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“Perché la vita continui”. René Barjavel, lo scrittore che sapeva fare il pane e ha inventato la fantascienza francese
Nel 1943 uno scrittore pressoché sconosciuto, René Barjavel, pubblica il romanzo del secolo e inventa – pressoché dal nulla – la fantascienza francese. Ravage uscì per Denoël, l’editore di Céline e di Mussolini (Le Fascisme: doctrine, institutions esce nel ’33), del collaborazionista Lucien Rebatet e del comunista Louis Aragon. Nel romanzo – edito nel 1957 in Italia come Diluvio di fuoco, nell’‘Urania’ Mondadori, poi, in nuova traduzione, nel 2019, per L’Orma, come Sfacelo –, ambientato in un ipertecnologico oggi datato 2052, si racconta il collasso di una civiltà, stordita da eccesso di progresso: il disastro comincia con un black out… Nato in provincia, a Nyons, Barjavel era cresciuto leggendo Balzac e le avventure di Nick Carter, integerrimo investigatore americano. Aveva fatto diversi lavori – dall’impiegato in banca all’agente immobiliare –, aveva dedicato il suo primo saggio a Colette: Denoël scelse di prenderlo nelle sue grazie. Durante la guerra, intruppato tra gli zuavi, lavorava in cucina, serviva il rancio; scrisse Ravage nei torbidi dell’occupazione. A Parigi, viveva al settimo piano, scalfito dallo scalpiccio dei piccioni.   Il libro, costantemente ripubblicato, distopico attacco ai paladini del progresso, ebbe successo – il suo autore fu messo alla gogna. In Ravage – l’inno alla natura, la messa al bando della scienza – qualcuno vide un oscuro elogio pétainista; d’altronde, Barjavel aveva pubblicato sulla rivista collaborazionista “Je suis partout”. Inserito nella lista nera dal “Comité national des écrivains”, fu scagionato da ogni accusa. Un paio di altri romanzi di successo – Tarendol, 1946 e Le diable l’emporte, 1948 – gli aprirono le porte del cinema. René Barjaval è conosciuto, oltre che per aver ‘inventato’ la sci-fi francese, per le sceneggiature di “Don Camillo”, il ciclo filmato da Julien Duviver. Tra l’altro, ha ridotto I miserabili per la resa filmica di Jean-Paul Le Chanois (era il 1958, Jean Gabin protagonista), ha tradotto i dialoghi del Gattopardo per la versione francese del capolavoro di Visconti.  Ma questa è aneddotica.  Un evento, in particolare, smuove la vita di Barjavel: l’incontro, all’epoca di Vichy, con Gurdjieff. Così lo scrittore ne ha detto a Louis Pauwels: > “Lo incontrai una volta soltanto, a Parigi, durante l’occupazione, a una delle > cene in cui era contornato di discepoli. Eravamo dieci persone al tavolo. Lui > sogghignò. Gli piaceva mettere in imbarazzo chi gli si avvicinava per la prima > volta, così mi offrì una cipolla cruda da mangiare. Ignorava che venissi dalla > campagna: per ma la cipolla è una delizia. Ad ogni modo, quella era un po’ > marcia. Non rividi più Gurdjieff. Perché? Mancanza di tempo, mancanza di > soldi, due bimbi piccoli da mantenere, insomma, le solite preoccupazioni > materiali che mettono a tacere quelle spirituali. Gurdjieff aveva un > temperamento vulcanico: era una montagna ruggente – preferii arrestarmi al > ruscello che scorreva intorno a essa. È successo tanto tempo fa. Ma so di aver > bevuto alla fonte della verità, la verità da cui sgorga tutta la saggezza del > mondo, da dove si sono formate tutte le religioni”.  Benché continuasse a dirsi “una merda” al cospetto della purezza gurdjieffiana, tentò una via di luce. Nel 1950, lo scrittore annota nel diario una frase gravida di conseguenze: > “Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, ma lo ha plasmato dal fango, che > contiene, in potenza, ogni putrefazione. Eppure, lo ha pesato sulla stessa > bilancia degli spiriti puri. Questa è vera giustizia. Se un uomo vuole restare > in Paradiso – o desidera entrarvi – deve purificarsi dal fango di cui è > fatto”.  Per un po’, René Barjavel frequentò Daumal e Lanza del Vasto. Nel 1966 pubblica La faim du tigre, un libro anomalo, che sfida l’assurdo di esistere, o meglio, l’assurdità dell’uomo di credersi al centro del cosmo. Continuamente riedito – l’ultima edizione esce nel 2020 per Gallimard – il libro è figlio della nobile tradizione aforistica francese (si avverte, in particolare, un sentore di Alain), tuttavia, ha un’inattuale singolarità, inattingibile. Barjavel mescola teologia e biologia, carne e mente, parola dei primordi e trafitture alla Marco Aurelio. Alcuni hanno tentato di edificare su quel panorama un tempio, una religiosità postumana. Me lo ha mostrato un ragazzo che viene dal Belgio; ama scrivere e in un suo racconto, con stile leggiadro, impaniato di humor nero, narra di una ragazza che offre ai familiari, per il cenone natalizio, il proprio fidanzato, imbandito come un tacchino.  Nei decenni, Barjavel non si farà ingabbiare dal pensiero dominante: a Sartre – “il borghese che ama le masse popolari” – preferiva Ray Bradbury. Scrisse che > “Un leader di partito, di destra come di sinistra, o un militante ambizioso, > non presenta mai i fatti come sono ma come gli possono essere utili. Se gli si > pone una domanda specifica su un punto specifico, risponde a bruciapelo. > Sembra che abbia risposto, ma non ha detto nulla. Mente appena apre bocca. Non > può fare altrimenti perché la menzogna è il suo respiro. È così imbevuto delle > sue menzogne e di quelle dei suoi compagni e di quelle dei suoi avversari, che > non sa più nulla della verità, anzi, non crede che esista una verità”.  I comunisti attesero la sua morte per fargli lo scalpo. René Barjavel morì il 24 novembre del 1985; “professava le idee della destra più estrema”, scrisse nel ‘coccodrillo’ “L’Humanité”, “benché indossasse gli occhiali, restò cieco al senso della storia, alle sorti dei suoi concittadini”. Barjavel avrebbe riso; detestava i colpi bassi, ma in fondo – lo aveva scritto lui – è la legge della vita: polline, copula, cianciare di cince, brevi licenze, liceali licenziosità, lotte e attorialità prima della cenere, della carcassa, dello sparire nell’impasto del mondo. Nel 1978 aveva scritto un feroce pamphlet contro le armi nucleari che andrebbe letto oggi, s’intitola (ed è tutto detto) Lettre ouverte aux vivants qui veulent le rester. “Ho i miei talenti e i miei limiti. Ho camminato con le ossa e i muscoli dei miei antenati, con l’addestramento che mi hanno offerto i miei maestri. Ho cercato di non nuocere, di essere utile. Che ciascuno faccia lo stesso”, scrisse in La charrette bleue. I genitori, di origine protestante, era fornai – per tutta la vita, Barjavel si era vantato di saper fare il pane. Un dettaglio non secondario per spiegare la sua scrittura.  ** Da “Fame di tigre” La primavera non sarà mai la mia abitudine. Anno dopo anno, mi sorprende e mi meraviglia. L’età non può nulla, né l’accumulo di dubbi e di amarezze. Non appena il castagno si illumina di frutti e gli uccelli cantano, il mio cuore germoglia come una gemma. È certo: tutto andrà bene, l’inverno è un incidente, causa della nostra lasciva goffaggine; aprile e maggio non ci sfuggiranno più.  Il cielo è limpido, nobili le nubi, l’aria è libera da liquami gassosi, nessuno uccide gli agnelli e le rondini sono libere; il tiglio fiorirà accogliendo le api, le rose sbocceranno e l’usignolo, questa notte, ci ricorderà che il mondo giace nella gioia. Tutto ricomincia con entusiasmo nuovo; questa volta, tutto avrà successo, culminerà in uno scopo. Sono più giovane di un anno. No, non di un solo anno: la mia vita, intera, è giovane. Sono anch’io la primavera che sorge.  Ecco, la grande annuale illusione. Il regno vegetale è il primo a cadervi. Con una perfetta esplosione, miliardi di alberi e di piante emergono, mirabili gli steli, miracolose le foglie, non c’è alcun motivo perché non siano eterne. Eppure, nell’altra metà del mondo è autunno: le meraviglie vengono gettate al suolo, l’inverno le farà marcire. Ma per noi, prossimi alla primavera, l’autunno è improbabile e l’inverno non è più reale della morte. Il castagno è bianco come il fiore della comunione, il pesco è una fiammata rosa, il lillà è una torcia. In tutti i giardini, nei campi e nei boschi, nei coltivi e nei lembi selvaggi, non c’è centimetro di terra in cui non si dispieghi in prodigiosi modi l’amore silenzioso e lento delle piante. Ciascun fiore è un sesso. Non ci pensi quando annusi la rosa? Il pesco fa l’amore con sé tramite i suoi fiori; l’erba fa lo stesso, i campi sono immersi nell’amore. In metà del mondo, in poche settimane, piante e alberi rilasciano miliardi di tonnellate di polline – la maggior parte si disperde nel vento. Alcuni, grazie alla brezza o all’opera degli insetti, raggiungeranno l’erezione congelata del pistillo, feconderanno gli ovuli. Perché la vita continui.  Nelle foreste e nelle savane, sotto le pietre, sotto le cortecce, negli antefatti della terra, negli anfratti del vento, tutte le specie animali, dall’acaro all’elefante, gettano i maschi perché afferrino le femmine. In ogni pozza d’acqua, negli stagni, nei fiumi, negli oceani, le femmine del pesce depongono miliardi di uova su cui i maschi spargeranno il seme. Per alcuni giorni, le acque non saranno che rimescolamento seminale. Gli avanotti sbucano a grappoli, la loro ingenua agitazione attira mascelle fameliche. In molti vengono inghiottiti, risucchiati e digeriti nei primi istanti di vita. Alcuni matureranno in pesci, deponendo uova, a loro volta, prima di essere catturati e uccisi. Alcuni.  Abbastanza, perché la vita continui.  * Ogni essere vivente, in sostanza, è un organo di riproduzione. Gli organi associati esistono soltanto per consentirgli di sopravvivere e compiere la sua missione.  La materia vivente non ha altra ragion d’essere che espandersi nello spazio e perpetuarsi nel tempo. Le specie incaricate di assicurare questa doppia espansione non hanno possibilità di sottrarvisi: la loro esistenza ne è succube con la stessa freddezza di un filo di piombo teso dal grave, dalla gravità. Anche se il vento lo muove, il filo torna sempre in verticale, oscilla prima di rientrare nel suo stato. * L’uomo ha di fronte a sé due destini possibili: morire nella culla, o per propria scelta, per un’efferatezza del genio o per un eccesso di stupidità, oppure slanciarsi, correre nell’eternità del tempo, verso lo spazio infinito, e perpetuare la vita, libera dall’assassinio. La scelta spetta al domani. Potresti averla già fatta.  * L’individuo non si è fatto da sé, non ha voluto la vita, la vita continua senza l’aiuto della sua volontà. Non esiste perché lo vuole, in alcun momento. La vita è indipendente dalla sua coscienza; non sono le decisioni dell’individuo a mantenerlo in vita. La sua intelligenza è misera, instabile la veggenza, enorme l’ignoranza: se un individuo diventasse interamente responsabile del proprio corpo, affonderebbe nel disordine e nella decomposizione. Il governo di un mondo complesso come il corpo umano richiede una conoscenza totale delle leggi dell’universo. Richiede vigilanza perpetua, attenzione ininterrotta, capacità di coordinare ogni parte dell’organismo. Tutto ciò è al di sopra delle possibilità della comprensione umana.  L’uomo è alloggiato in se stesso come un passeggero incompetente.  Per la maggior parte delle religioni, il suicidio è considerato il peggiore dei peccati e provoca sempre, tra le persone prossime a chi lo commette, uno stupore misto a orrore. È un intervento dell’individuo in uno spazio non suo. L’omicidio, per certi versi, è meno grave: forse è biologicamente normale che un individuo causi la morte di altri individui, come è normale essere la ragione di altre nascite. Ma non della sua.  * La fame della tigre è pari alla fame dell’agnello. È la fame naturale e implacabile – eppure, dolorosa – di vivere. È questo appetito mai sazio a provocare le atrocità quotidiane, e a permettere di sopportarle; è questo appetito che perpetua, da sempre e per sempre, il sinistro teatro del mondo, dove avvengono sofferenza e crimine, terrore e schiavitù, a cui solo la morte può porre fine. La fame della tigre è infine e soprattutto la rabbiosa ricerca della ragione per cui, in questo sordido cinismo, a punteggiare questa tragedia, esistano la grazia, la bellezza, l’innocenza e l’amore.  * Prodotto dalla trasformazione della cellula iniziale e dall’attività di miliardi di cellule, l’uomo non interviene in alcun momento per dirigere il loro lavoro. L’uomo è il risultato di tale maestria, non il maestro. Se le maltratta, le avvelena, le soffoca e le mutila, le cellule si arrangiano come possono.  Quando sopravviene la morte dell’individuo, quando la materia vivente si decompone e ritorna agli elementi, una di queste cellule, o due o più tra miliardi, si stacca dall’individuo e trasmette nuova vita. L’individuo serve a questo scopo: è garante che la vita continui. Per la propria infima parte, serve a mantenere l’enorme corrente che trasporta le creature nel tempo e nello spazio.  Incapace di autodeterminarsi e di dirigersi, ignaro della propria direzione, l’essere umano possiede solo in apparenza una vita indipendente. La sua esistenza individuale, in effetti, è un imbroglio.  René Barjavel L'articolo “Perché la vita continui”. René Barjavel, lo scrittore che sapeva fare il pane e ha inventato la fantascienza francese proviene da Pangea.
May 31, 2025 / Pangea
“Inghiottiremo Dio”. René Daumal, storia di un angelo in picchiata
In una fotografia scattata probabilmente nel 1932 – così dice la nota della casa d’aste che l’ha venduta – René Daumal, sdraiato sopra un casotto, sembra precipitare. Ha le braccia aperte, gli occhi e la bocca serrati, in estasi: lo sorregge, da sotto, fiera della propria incertezza, Véra Milanova, che all’epoca non è ancora sua moglie. René pare un angelo in volo contrario, ad arare il cielo; siamo in un parco cittadino, gli alberi spettri; nel casotto, chissà, ci sono degli attrezzi per il giardinaggio – forse è rinchiuso un centauro.  Dieci anni prima, al liceo di Reims, insieme a un paio di compagni, Roger Gilbert-Lecomte e Roger Vailland, Daumal animava i “Phrères simplistes”, una società iniziatica, una sorta di setta dei poeti estinti, che intendeva dischiudere i mondi grazie al potere lisergico del linguaggio. Il padre di René, Léon, era un professore, di fede socialista; il nonno, apicultore, anticlericale, stregone alla bisogna. L’Alchimie du Verbe di Rimbaud fornì a Daumal un ‘codice’ per stare al mondo:  > “Mi piacevano le pitture idiote… la letteratura fuori moda… racconti di fate, > libretti per bambini… credevo a tutti gli incanti”.  Nel 1932 René Daumal ha già esperito tutto: non gli resta che espiare, espatriare dal proprio tempo. Insieme agli amici del liceo, nel 1928, aveva fondato “Le Grand Jeu”, una rivista, è scritto nel manifesto programmatico, “alla ricerca dell’essenziale”. Già, ma cos’è questo essenziale? I redattori – con le formule caotiche di chi vuole delegittimare il linguaggio – parlavano di “vera morte” e di “vera follia” (quella “impotente come il sole… la follia senza speranza di chi viene sgozzato come un cane”). Nell’introduzione al primo numero – ne seguiranno altri due, fino al 1930 – Gilbert-Lecomte è laconico:  > “assorbiremo tutto, inghiottiremo Dio fino a diventare trasparenti, fino a > sparire”.  Si scrive, d’altronde, per cancellarsi – esercizio di flagellazione.  Nelle fotografie di quegli anni, Daumal indossa strani occhiali, ha la posa del santone, quella faccia sigillata, severa. Un fachiro a Parigi. Intanto, aveva liquidato André Breton, il doge del Surrealismo, che voleva affiliare a sé quel manipolo di affiatati ragazzi:  > “Curatevi di comparire nei manuali di storia della letteratura, Breton: per > noi, sarà un onore essere ricordati dai posteri nella storia dei cataclismi”.  Così gli aveva scritto. Quello stesso anno – il 1930 – al Café Figon in St. Germain, Daumal conosce Alexandre de Salzmann, artista georgiano di enigmatico fascino, che lo introduce agli insegnamenti di Gurdjieff. Per Daumal è l’incontro della vita.  Anni prima, aveva discusso con Simone Weil la necessità di imparare il sanscrito, di ricongiungersi con l’antica sapienza indiana. Il suo professore, Alain, “il più originale saggista e moralista della Terza Repubblica” – così la nota ai Cento e un ragionamenti editi da Einaudi nel 1960, a cura di Sergio Solmi – aveva scritto che  > “Tutti gli uomini che sono ora in vita non fanno che rivivere: sono tutti > usciti da un vecchio involucro con un corpo ringiovanito; trascinano tutti con > sé ricordi antichi almeno quanto il rosso fango quaternario nel quale > sospingono l’aratro”.  Già: ma come coniugare la vita e la morte, i vivi e i morti, l’India, l’io, il non-io, la parola che risana e quella che resuscita? Nel Vangelo di Marco è scritto che “quelli che credono scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove… imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (16, 17-18). Come attingere alla parola che vince il male e sana i malati? Come raggiungere le “lingue nuove”? Come credere nell’incredibile? Daumal era disgustato dalla letteratura, dall’intrattenimento, dalla polluzione delle avanguardie.  Erano anni, quelli, in cui un po’ tutti, pur assisi sulla tolda delle loro belle scrivanie, si disorientavano a Oriente e in ogni dove. Ezra Pound aveva optato per Confucio e il teatro No giapponese; Thomas S. Eliot alternava il buddismo alla lettura di Dante e di John Donne; Saint-John Perse si era ritirato in un tempio taoista in rovina, fuori Pechino, per scrivere il suo capolavoro, Anabasi; Victor Segalen credeva negli oracoli cinesi, sfidava le sacre formule dell’I-Ching. Nel giugno del 1933 la rivista “Minotaure”, stampata a Parigi da Albert Skira, pubblicava gli esiti della “Mission Dakar-Djibouti”, guidata da Marcel Griaule, con uno scrittore d’eccezione al seguito: Michel Leiris. In Africa cercavano le Indie: la parola originaria, la parola che agisce, un redivivo Orfeo.  René Daumal (1908-1944) Con analogo spirito, Antonin Artaud viaggiava, disperatamente, tra il Messico e l’Irlanda e William Butler Yeats, recluso a Maiorca con un guru indiano, Shri Purohit Swami, traduceva le Upanishad, cercando il punto che accomuna “quei Saggi della foresta che hanno pensato tutto” e Balzac, Goethe e i monaci del deserto (le traduzioni di Yeats dalle Upanishad sono edite da Magog). Yeats era ossessionato dalla figura dell’ollamh, il bardo irlandese che con le sue rime garantiva la sopravvivenza del re e della quercia, della casa e della volpe; in René Daumal agiva la potenza dei rishi, i poeti veggenti che hanno composto i Veda. Negli anni Trenta, mentre Yeats favoleggiava di un viaggio in India con una delle sue giovani amanti, Daumal seguiva il tour di Uday Shankar. In quello straordinario ballerino indiano intuiva i “ritmi infantili” proclamati da Rimbaud. “Né la danza né la musica dell’India hanno lo scopo di distrarre. Al contrario; hanno il fine di ricondurre incessantemente lo sguardo di ciascuno verso il centro insopportabile della propria solitudine”, scrive in un saggio di nitida bellezza (ora in: René Daumal, Lanciato dal pensiero, Adelphi, 2019). Seguiranno, a precipizio, anni sonnambuli, a bordeggiare il nulla.  Daumal aveva un volto messianico.  Nel Dialogo sullo stile trattenuto con Lanza del Vasto – raccolto ora in Il rovescio della testa, a cura di Claudio Rugafiori, Adelphi, 2025 – Daumal domanda:  > “Vivo in un’epoca senza stile. Dove troverò le regole del mio mestiere di > scrittore – regole che non siano superstizioni o curiosità storiche, che > abbiano realmente autorità?”. Scriveva che “Il poeta danza posseduto da un pensiero”. Il suo capolavoro, Il Monte analogo, termina, incompiuto, sulla soglia di una virgola, specie di abisso che sta al lettore superare. Uscì postumo, per Gallimard, nel 1952; Roger Nimier – lo strabiliante scrittore degli “Ussari”, morto di schianto sulla sua velocissima Aston Martin – scrisse, in ‘quarta’, che “Ogni frase, qui, ha la nitidezza dell’ascesa”.  Ascesa. Ascesi. Nella più nota delle fotografie – scattata dallo scrittore Luc Dietrich nel maggio del 1944, pochi giorni prima della sua morte – Daumal ha la barba, ma gli occhi sono sempre quelli, fissi, famelici, di bimbo eterno che sa evocare giaguari in un glifo d’ombre. In lui, Patty Smith riconobbe “un fratello… un punk”.  Nel testo più bello de Il rovescio della testa, Daumal racconta di un “potente mago” che abita “in una mansarda” e “lavora in una succursale del Crédit Mystique”. L’uomo che “avrebbe potuto essere pascià, alchimista, usignolo o cedro del Libano”, sceglie la miseria. Confida nei “segreti disegni della Provvidenza”, muore, e “nessuno aveva sospettato chi egli fosse”. Pare, in vitro, la vita di Daumal – le cose più importanti vanno nascoste: non si realizza la morte nel boato, ma in uno spiffero, tra le spire di un frainteso.  L'articolo “Inghiottiremo Dio”. René Daumal, storia di un angelo in picchiata proviene da Pangea.
April 30, 2025 / Pangea