In una fotografia scattata probabilmente nel 1932 – così dice la nota della casa
d’aste che l’ha venduta – René Daumal, sdraiato sopra un casotto, sembra
precipitare. Ha le braccia aperte, gli occhi e la bocca serrati, in estasi: lo
sorregge, da sotto, fiera della propria incertezza, Véra Milanova, che all’epoca
non è ancora sua moglie. René pare un angelo in volo contrario, ad arare il
cielo; siamo in un parco cittadino, gli alberi spettri; nel casotto, chissà, ci
sono degli attrezzi per il giardinaggio – forse è rinchiuso un centauro.
Dieci anni prima, al liceo di Reims, insieme a un paio di compagni, Roger
Gilbert-Lecomte e Roger Vailland, Daumal animava i “Phrères simplistes”, una
società iniziatica, una sorta di setta dei poeti estinti, che intendeva
dischiudere i mondi grazie al potere lisergico del linguaggio. Il padre di René,
Léon, era un professore, di fede socialista; il nonno, apicultore,
anticlericale, stregone alla bisogna. L’Alchimie du Verbe di Rimbaud fornì a
Daumal un ‘codice’ per stare al mondo:
> “Mi piacevano le pitture idiote… la letteratura fuori moda… racconti di fate,
> libretti per bambini… credevo a tutti gli incanti”.
Nel 1932 René Daumal ha già esperito tutto: non gli resta che espiare,
espatriare dal proprio tempo. Insieme agli amici del liceo, nel 1928, aveva
fondato “Le Grand Jeu”, una rivista, è scritto nel manifesto programmatico,
“alla ricerca dell’essenziale”. Già, ma cos’è questo essenziale? I redattori –
con le formule caotiche di chi vuole delegittimare il linguaggio – parlavano di
“vera morte” e di “vera follia” (quella “impotente come il sole… la follia senza
speranza di chi viene sgozzato come un cane”). Nell’introduzione al primo numero
– ne seguiranno altri due, fino al 1930 – Gilbert-Lecomte è laconico:
> “assorbiremo tutto, inghiottiremo Dio fino a diventare trasparenti, fino a
> sparire”.
Si scrive, d’altronde, per cancellarsi – esercizio di flagellazione.
Nelle fotografie di quegli anni, Daumal indossa strani occhiali, ha la posa del
santone, quella faccia sigillata, severa. Un fachiro a Parigi. Intanto, aveva
liquidato André Breton, il doge del Surrealismo, che voleva affiliare a sé quel
manipolo di affiatati ragazzi:
> “Curatevi di comparire nei manuali di storia della letteratura, Breton: per
> noi, sarà un onore essere ricordati dai posteri nella storia dei cataclismi”.
Così gli aveva scritto. Quello stesso anno – il 1930 – al Café Figon in St.
Germain, Daumal conosce Alexandre de Salzmann, artista georgiano di enigmatico
fascino, che lo introduce agli insegnamenti di Gurdjieff. Per Daumal è
l’incontro della vita.
Anni prima, aveva discusso con Simone Weil la necessità di imparare il
sanscrito, di ricongiungersi con l’antica sapienza indiana. Il suo professore,
Alain, “il più originale saggista e moralista della Terza Repubblica” – così la
nota ai Cento e un ragionamenti editi da Einaudi nel 1960, a cura di Sergio
Solmi – aveva scritto che
> “Tutti gli uomini che sono ora in vita non fanno che rivivere: sono tutti
> usciti da un vecchio involucro con un corpo ringiovanito; trascinano tutti con
> sé ricordi antichi almeno quanto il rosso fango quaternario nel quale
> sospingono l’aratro”.
Già: ma come coniugare la vita e la morte, i vivi e i morti, l’India, l’io, il
non-io, la parola che risana e quella che resuscita? Nel Vangelo di Marco è
scritto che “quelli che credono scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove…
imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (16, 17-18). Come attingere
alla parola che vince il male e sana i malati? Come raggiungere le “lingue
nuove”? Come credere nell’incredibile?
Daumal era disgustato dalla letteratura, dall’intrattenimento, dalla polluzione
delle avanguardie.
Erano anni, quelli, in cui un po’ tutti, pur assisi sulla tolda delle loro belle
scrivanie, si disorientavano a Oriente e in ogni dove. Ezra Pound aveva optato
per Confucio e il teatro No giapponese; Thomas S. Eliot alternava il buddismo
alla lettura di Dante e di John Donne; Saint-John Perse si era ritirato in un
tempio taoista in rovina, fuori Pechino, per scrivere il suo
capolavoro, Anabasi; Victor Segalen credeva negli oracoli cinesi, sfidava le
sacre formule dell’I-Ching. Nel giugno del 1933 la rivista “Minotaure”, stampata
a Parigi da Albert Skira, pubblicava gli esiti della “Mission Dakar-Djibouti”,
guidata da Marcel Griaule, con uno scrittore d’eccezione al seguito: Michel
Leiris. In Africa cercavano le Indie: la parola originaria, la parola
che agisce, un redivivo Orfeo.
René Daumal (1908-1944)
Con analogo spirito, Antonin Artaud viaggiava, disperatamente, tra il Messico e
l’Irlanda e William Butler Yeats, recluso a Maiorca con un guru indiano, Shri
Purohit Swami, traduceva le Upanishad, cercando il punto che accomuna “quei
Saggi della foresta che hanno pensato tutto” e Balzac, Goethe e i monaci del
deserto (le traduzioni di Yeats dalle Upanishad sono edite da Magog). Yeats era
ossessionato dalla figura dell’ollamh, il bardo irlandese che con le sue rime
garantiva la sopravvivenza del re e della quercia, della casa e della volpe; in
René Daumal agiva la potenza dei rishi, i poeti veggenti che hanno composto
i Veda. Negli anni Trenta, mentre Yeats favoleggiava di un viaggio in India con
una delle sue giovani amanti, Daumal seguiva il tour di Uday Shankar. In quello
straordinario ballerino indiano intuiva i “ritmi infantili” proclamati da
Rimbaud. “Né la danza né la musica dell’India hanno lo scopo di distrarre. Al
contrario; hanno il fine di ricondurre incessantemente lo sguardo di ciascuno
verso il centro insopportabile della propria solitudine”, scrive in un saggio di
nitida bellezza (ora in: René Daumal, Lanciato dal pensiero, Adelphi, 2019).
Seguiranno, a precipizio, anni sonnambuli, a bordeggiare il nulla.
Daumal aveva un volto messianico.
Nel Dialogo sullo stile trattenuto con Lanza del Vasto – raccolto ora in Il
rovescio della testa, a cura di Claudio Rugafiori, Adelphi, 2025 – Daumal
domanda:
> “Vivo in un’epoca senza stile. Dove troverò le regole del mio mestiere di
> scrittore – regole che non siano superstizioni o curiosità storiche, che
> abbiano realmente autorità?”.
Scriveva che “Il poeta danza posseduto da un pensiero”. Il suo capolavoro, Il
Monte analogo, termina, incompiuto, sulla soglia di una virgola, specie di
abisso che sta al lettore superare. Uscì postumo, per Gallimard, nel 1952; Roger
Nimier – lo strabiliante scrittore degli “Ussari”, morto di schianto sulla sua
velocissima Aston Martin – scrisse, in ‘quarta’, che “Ogni frase, qui, ha la
nitidezza dell’ascesa”.
Ascesa. Ascesi. Nella più nota delle fotografie – scattata dallo scrittore Luc
Dietrich nel maggio del 1944, pochi giorni prima della sua morte – Daumal ha la
barba, ma gli occhi sono sempre quelli, fissi, famelici, di bimbo eterno che sa
evocare giaguari in un glifo d’ombre. In lui, Patty Smith riconobbe “un
fratello… un punk”.
Nel testo più bello de Il rovescio della testa, Daumal racconta di un “potente
mago” che abita “in una mansarda” e “lavora in una succursale del Crédit
Mystique”. L’uomo che “avrebbe potuto essere pascià, alchimista, usignolo o
cedro del Libano”, sceglie la miseria. Confida nei “segreti disegni della
Provvidenza”, muore, e “nessuno aveva sospettato chi egli fosse”. Pare, in
vitro, la vita di Daumal – le cose più importanti vanno nascoste: non si
realizza la morte nel boato, ma in uno spiffero, tra le spire di un frainteso.
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