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“Scrivere poesie è come rapinare in banca”. Donald Hall o dell’ardore coniugale
Riuscì a far ridere Thomas S. Eliot, il poeta cardinalizio, il poeta-papa, per sempre serrato in una vaticana severità. Scrisse dell’“improvviso rimbombare della risata di Eliot”. Scrisse di una risata che squarciava i cieli. Nell’ufficio della Faber and Faber – in Russell Square, Londra – una fotografia di Pio XII fronteggiava quella di Virginia Woolf, l’antica amica. La prima grande intervista – di un ciclo mitico: “The Art of Poetry” – della “Paris Review”, è firmata, nel 1959, da Donald Hall.  Trentenne – era nato a Hamden, Connecticut, nel settembre del 1928 –, Donald Hall aveva il profilo del predestinato, dello straordinario genio. Licenza ad Harvard, borsa di studio a Stanford, nel 1957 aveva curato, insieme a Robert Pack e a Louis Simpson, una notissima antologia di New Poets of England and America; Robert Frost – uno dei suoi lari: avevano giocato a softball insieme – aveva accettato di firmare la compassata introduzione. Come poeta, Hall aveva esordito, con Exile, nel 1952: il primo tomo di una bibliografia iliadica, che finirà per accumulare una cinquantina di libri. Eliot era il suo mito. Dodicenne, frequentava i ragazzi più grandi, che transitavano a Yale. Sentì parlare di Eliot. “Con la paghetta che mi davano i miei, mi comprai l’edizione delle poesie di Eliot. Costava due dollari e cinquanta centesimi. Decisi che sarei stato un poeta per il resto della vita – decisi di dedicare almeno due ore al giorno alla poesia, dopo la scuola. Continuo a farlo”. Un suo amico – “aveva sedici anni, mi pareva un vegliardo” – gli aveva detto che “scrivere poesie è come rapinare in banca. Pensai a Bonnie e Clyde. La cosa mi piacque da impazzire”.  Figlio di buona famiglia – il padre era un uomo d’affari – Donald Hall, negli anni, otterrà tutti i premi che possiamo immaginare. Un paio di Guggenheim Fellowship – conquistati nel 1963 e nel 1972 – gli permisero di fare della poesia la propria rendita. Nominato “Poeta laureato” degli Stati Uniti nel 2006 – un paio di anni prima a ricoprire l’incarico c’era Louise Glück, futuro Nobel per la letteratura; lo sostituirà, nell’ambito ruolo, Charles Simic – quattro anni dopo viene onorato da Barack Obama con la National Medal of Arts. Harold Bloom lo ha inserito nel fatidico “Canone Occidentale”, insieme a Nabokov, Raymond Carver, Cormac McCarthy, Philip Roth e Thomas Pynchon. In Italia, la sua opera poetica è sistematicamente ignorata, chissà perché.  Ma torniamo ai primordi. Donald Hall aveva il culto della franchezza, la capacità – rapace – di indentificare il ‘tono’ di un uomo attraverso uno sketch. Eccelleva negli aneddoti, come se la parte – la briciola di un’esistenza – racchiudesse in vitro il tutto. Dedicò la vita al racconto dei ‘maestri’, all’incessante ricerca dei ‘padri’: all’assidua acquiescenza di troppi – tradotto: l’estetica dei paraculo – preferì la sfacciataggine. Così, ad esempio, rievocando l’antica intervista a Eliot: > “Ci incontrammo preliminarmente a New York. Era tornato da una vacanza alle > Bahamas, o da un posto del genere. Era abbronzato, snello, stupendo. Il che mi > sorprese. Non lo incontravo da due o tre anni – nel frattempo, si era sposato > con Valerie Fletcher. Che cambiamento! La prima volta che lo avevo visto, nel > 1950, pareva un cadavere. Era pallido, curvo, rigido; tossiva > ininterrottamente. Quell’uomo arcano, grave di antiche gentilezze, pareva > adatto alla tomba. Fu così che lo rividi, più volte. Eppure, quel giorno era > felice. Il secondo matrimonio lo aveva ringiovanito di vent’anni. Rideva, > tenendo per mano la giovane moglie – era una persona totalmente diversa: più > leggera, radiosa, disponibile”.  Eliot che ride – abbronzato – mentre impugna il braccio della seconda moglie. Un’immagine capace di scardinare l’intero tempio di cattedratici pregiudizi accademici. Memorabile – per stare in tema – l’aneddoto. Da Mr. Eliot – il vate e il doge dell’editoria anglofona – si approssima un giovane poeta americano. Chiede consiglio: vorrebbe iscriversi a Oxford, seguendo il sentiero di studi percorso, quarant’anni prima, da Eliot. La risposta del poeta è spiazzante: “gli disse di fornirsi di biancheria intima di lana, a causa della forte umidità che trasuda dalle pietre di Oxford”.  Oltre all’intervista a Eliot – introduzione di Pasquale Panella, anno di grazia 2000 – l’unica altra cosa di Donald Hall tradotta in Italia è l’intervista a Ezra Pound – introdotta da Mario Luzi, era il 1996, entrambi i tomi escono per minimum fax, oggi veleggiano nel mercato secondario. In origine, l’intervista esce nel 1962, sulla “Paris Review” – i poundologi la ritengono una delle migliori mai realizzate da ‘Ez’. Hall incontra Pound a Roma, nel 1960 – “non era ancora penetrato nel silenzio, ma il silenzio lo stava lentamente compenetrando” – in un bar. “Il cameriere lo riconobbe, non ci aveva mai visti insieme, fece un collegamento. Pronunciò alcune frasi in italiano. Non le capii. L’ultima parola era ‘figlio’. Pound mi fissò, fissò il cameriere. Disse ‘Sì’”. L’intervista a Pound va letta insieme a Fragments of Ezra Pound, formidabile saggio biografico con cui Donald Hall chiude Old Poets. Reminiscences and Opinions: uscito nel 1979, costantemente ristampato, è uno dei libri folgoranti per comprendere la grande poesia americana del Novecento. Nella chiusa al lungo testo dedicato a Pound, Hall parla di un “vecchio Odisseo senza Penelope né Telemaco”, di un uomo che “non è salpato verso il Paradiso, ma ha scelto di tornare nel proprio Inferno”, di “una navigazione che non ha trovato porto”, del “vasto e nobile linguaggio di Ezra Pound”. Scrisse che “nessun uomo compie la sua vita o i suoi Cantos, perché siamo tutti un cumulo di frammenti. Soltanto in pochi solcano i mari”.  Nei ringraziamenti, Donald Hall cita Jane Kenyon, “che è dentro e oltre ogni mio lavoro”. Si erano conosciuti ad Ann Arbor, Michigan, dove lui insegnava. Lei aveva poco più di vent’anni, abitava lì, indossava una bellezza schiva e la stola di un talento feroce, esatto, di quelli che per penuria di tempo terrestre devono bruciare tutto. Donald Hall fu abbacinato da quella figura, al contempo aggraziata e indocile. Si sposarono nel 1972 – vent’anni prima Donald si era unito alla prima moglie, Kirby Thompson, da cui aveva avuto due figli. Nel ’75, Jane e Donald mollano tutto – insegnamento, stabilità sociale, i fumi della fama – per ritirarsi a “Eagle Pond Farm”, la casa avita degli Hall, presso Wilmot, New Hampshire. Poco più di mille abitanti, campi, boschi, poco tempo per le frivolezze, la dedizione dei monaci e dei pionieri. Fu un amore folle, assertivo, confermato da una fede nella singolarità dell’altro che non può non affascinare. Lavoravano la terra, cucinavano, cucivano poesia. Donald Hall – poeta esuberante nel dominio della tavolozza lirica: capace di alternare la forma ‘chiusa’ ai più arditi esperimenti modernisti – sapeva che era lei, Jane, l’autentico genio: sapeva ascoltarla – sapevano litigare. Roso da un cancro al colon, curato da lei, lui riuscì a venirne fuori, smagrito, smarrito, è vero, ma coriaceo. Lei, curata da lui con la venerazione del pittore di icone, fu stroncata dalla leucemia: morì nel 1995, dopo vent’anni di vita insieme, ai confini di tutto il resto.  È difficile rassettare in altro modo la parola coniugale: una congiunzione che trascende ogni altro essere, autenticamente terribile. Cosa che allea il cuore all’astro. Donald Hall fu squarciato, la poesia pareva essersi disseccata in Jane; la prima raccolta edita dopo la morte della Kenyon, Without, è una sorta di mefistofelico requiem. The Painted Bed, a dire di molti, è la più bella poesia di Donald Hall dedicata alla moglie: il letto coniugale è, al contempo, zattera e tomba, ventre e arca. Il riferimento odisseico è implicito. Chiude così: “E ora giaccio sul letto dipinto rimpicciolisco, concentrato nel viaggio che inauguro  per dormire senza dolore nella reggia dell’oscurità il mio corpo accanto al tuo”.  Preferisco Weeds and Peonies – la leggete in calce all’articolo. È “la mia prima poesia dettata dal lutto”: Donald Hall tenta di coniugare il proprio stile a quello di Jane. Il risultato è forse una delle poesie più belle di Donald Hall in assoluto. Non è un caso se l’edizione dei Selected Poems of Donald Hall allestita per mano del poeta sia, in fondo, un gigantesco atto d’amore per Jane Kenyon: è lei la vera protagonista delle poesie e del Postscriptum finale (qui tradotto in parte). Siamo nel 2015 – Jane è morta vent’anni prima – Donald muore nel 2018 – non pubblicherà più nulla.  Donald Hall e Jane Kenyon nel 1993 È raro scoprire delle ‘coppie’ letterarie; di solito, sono legate dal famelico desiderio di agire sulla cultura del proprio tempo (penso al mostro bifronte Sartre-de Beauvoir o Aragon-Triolet). L’unico legame analogo a quello tra Donald Hall e Jane Kenyon è il rapporto Sylvia Plath/Ted Hughes. In questo caso, però, le analogie sono per sovversione d’intenti e di stili: Sylvia & Ted raffigurano – fino all’esasperazione, fino all’insopportabile – l’emblema della coppia col cappio, della coppia cannibale. I due esistono per offrire materia da divorare all’altro – inevitabile che uno soccomba. Passione che svasa in deliquio, in lotta senza quartiere. Di entrambi, ricordiamo i calchi del rancore, la cagnara lirica, gli omerici litigi, il sabba; un amore in forma di condor. Non credo sia un caso che l’ultima opera di Hughes, la più nota (per frainteso), Lettere di compleanno, sia quella meno efficace: per amare l’antica moglie, il poeta deve farsi altro da sé, fino a modificare il proprio primigenio stile.  Diversi per genio umano e per nitore lirico, Donald Hall e Jane Kenyon si sono fusi senza confondersi, si sono mangiati senza consumarsi – sono riusciti a consuonare. Dando al matrimonio un’accezione bianca, in favore stellare, di certo poco appetibile per i tabloid ma singolarmente eccezionale – per l’eccezione che la accerchia – per la storia della letteratura; ancor più – visto che la letteratura è cosa troppo piccola, infine futile – per il nostro conforto.  Fu Peter A. Stitt a incaricarsi di intervistare Donald Hall per la “Paris Review”. Era l’autunno del 1991 – “The Art of Poetry No. 43”. Trent’anni prima, per quella stessa rivista, Donald Hall aveva intervistato Marianne Moore, la gran dama della poesia americana, idolatrata da Pound, premio Pulitzer, adorava Muhammad Ali e andava a vedere le partite di baseball con cappello a tricorno e nero mantello. Anche Hall giocava a baseball: la copertina lo immortala con la divisa dei “Pirates”, alacre in pinguèdine, nerobarbuto, savio incrocio tra un personaggio dei Peanuts e un maestro sufi. All’intervistatore disse che da ragazzino, dodicenne, adorava gli horror. “Qualcuno mi disse, se ti piace quella roba, leggi Edgar Allan Poe. Lo lessi – me ne innamorai – da grande volevo diventare Poe. La prima poesia che ho scritto, non è troppo macabra, ma imita Poe”. La prima poesia di Donald Hall, serbata come un monito, fa così: “Hai mai ragionato/ sulla prossimità della morte?/ Puzza in ogni angolo/ di notte strilla/ ti insegue per tutto il giorno/ fino al momento in cui/ con voce ferma e forte/ ripete il tuo nome./ Allora, allora, è la fine di tutto”. Il poeta giocò con le parole. Tutto, all, suonava come il suo cognome, Hall. La fine di Hall.  Chissà come si chiamano gli uomini che muoiono più volte. Per essere un poeta, forse, un poeta deve morire le morti di tutti.  ** Donald Hall, Postscriptum A dodici anni ho scritto la prima poesia – a quattordici ho deciso che avrei scritto per tutta la vita. Non me ne pento. È strano, ma per me è una piacere ripercorrere questa vita, fatta di così tanti altezze e così tanti abissi. Nasce mio figlio, il mio carnefice; muore mio padre; sposo Jane Kenyon e ci trasferiamo nel New Hampshire; Jane prospera e scriviamo poesie assieme; Jane muore; io vivo, io invecchio.  Se leggo le mie poesie in ordine cronologico, mi accorgo del mutamento di toni e di forme. Passo dalle strofe in metrica ai versi liberi; più tardi – per amore del mio vecchio amore, Thomas Hardy – torno alle forme chiuse. Non tutti i poeti cambiano stile come ho fatto io. La maggior parte si installa in uno stile. Come accade per la maggior parte degli scultori e dei pittori: non potremmo confondere un Cézanne con un Van Gogh.  Quando Jane e io ci siamo trasferiti qui da Ann Arbor, dove insegnavo, eravamo felici del nuovo orizzonte. Amavamo stare da soli, in campagna, in compagnia della poesia; trascorrevamo le estati a falciare il fieno con mio nonno. Scrivevamo del luogo in cui stavamo vivendo. Scrivevamo l’uno dell’altra. Dopo che Jane morì di leucemia, a quarantasette anni, nel letto dipinto della nostra camera, per cinque anni non ho scritto che della sua morte. […] Io e Jane lavoravamo assieme alle nostre poesie. Ignoravamo le prime bozze – è una cattiva abitudine; occorre attendere che una poesia si solidifichi – quando le poesie giungevano a una forma quasi definitiva, ciascuno si affidava all’altro, il suo primo e fidato lettore. Quando ripetevo una parola – un’abitudine acquistata da Yeats – Jane la cancellava. Quando usavo degli ausiliari, li cassavo, così “stava piovendo” diventava “pioveva”. Jane liberava i versi da metafore morte, sfinite dall’uso; sapeva la mia irascibilità sull’argomento. Esultava quando ne rintracciava qualcuna, tra le mie bozze “Perkins – Perkins ero io – ecco una metafora morta!”. Questi incontri erano fondamentali, non sempre facili. A volte eravamo cortesi – nessuno dei due faceva esattamente ciò che gli diceva l’altro. Ci aiutavamo moltissimo. Jane mi ha salvato da mille errori: limava la mia connaturata esuberanza, correggeva la sintassi. Di rado diceva che la poesia andava bene. A volte diceva “Ci sei quasi”, altre volte “Perkins, hai lavorato bene”. Desideravo con ardore i suoi elogi. Eppure, era essenziale essere privi di indulgenza. Ricordo una sera, era il 1992, eravamo in soggiorno, lei leggeva il mio Museum of Clear Ideas, una cosa del tutto diversa rispetto ai miei libri precedenti. Quando mi guardò, piangeva. “Perkins, non mi piace!”. Mi fulminò, feci per piangere anche io, “Va bene lo stesso, va bene lo stesso”, le dissi.  Quanto meglio scriveva, quanti più onori riceveva, tanto più mi preoccupavo di non essere come Jane. Dopo la sua morte, non me ne preoccupai più. Scrissi per due. La prima poesia dettata dal lutto, Weeds and Peonies, usa parola che risuonano nell’opera di entrambi.  ** Erbacce e peonie Sbocciano le tue peonie, bianche come squarci di neve maculate di rosso nell’irsuto essere nella tua cinta di prodigi, presso il portico.  Magnanimo fiore: lo porto a casa, lo metto in una ciotola di vetro, a galleggiare – come facevi tu. Piaceri ordinari, il contegno della memoria soffiano come neve nel giardino disfatto e soggiogano le margherite. Il tuo cappotto blu svanisce verso Pond Road, diventa una tormenta  immaginaria: Gus ti è al fianco, la sua coda pinneggia,  ma tu non riappari, stanca e felice e continui quarti di dolore appestano l’aria –  come la bestia che abbaia per tutta la notte come il gatto che si stira, poi si accuccia e sogna i lattiginosi capezzoli della madre.  Un procione ha decapitato il geranio nel vaso. Fiori e radici sono uno strazio, a terra,  nel retro, dove i gigli cominciano le loro escursioni quotidiane sul muro di pietra: è la stagione delle rose. Cammino avanti e indietro tra le erbacce – le peonie fissano con esatto candore il Kearsarge: l’hai vinto, una volta, indossavi scarponi viola.  “Torna presto e fai attenzione quando scendi”. Le tue peonie inclinano l’enorme cranio verso ovest. Vogliono cadere. Alcune, in effetti, cadono.  ** Gracida ghiaccio il Kearsarge; dai rami la neve s’innerva sulla neve; nessuna fiumana, no:                         si muove restando immobile. Stasera                                     portiamo legna a piene braccia dalla legnaia di Glenwood e costruiamo un fuoco per tenere lontana la notte dalla finestra.                         Siediti vicino alla stufa Jane Kenyon                                    mentre porto il vino: parleremo del tempo per passare il tempo senza pretendere di poterlo mutare.                         La tempesta esige di estinguersi                                     con macerie di betulle brillanti in ginocchio sui sentieri coperti di brina. Evita le previsioni meteo, che sorridono                         felici per la tempesta                                    prendi il giorno così com’è e il gelo non santificherà più queste vecchie vie perché già urla la raganella, la primavera trotta                          e il giorno è dato in dono proprio                                     a noi, i consoli di questo regno.  * Pomeriggio in riva allo stagno                         Fu luglio e furono sedate le nere mosche primaverili             Furono pomeriggi verdi                         sopra il muschio presso l’oscurità di Eagle Pond: nei pertugi delle forre sentiamo il richiamo delle strolaghe.                          Quei giorni: folli di fievole felicità e grida di falchi.             L’ambizione e la sua rabbia ci diede tregua                         dimenticammo tutto dimenticammo Jane Kenyon, non sapevamo chi fosse Donald Hall sonnambuli, dardeggiavano sguardi su pagine dorate.                         Un giorno attraversammo i binari della ferrovia: tremavano             nell’obliquo sole di agosto –                          chi dei due dormiva, chi leggeva sotto la quercia, vicino allo stagno.  Poi caddero le ghiande – e quei giorni furono la nostra fine.  * Ardore Lei morì e urlai – il cane era cupo e scappò via. Ora non mi getto più verso la parete ricoperta di fotografie non mi rivolgo più a lei il mio “tu”, nelle poesie. Lei è rientrata nel museo di granito: JANE KENYON (1947-1995). Ero vivo, al suo cospetto, ero nel mio acme animale –  sentore di predatore.  La sua morte è la cosa peggiore che mi potesse accadere –  prendermi cura di lei è stata la mia benedizione.  Ma ora voglio chi non c’è la donna dai volti volubili e molteplici, che inventa metafore e trita cipolle, che beve vino mentre olia la pentola e canta tra sé e sé perché cerca di terminare una poesia. Quando faccio l’amore, ora,  qualcosa non funziona. L’autunno scorso una donna mi ha detto: “Diffido del tuo ardore”. Inverno, Florida: odio le vecchie coppie della mia età che passeggiano tenendosi per mano, odio la loro carne flaccida. Fisso  le giovani donne indignato e lascivo: non sanno amare né lavorare né morire.  Le ore scorrono lente, le settimane vanno sulle rapide del nulla.  Sul greto di ogni giorno recito i miei lamenti. Il dolore è illecito e la lussuria, a letto, mi volta le spalle: guarda da un’altra parte.  * Orologio Luna Come una zattera nella subacquea dimora degli spettri, a mezzanotte, tra lumi e pozze d’ombra, sotto la luce fumante della luna piena che riempie di neve il soffitto, vado alla deriva lungo la marea di gennaio, di stanza in stanza,  verso l’orologio a pendolo che batte come  un cuore: attendo la pausa in cui si apre lo stretto spiraglio verso il riposo – lì le onde si bloccano impennate, di pietra, come lunatici leoni di Micene.  * Lupo coltello dal diario di bordo di C.F. Hoyt, US Navy, 1826-1889 “Metà agosto, secondo anno della mia prima spedizione polare, nevi e ghiaccio invernali alle calcagna, Kantiuk e io sfrecciammo con la slitta lungo la Crispin Bay: cercavano i resti della Spedizione Franklin. Ci abbatté la tempesta e tornammo indietro e lottammo, cauti, nella neve, per timore di mollare terra avventurandoci su pianure di ghiaccio alla deriva, abbandonati alla Provvidenza dei mari.  Verso il tramonto sentii ringhiare alle mie spalle. Kantiuk disse  che due lupi, magri come le ossa di una nave in naufragio,  ci seguivano da un’ora – ora  digrignavano i denti preparandosi al banchetto. Avevo poca carica per  il fucile: si approssimava il secondo inverno, razionavamo le provviste.  Fu buio non potemmo andare oltre ci accampammo tra capanne  di ghiaccio – anche i lupi si fermarono, ringhiando  appena oltre l’orizzonte del nostro sguardo – sentivo  i loro artigli arpionare il suolo.  Kantiuk rise, disse che i lupi erano rosi dalla fame. Alzai  il fucile, pronto a sparare al primo sperando di spaventare l’altro. Kantiuk mi tirò via il fucile rideva ripetendo che i lupi avevano fame.  Temevo che il mio vecchio compagno di avventure fosse folle, impazzito nella tempesta tra cimase di ghiaccio braccato dai lupi. Kantiuk  rovistò nello zaino, tirò fuori due coltelli – turnok li dicono gli Inuit –  li affilò con fatica, da entrambi i lati: avevano la violenza dei rasoi da barbiere –  si avvicinò ai cani, raspò con le lame la bestia più giovane: zoppicava da un paio di giorni.  Ricordo  che pensai di puntare il fucile contro Kantiuk mentre mi passava accanto, con i coltelli rossi  del sangue del nostro cane  che aveva mugolato e sofferto e ora era lì, morto, mentre cugini e zii, affamati pure loro, lo fissavano –  e conficcò i coltelli nella neve.  Immediatamente  le vaghe grige forme dei lupi si fecero solide, uscirono dall’oscurità della neve, piombarono fameliche  figure simili a corvi a leccare il sangue dell’acciaio affilato. La lama lacerò a tal punto la lingua di quegli esseri che il loro sangue sgorgava  a profusione, e rimpiazzò quello  del cane e mangiarono furiosamente più di prima, mentre Kantiuk rideva tenendosi i fianchi e rideva.  Risi anch’io sollevato perché la Provvidenza ci aveva concesso di vivere ancora una volta – o forse perché trovavo ridicole –  così lontano dalla mia terra, il Connecticut in condizioni così estreme – quelle creature tanto avide da ingozzarsi del proprio sangue. Crollarono, esangui, prima uno poi l’altro, nella neve:  Kantiuk recuperò  i suoi turnok dopo aver tagliato la carne più morbida dalla coscia di uno dei lupi –  la mangiammo grati, benedicendo il Creatore che ci affama  e che ci sfama”.  Donald Hall L'articolo “Scrivere poesie è come rapinare in banca”. Donald Hall o dell’ardore coniugale proviene da Pangea.
December 11, 2025 / Pangea
Jane Kenyon o della mistica domestica
Per il suo funerale scelse il salmo 139 – “tenebra mi annulla/ la notte è luce su di me”. L’amico Liam Rector, postura plastica da poeta, declamò i versi di Let Evening Come e Otherwise. Il celebrante accordò, a cappella, le note di Amazing Grace.  Aveva già opzionato il suo loculo, Jane Kenyon. Quindici anni prima, insieme al marito Donald Hall, in una terra siglata da cespi di betulle e granitiche querce del New Hampshire. L’acquisto officiò il matrimonio della coppia con il luogo – l’amena cittadina di Wilmot. Nell’avita tenuta di ‘Don’ – ove Jane giunse, si congiunse alle donne che ne avevano albergato le stanze.  * Si erano sposati per affetto, dunque per difetto, nel 1972. Accademico, il fato, con seducente banalità, dirottò la Kenyon, studentessa, presso il seminario di scrittura creativa di Hall all’Università del Michigan. Non emerse per talento, non affiorò per avvenenza. In dote, gli recò, imberbe, i suoi versi acerbi. Lui era reduce dall’unione con la prima moglie, Kirby Thompson – corredata di due figli –, la Kenyon da una liaison imbozzolata nella gioventù.  Condivisero l’amore per la poesia, una carnalità consueta e i gatti. Scarsamente appassionati, si amarono per conforto. Fu un legame di miti vertigini.  Alle nozze intervennero i parenti stretti. Jane non riportò memorie scritte di quel giorno. Unico sigillo, a testimonianza, il regalo di sua nonna Dora – una copia rilegata in pelle bianca della Bibbia di Re Giacomo.   Consacrazione di un epilogo, per il ventiduesimo anniversario Hall le donò un anello di tormalina rosa serrato da nove minuti diamanti. Lei lo battezzò “Please, don’t die”. La leucemia stillava piena egemonia. Jane Kenyon aveva appena intessuto le sue poesie più fauste. Morì un anno dopo, il 22 aprile 1995. Aveva quarantasette anni.  * Coronata d’alloro al tempo stesso – fu Poeta laureato del New Hampshire – se ne andò insignita di lirica reputazione. Dunque, in pace. Mal tollerò l’opprimente veste di poeta moglie di un poeta e avrebbe disprezzato postumi riscatti femminei alla Sylvia Plath. Pure, credette di abdicare alla vita. Ma preferì morire da poeta, che da suicida.  > «La mia fede in Dio, soprattutto l’idea che un credente è parte del corpo di > Cristo, mi ha impedito di farmi del male. […] Quando ho sofferto talmente > tanto da desiderare di non essere viva o cosciente… mi sono detta: “Se ti > ferisci, ferisci il corpo di Cristo, e Cristo è già stato ferito abbastanza”». * Oppressa dalla depressione – bipolare al focolare – generò Having It Out with Melancholy, versi afflitti d’atrabile e farmacologica soggezione. In epigrafe s’appellava a Čechov, suo mentore insieme a Keats. Depressione e poesia – come patogeno endogeno.  A stringare il morbo nel verbo, le scarne righe di Suggestion from a Friend – “Non saresti così depresso/ se davvero credessi in Dio”.  Rigettò ogni visione romantico-terapeutica del rapporto fra malattia e scrittura. Piuttosto, se ne avvalse per scopo clinico, cinico – la poesia per aumentare la comprensione della patologia. Pare prossima, di spirito e d’intenti, a Margiad Evans – autrice che sguainò la poesia contro l’epilessia. Rifiutò, dunque, di recitare il melodramma – promosso da certe poetesse – della rosea invasata, dell’artista rosa dalla follia.  * Votato a una mistica domestica – mai addomesticato – il suo verso divora nella dimora. Visuale, aurale, a scorporare dal corpo, mistico sito, il rito del poetare – irrompe lo Spirito Santo. Errante presenza – di stanza in stanza.  Jane Kenyon è poesia-annunciazione, poesia-apparizione, poesia-redentiva. Gregory Orr velatamente l’annoverò fra i poeti post-confessionali – la poesia autobiografica come bianca arma di sopravvivenza e riconciliazione col mondo. Di trasformazione – l’uso della lingua a emendare l’esperienza. Era disposta a capitolare, per non ricapitolare – in versi – la vita.  *  Madrina dell’anti-canone delle Plath e delle Sexton, Jane Kenyon – fanatica della mistica – si consacrò a Teresa D’Avila, Giuliana di Norwich. Quindi a Emily Dickinson ed Elizabeth Bishop – dai meandri del New England le condusse fino ai setosi dedali della Cina, con una sequela di letterarie lectures, salmodiando sulla loro opera. Nel 1979, alla cerimonia commemorativa della Bishop, franò nella commozione – ne ammirava il verso scarno, preciso, il linguaggio pressato. Beneficiò spesso del paragone con la Dickinson – la ricerca di Dio, della solitudine nella natura, il mistero della bellezza, il diafano legame fra depressione e gioia.  Fu, anzitutto, devota ad Anna Achmatova. Tradusse la russa con altera premessa – giudicando insoddisfacenti le rare versioni in circolazione, decretò di confezionare la propria.  Il marito, Hall, ammantato di un radicalismo poetico virato allo snobismo più estremo – nel 2006 nominato Poeta laureato degli Stati Uniti –, fu d’opposto avviso. Pur avendo costeggiato e corteggiato svariati generi della parola, prestò somma fedeltà al suo originale suono – in mancanza, riteneva inafferrabili le connessioni interne alla poesia. D’indole diversamente tirannica, entrambi rigettarono la traduzione come pratica ordinaria, grigio esercizio, servizio.     Il poeta Hayden Carruth qualificò la Kenyon quale Achmatova americana. Arduo immaginare due esistenze più dissimili. Contemplativa e apolitica, la poesia della Kenyon si nutrì nondimeno dello slancio slavo – s’apparentarono gli spiriti.   Della Venere di Odessa venerò la lirica succinta, la supremazia, imperiale, dell’immagine a scapito del simbolo – le sei poesie inizialmente tradotte furono incluse nella sua prima raccolta, From Room to Room (1978); confluite poi in Twenty Poems of Anna Akhmatova (Ally Press, 1985). * Lirismo tangibile, quello di Jane Kenyon. Mirava a una verità d’opale, epifania privata compressa nell’attimo. Digiuna di orpelli, scrittura prossima alle Scritture, ellittica, irrisolta, come l’onnipresente rimando al mondo naturale.  Il poeta Robert Hass la paragonò, per temi pastorali e cupe meditazioni, a Robert Frost – che pure aveva conosciuto suo marito anni prima – ma con uno sguardo più interiore.  All’immaginario imagista si appellò invece per non scivolare nell’astrazione – la poesia di Ezra Pound come monito e monile.  * Il giornalista Bill Moyer, nel 1993, effigiò Jane Kenyon e Donald Hall in un documentario – A Life Together – vincitore di un Emmy Award. Proiezione routinaria di un matrimonio fra poeti dominato da una viscosa discepolanza, sfociata in rivalità lirica. “È dannatamente duro con la mia prosa. Sarcastico. Quando parliamo di poesia, so di trovarmi su un terreno più solido, ma con la prosa può ridurmi in poltiglia” – così Jane, a commento del consorte. Lo diceva dispotico e possessivo. Ad ogni modo, l’ultimo atto letterario di Hall – morì nel 2018 – fu la cura e selezione di The Best Poems of Jane Kenyon (Graywolf Press). Riteneva gemmata, la consorte, dalla sua costola poetica.  * Coltivava narcisi e peonie, Jane. Poesia e giardinaggio come suoi talenti privati – il connubio ricorda la schiva scrittrice italiana Pia Pera, che pure tradusse i russi, fra tutti Čechov e Puškin. Entrambe, arti intrise di morte e resurrezione. Lottò con la fede, la Kenyon – educata con metodo metodista. Aveva paura di Dio. Finché una domenica, nella nivea chiesa di Wilmot, il ministro Jack Jensen evocò Rainer Maria Rilke nel suo sermone. Col tempo, la sua vita religiosa invase la sua vita letteraria. In Robert Bly intuì la dimensione spirituale della poesia – a sublimare il sublime. Patrocinò una funzione sacerdotale del poeta.  * Per la sepoltura, Hall scelse di drappeggiare sul corpo di sua moglie una salwar kamiz bianca e un foulard sulla spalla sinistra provenienti dall’India – c’erano stati insieme due volte. Fra le dita, ossute e incrociate – ornamento d’eterno – la fede nuziale. Le baciò per l’ultima volta le labbra, fredde e rigide. Lapidario, scolpito nel nero marmo della lapide, l’epitaffio recita un verso di Jane.     > Credo nei miracoli dell’arte, ma quale  > prodigio ti terrà al sicuro al mio fianco? L’aveva composto per osteggiare la morte di Donald – svilito, all’epoca, da un cancro. All’ombra delle sue parole, oggi, riposano entrambi. Ogni poetica contesa è trascesa.  Fabrizia Sabbatini * Il pipistrello Leggevo del razionalismo,  il genere di cose che facciamo al nord  all’esordio d’inverno, dove il sole  abdica al giorno alle 4:15. Forse il mondo è intelligibile  al genio razionale; forse accendiamo lampade al crepuscolo  per nulla… Poi ho udito delle ali sopra la testa. I gatti ed io abbiamo inseguito il pipistrello  in tondo – soggiorno, cucina,  ripostiglio, cucina, soggiorno… A ogni giro ci sfuggiva come l’identità del terzo  della Trinità: colui  che ha parlato per mezzo dei profeti,  colui che ha sorpreso Maria  apparendo all’improvviso. Jane Kenyon *Per la prima volta in Italia, una antologia delle poesie di Jane Kenyon è edita dalle edizioni Magog, a cura di Fabrizia Sabbatini L'articolo Jane Kenyon o della mistica domestica proviene da Pangea.
December 5, 2025 / Pangea