerà un cuore barbaro, pronto di nuovo
a osare.
Davide Brullo
Pablo Picasso, Arthur Rimbaud, 1960
*
Vite
A dodici anni fui rinchiuso in una soffitta dove ho imparato il mondo, ho
illustrato la commedia umana. In una cella ho appreso la storia. In una qualche
festa notturna in una qualche città del Nord, ho incontrato tutte le donne dei
pittori antichi. In un vecchio vicolo di Parigi mi hanno insegnato le scienze
classiche. In una magnifica dimora cerchiata dall’intero Oriente ho compiuto la
mia immensa opera e ho passato il mio illustre ritiro. Ho sbrecciato il mio
sangue. Il dovere mi è rimesso. Non devo pensare più. Vengo davvero
dall’oltretomba, senza commissioni.
*
Sfridi
Plotoni di muri d’ombra: bastonano cani scheletrici,
*
Da dietro tartassava grottesche oscenità
Una rosa s’involava nel ventre del portiere
*
Bruna, aveva sedici anni quando la maritarono
……………………………………………………………….
E ora ama d’amore ardente il figlio di diciassette.
*
E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo.
*
Piove con dolcezza sulla città.
*
Quando la carovana dell’Iran si arrestò alla fontana di Ctesifonte, crebbe la
disperazione nel trovarla inerte. Alcuni accusarono i magi, altri gli imam. I
cammellieri si unirono alle imprecazioni… Si erano messi sulla via ormai da
molte lune… carichi d’incenso, di mirra e oro. Il loro capo gridò… soppesò di
sopprimerli… Certi accettarono.
*
All’assalto, o mia vita assente!
Arthur Rimbaud
*Per gentile concessione si pubblica la pagina introduttiva e una manciata di
testi, in traduzione inedita, da “Le più belle poesie di Arthur Rimbaud”,
Crocetti, 2025
In copertina: Arthur Rimbaud secondo Alberto Giacometti, 1962
L'articolo “E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo”. In fuga con
Rimbaud proviene da Pangea.
Tag - Magog
Friedrich Nietzsche era una scissione. Per molti versi,
la nostra scissione. L’uno, Friedrich, era l’esatto rovescio dell’altro,
Nietzsche: quanto più vitale, vorace, impietoso il primo, quanto più infermo,
mite e ingenuo il secondo. Il suo cervello, una spugna elettrica di portentosa
potenza, prosperava come un parassita a spese del resto del corpo. Il
compiaciuto Anticristo era “buono di cuore fino all’eccesso”, come egli stesso
riconosceva in privato. Sulla carta, dava vita a un pirotecnico teatro di
giudizi penetranti e quasi sempre azzeccati, pavoneggiandosi da primadonna
mentre trascorreva “un’esistenza da mansarda”.
La biografia di questo colosso parla di noi: della nostra infelicità, della
nostra tracotanza, della nostra piccolezza mascherata da grandezza. Il
disadattato Nietzsche è già stato, nel suo peculiare modo, ciò che noi siamo
oggi: il prototipo da laboratorio dell’umanità ferita e alienata, brulichìo di
atomi ognuno dei quali con la presunzione d’essere il centro
dell’universo. Nietzsche non solo pensò il vuoto che ci bracca da ogni lato: si
offrì come cavia. Visse una non-vita sinistramente simile a quella che,
nell’impero liquido e virtuale del nostro tempo, confina un po’ tutti noi nella
celletta d’isolamento digitale. Egli incarnò in anticipo, dilacerato fra corpo e
mente, la faustiana corsa al potere illimitato della mente, a cui corrisponde il
franare dell’integrità corporea. Di questa iper-modernità, ai suoi tempi sugli
altari, preconizzò e riassunse la degenerazione, l’esaurimento, il disagio. Si
intestardì a voler vincerli, anzi a darsi come confutazione vivente, da
trasvalutatore in trionfo. Voleva, sì. Ma non poteva. Il padre del Superuomo
era, dopo tutto, un uomo. Fragile e patetico come, sotto sotto, lo siamo tutti.
Prostrato da una miopia da talpa, visse modestamente grazie a una sorta di
pensione anticipata che l’ateneo di Basilea gli assegnò per riconosciuti meriti
per lo straordinario pedagogo che fu. Il suo fisico, in sé perfettamente sano,
si macerava in un grumo di contorcimenti psicosomatici: emicranie croniche,
vomito a ondate al minimo refolo emotivo, spossatezze prolungate, immobilità a
letto. I sintomi che avevano accompagnato alla tomba, a soli trentasei anni, il
padre Ludwig, prete luterano. La morte di questo papà che si dilettava al
pianoforte, tanto pio quanto malaticcio, rappresentò per Friedrich l’evento
fondante, lo spettro onnipresente di una fine prematura, la prefigurazione di un
decesso di ben altra portata: la morte di Dio.
Da bravo cocco di mamma e figlio spatrizzato, il sesso e l’intimità lo
sgomentavano. In questa paura della corporeità, è rintracciabile un punctum
dolens del nostro tragicomico quotidiano. Cosa sono, infatti, l’edonismo da
poveracci, il consumismo pseudo-sentimentale e il salutismo mortifero, se non la
farsa di una “grande salute” dietro cui si nasconde, e neanche tanto bene, il
terrore per la più piccola frustrazione? Più il corpo viene esibito,
sessualizzato e sbattuto ovunque, tanto meno è vissuto. Il dionisiaco, pagano,
gaio Nietzsche non aveva nulla di dionisiaco, di pagano, né di gaio. Lui lo
reprimeva. Noi lo pornografizziamo. Ma il risultato è identico.
Dannato a cogitare senza requie (“non ho mai tregua”), si nutriva di rabbia
narcisistica. Se Nietzsche non fosse stato Nietzsche ma un qualunque omiciattolo
odierno, l’avremmo compatito come una vittima comune dell’attuale narcisismo di
massa (noto anche come liberale, democratico individualismo). E gli avremmo
consigliato un bravo psicanalista. Ma per disgrazia sua – e fortuna nostra – a
quei tempi la psicoterapia era di là da venire. Se “curato”, probabilmente non
avremmo goduto dello splendore scabroso della sua opera.
Nietzsche nacque davvero “postumo”. Ora, se in privato era un abitudinario
angosciato e nevropatico, come filosofo Nietzsche era un brillantissimo
fuorilegge che batteva bandiera pirata: senza religione, senza patria e senza
famiglia, in nome della libertà dal pregiudizio fa terra bruciata intorno a sé,
espugnando e abbattendo tutto: metafisica, morale, scienza. Viveva “una missione
insolita e gravosa” che gli prescrive, dice, di “non legarsi più a nessuno”;
anche se, afferma, diffida dei “pensieri nati da un animo depresso e da viscere
in disordine”. Nel retropensiero di un amor fati che converte il fatalismo in
slancio attivistico, si intuisce il terrore di scoprirsi nei propri punti
deboli.
> “Egli – testimoniava un’amica – condannava tutta una serie di sentimenti nella
> loro forma accentuata, non perché non li aveva, bensì, al contrario, perché li
> aveva e ne conosceva la pericolosità”.
A confermarlo è lui stesso, sia pur intonando il ritornello della presunta
necessità:
> “L’assenza perpetua di un amore veramente rigenerante e salutare, l’assurda
> solitudine che essa comporta, al punto che quasi tutti i contatti che
> rimangono diventano fonte di sofferenza, è la situazione peggiore che ci si
> possa immaginare e ha un’unica giustificazione, quella cioè di essere
> necessaria”.
Nietzsche non riusciva ad accettare i suoi bisogni, giudicati indegni del
magniloquente simulacro che si era scolpito di sé (“anche sul più alto trono del
mondo siamo sempre seduti sul nostro culo”, diceva invece il saggio Montaigne).
E dunque proiettava la sua Ombra sul cosiddetto “debole”, sul “tipo umano della
degenerescenza”, sull’“incapacità di dominarsi, di non reagire ad un dato
stimolo”. Nient’altro che il suo autoritratto. Nell’ultimo anno di sanità
mentale, il gran misogino e gran misantropo precipitò verso il burrone a ritmo
di valanga. Una sovralimentazione psichica lo elevò al picco di produttività: a
testimoniarlo è il fulmicotonico Ecce homo, partorito negli ultimi mesi del
1888. Febbrile testamento ispirato dall’euforia che precede il tracollo, è il
documento principe dell’incipiente demenza che lo avrebbe portato gradualmente a
spegnersi fino al mutismo. Siamo al confronto finale, al
Nietzsche contra Nietzsche: da una parte il depresso, timido, complessato eterno
bambino, dall’altra il caustico, acuto, implacabile speculatore sovversivo. A
furia di decostruire ragionando terminò i suoi giorni, alla lettera,
sragionando. L’araldo della tragedia greca ne tradì lo spirito proprio nel suo
insegnamento centrale: non riconobbe limiti al pensiero dubitante, che
fatalmente finisce per autodistruggersi (“Cartesio non è abbastanza radicale per
me”). Il filosofo tragico par excellence commise il delitto di Edipo:
l’hybris che conduce alla cecità per aver voluto troppo vedere... Fissò la
Medusa negli occhi, e ne finì pietrificato.
Il “carnefice di se stesso” troppo a lungo dissezionatosi, il fautore dell’“uomo
tropicale” e della “barbarie controllata”, fu il primo nichilista e anche il
primo anti-nichilista. A metà, però. Da un lato, dopo di lui nessuna verità
ontologica è più credibile come tale: esistono solo verità prospettiche.
Derivative ma non equivalenti, perché le convinzioni, non più tarabili sul metro
di parametri astratti e universali, restano valutabili in base al grado di
vitalità, alla carica energetica, alla loro potenzialità dinamica. Non
relativismo, dunque, ma prospettivismo che sa collocare i fattori nel loro
contesto, giudicandone la necessità rispetto all’irradiazione di forza. In
definitiva, da Nietzsche in poi non è più possibile aver fede a cuor leggero in
alcunché, facilitandosi la vita al riparo di qualche fideismo fuori sincrono.
Non è ammissibile per nessuno dare più nulla per scontato: nessun punto fermo
resiste al benefico flagello del nichilismo radicale che spazza via ogni
felicità facile, ogni credenza confortevole, ogni realtà fittizia. In questo
senso, non si può non essere nicciani.
Ma non si può essere nemmeno niccisti, seguaci adoranti di chi avvertiva che si
ripaga male un maestro restandone sempre scolari. Per costituzione psicologica,
a Nietzsche era preclusa la maturità che si prova nel piacere di prendersi cura
di sé e degli altri. Tutti, prima o poi, ci ritroviamo in stato di bisogno, alla
ricerca di una mano, di un sostegno, di un incoraggiamento. È da questa mancanza
originaria, che accomuna in comune forti e deboli, dotati e meno dotati, che
sorge il vitalismo autentico, l’unico umanamente possibile. Non certo dal
glaciale volontarismo di un Nietzsche larvatamente transumanista, che
fantasticava di “allevare una razza di dominatori”, i famosi e fumosi “signori
della terra”, con metodi zootecnici, sopprimendo i “parassiti” e vaneggiando di
caste eugeneticamente selezionate mediante l’“annientamento di milioni di
malriusciti”. Nietzsche non è quel proto-nazista che è stato fatto passare: era
troppo intelligente, fine, ironico, anti-tedesco, alieno da ogni biologismo (e
oltretutto, anti-antisemita), per poter essere considerato tale. Ma che fosse un
razzista sociale e un apologeta dichiarato dell’immoralità, su questo non ci
piove.
Bisogna prenderlo con le pinze, Nietzsche. Salvarne la lezione insuperata e
rigettarne la parte malata. Il suo appello a rimanere “fedeli alla terra” è il
commovente grido di un uomo disperatamente moderno, sospeso nell’aria rarefatta
di chi ripudia le radici. Un uomo staccato dalla vita, che proprio per questo
furiosamente diceva di amarla: perché, di amarla veramente in tutti i suoi
aspetti, sublimi e mediocri, eccelsi e grotteschi, non gli riusciva. Era troppo
grande, il suo ribrezzo verso l’umano per com’è. E invece noi tutti siamo, come
anche Nietzsche, umani troppo umani. Tutti quanti sulla stessa barca. Tutti
quanti anime sitibonde d’approdo.
Alessio Mannino
**
Selezione di brani tratti da “Nietzsche contra Nietzsche”
Nietzsche, il martellatore di idoli
“Solo quando la società si divide in due caste una civiltà superiore può
prendere forma: da una parte chi lavora e dall’altra chi ozia, chi sa oziare. O
se vogliamo dirlo più incisivamente: la casta dei lavoratori forzati e la casta
dei lavoratori liberi. Il bisogno di distribuire socialmente la felicità è
secondario, per dare vita a una civiltà superiore. In tutti i casi, la casta
degli oziosi si caratterizza per la facoltà di soffrire, soffre di più, ha meno
gusto di vivere, ma ha un compito più grande”. (Umano troppo Umano).
*
“Compatire indebolisce. Compatendo va a moltiplicarsi la profusione di energia
che il soffrire già da solo comporta. Con la compassione la sofferenza si
diffonde come un contagio. E ci sono volte in cui la compassione provoca uno
spreco di forze sproporzionata rispetto alla quantità corrispondente alla sua
causa (come nel caso della morte del Nazareno). […] la compassione è un ostacolo
alla fonte, per la legge vitale che è il principio di selezione. […] Si arrivati
a definire la compassione una virtù, mentre in ogni morale aristocratica è
considerata un motivo di indebolimento”. (L’anticristo)
*
“La natura, per preservare la specie, deve sbarazzarsi dei malriusciti e degli
aborti viventi. E difatti il cristianesimo rappresenta per essi una potenza di
conservazione. Chi ama l’umanità sa che bisogna volere il sacrificio, per il
bene della specie: prescrivendo il sacrificio umano, è certamente un amore duro,
che esige un continuo superarsi (…)”. (Frammenti postumi)
*
“Per un sano, il malato è il massimo pericolo: i più forti non devono temere i
forti, ma i più deboli. Ma quanta consapevolezza c’è di questo? Ragionando su
vasta scala, non è la paura dell’uomo quella che bisognerebbe ridimensionare,
perché tale paura agisce sui forti perché siano forti e a volte spietati: è
questa paura, a dare la spinta al benriuscito. A dover essere temuta come un
rischio mortale dovrebbero essere piuttosto il disgusto dell’uomo e la pietà per
l’uomo. Se un bel giorno si unissero, il mondo non sfuggirebbe al manifestarsi
di una minaccia enormemente inquietante: le ultime volontà dell’uomo, la volontà
del nulla, il nichilismo. E in effetti, le avvisaglie di ciò sono parecchie”.
(Genealogia della morale)
*
“(…) la vita è, nella sua essenza, incorporazione, aggressione e oppressione
dell’altro da sé e dell’inferiore, è violenza, spietatezza, comando,
acquisizione o nel migliore dei casi sfruttamento. Ma perché poi continuare a
ricorrere a questi termini, su cui il tempo ha messo il sigillo dell’infamia? Si
prenda il corpo, rispetto al quale gli individui, come accade nelle sane società
aristocratiche, si considerano uguali: se è vitale e non già sulla via della
decomposizione, dovrebbe interagire con gli altri corpi facendo tutto quanto gli
individui non fanno fra loro: diventare volontà di potenza incarnata, volontà di
accrescimento, di espansione, di acquisizione, di conquista, poiché non ha il
suo motore in nessuna morale (anche qualora immorale…), ma nel fatto stesso di
essere vivo, in quanto la vita non è che volontà di potenziamento”. (Al di là
del bene e del male)
**
Nietzsche, umano molto umano
“Rinuncia completa: non ebbi né amicizie né relazioni, non potevo leggere un
libro, ogni arte era impossibile. Una cameretta con un letto, i pasti di un
asceta (…) – questa rinuncia fu totale tranne in una cosa: potevo darmi ai miei
pensieri. – Che altro avrei dovuto fare, del resto? Per la mia testa, in realtà,
questa è la cosa più dannosa: ma non so come avrei potuto evitarla”, 11
settembre 1879.
*
“Fin da quando ero bambino non ho trovato nessuno che avesse il mio stesso
tormento nel cuore e nella mente. Il che tuttora, e come sempre, mi obbliga a
presentarmi improvvisando, e spesso controvoglia, vestendo i panni di uno fra i
tipi umani oggi consentiti e compresi. Ma che si possa davvero fiorire soltanto
tra persone che hanno pensieri e volontà simili (fino a includere la dieta e lo
stile di vita), questo per me è dogma. Il mio problema è che non trovo nessuno.
(…) Quasi tutti i miei rapporti umani sono conseguenze di attacchi di
solitudine, da Overbeck a Rée, da Malwida a Köselitz – sono sempre stato felice
in modo ridicolo ogni qual volta ho trovato, o credevo di trovare, un angolo da
condividere con qualcuno”, 20 maggio 1885.
*
“È rarissimo che ancora mi giunga una voce amica. Ora sono solo,
inammissibilmente solo. E nella mia lotta oscura e senza quartiere contro tutto
quello che l’umanità ha adorato e amato fino ad oggi (…) mi sono trasformato io
stesso, senza neanche rendermene conto, in una caverna – in qualcosa di segreto,
che non si troverebbe più neanche se ci si mettesse d’impegno per scovarlo”, 12
febbraio 1888.
*
“Io penso di avere ormai sopportato cinque volte di più di quanto sia
sufficiente a un uomo normale per suicidarsi – e ancora non è finita. (…) Senza
il lavoro che mi dà una meta e senza l’improcrastinabilità di tale meta, io
sarei già morto. Ecco perché dico che a salvarmi la vita è stato Zarathustra,
mio figlio Zarathustra!”,metà luglio 1883.
*
“Non sono mancate le giornate nere, giorni e notti in cui non sapevo più che
senso aveva la mia vita e un abisso di disperazione mi prendeva alla gola, una
cosa che mai prima avevo provato. E con tutto ciò sono consapevole di non poter
scappare, né indietro, né a destra, né a sinistra: io non ho scelta. Ora come
ora a sostenermi è solo questo pensiero. Per tutto il resto, comunque, vivo
sotto tortura”, 3 febbraio 1888.
*
“La vita arriva per me all’apogeo: un paio d’anni ancora e la Terra tremerà,
centrata da un inimmaginabile fulmine. Te lo posso giurare: ho il potere di
modificare il modo di contare gli anni. Niente rimarrà in piedi, io non sono un
uomo: sono dinamite. La mia ‘Trasvalutazione di tutti i valori’, con il
titolo L’Anticristo, è pronta. Nei prossimi due anni devo far in modo di farla
tradurre in sette lingue: la prima edizione in un milione di copie circa”, 26
novembre 1888.
*
“(…) il mondo è trasfigurato: Dio vi è sceso. Non lo vede, come ogni cielo è in
festa? Mi sono insediato nel mio regno, farò sbattere il Papa in gattabuia e
fucilare Wilhelm, Bismarck e Stöcker. Il Crocifisso”, 3 gennaio 1889.
L'articolo “Buono di cuore fino all’eccesso”. Friedrich vs. Nietzsche. Storia di
una scissione proviene da Pangea.