Negli Venti, ventenne, gli accade tutto – i germi dei romanzi che saranno, il
futuro che ti cuce gli occhi.
Nel 1921 fa speleologia tra i documenti genealogici di famiglia; penetra nel
Seicento, entro scritture vaghe, in eccesso, caravaggesche (“un enorme romanzo
concepito e in parte febbrilmente compilato tra i miei diciotto e ventidue
anni”, scrive lei), che costituiscono il primo nucleo de L’opera al nero.
Una prima visita a Villa Adriana, nel 1924, la porteranno a concepire il suo
libro più importante, le memorie del grande imperatore romano, che uscirà quasi
trent’anni dopo, nel 1951.
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Quasi a dire: maturità, per un artista, non è che confidare nelle apocalissi di
gioventù.
Il difficile è riconoscere di avere avuto una giovinezza – e a quale equatore.
Quella è l’alleluia, lo squillo. È in virtù di quelle aspirazioni che si è nel
sempre, negli elisi della scrittura. Il sommo peccato: eludere le passioni
diciottenni.
Certo: è lavoro, a strascico, di riscrittura, un cancellare che può dirsi
commiato. Raffinare vuol dire crocefiggersi – che l’antica colonna divenga,
finalmente, palmeto, prato.
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Nouvelles orientales è il primo libro che Marguerite Yourcenar pubblica per
Gallimard. È un libro strano, voluto da Paul Morand per la collana ‘La
Renaissance de la nouvelle’, “atta a promuovere un genere, il racconto,
ingiustamente screditato”. Nel 1929 Yourcenar aveva esordito alla prosa
con Alexis ou le Traité du vain combat: quel libro – lieve, onirico, inaudito,
che parlava del “problema della libertà sensuale in tutte le sue forme” come
“problema di libertà d’espressione”, cioè della forma che il corpus scritto
prende in relazione al corpo fisico – era piaciuto a Morand. Nel ’35, propose a
Yourcenar un contratto.
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Per Yourcenar è comune ritornare sullo stesso libro più volte, è per lei
importante patire il libro. Riverirlo fino alla dissacrazione.
Ritornare – senza levare un rigo – oppure: mai cheti, con la katana.
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Nell’edizione del 1938, Novelle orientali è aperto con un racconto
d’ambientazione indiana, Kâli décapitée. È il primo del ciclo scritto da
Marguerite: in origine, è pubblico su “La Revue européenne”, nel 1928; sarà
drasticamente riscritto. Il testo è, a suo modo, bellissimo. Kali, ora “orribile
e bella”, è stata decapitata dagli dèi, incapaci di reggerne l’innocente
purezza: hanno assemblato il suo cranio sul corpo “di una prostituta condannata
a morte per aver tentato di turbare le meditazioni di un giovane Bramino”. Di
lì, l’irresoluta brama della dea, l’estro per l’abiezione, l’onnipotenza del
corpo:
> “Kali è abietta. Ha perduto la sua casta divina a forza di concedersi ai
> paria, ai condannati, e il suo viso baciato dai lebbrosi si è coperto di una
> crosta d’astri… Triste come un febbricitante che non riesca e procurarsi acqua
> fresca, va di villaggio in villaggio, di crocicchio in crocicchio alla ricerca
> delle solite squallide delizie”.
Il dialogo con un saggio, “Maestro della grande compassione”, le fa capire che
la lussuria nella miseria è già una parabola ascetica.
> “Forse, donna senza felicità, errando disonorata per le strade, sei più
> prossima ad accedere a ciò che è senza forma… Il desiderio ti ha insegnato la
> vanità del desiderio”.
Sembra la storia dell’idiota, la “vergine che simulava la follia e il demonio”,
narrata da Palladio nella Storia lausiaca e ripresa, con enfasi, da Michel de
Certeau in Fabula mistica. Quella donna, innominata, è “la spugna del
monastero”: svolge i servizi più miseri, mangia delle briciole, dei resti che le
sono offerti senza sedere a mensa, viene “battuta, ingiuriata, caricata di
maledizione e trattata con ripugnanza” dalle consorelle. In qualche modo, la
folle cerca questo tipo di trattamento, si erge capro d’espiazione. In realtà, è
lei, l’idiota, l’eletta, la “più religiosa”, secondo le parole dell’angelo. Un
monaco, allora, va a cercarla, ad obiettare all’ovvio.
Nel caso di Kali, l’offesa – l’impotenza nell’esercizio della potenza – è più
radicale. Presa da “vera furia contro tutto ciò che vive”, si dà a “uno scemo
che sbavava seduto sul ciglio di un letamaio”; svolta la propria connaturata
divinità in oscenità e orrore. Nessun dio può salvare quella perduta dea, nessun
angelo la addita, nessun uomo la addomestica.
Divinità che diviene nulla – divinità avvilita, avvolta nell’errare – “sono
stanca”, sussurra – che è poi dire, ho sete.
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L’Oriente di Yourcenar ha poco a vedere con l’orientalismo di Pierre Loti o di
Nerval, con le poesie ‘cinesi’ di Victor Segalen, con le visioni indiane di
William B. Yeats; Marguerite non segue la via degli avventurieri anglofoni del
linguaggio: da Ezra Pound – che con Cathay fonda il ‘modernismo’ lirico – a T.S.
Eliot – affascinato dal buddismo –, da Arthur Waley a Amy Lowell. Assente, in
lei, il ‘gusto’ di Goethe per l’Islam, la ferocia di Kipling, gli incensi di
Edward FitzGerald, le audacie da neoconvertito (da colono o da pioniere che
sia). Yourcenar passeggia, apolide a ogni tempo, a ogni civiltà, e osserva:
questa esclusione – come nel caso della Roma antica, delle Fiandre
rinascimentali – le permette esclusività di sguardo. Non vuole ‘dare voce’, non
vuole dare una ‘visione del mondo’: registra istanti, riferisce chiacchiere,
rifiata leggende – c’è una dignità nuova in questo scrivere con la brocca,
mettendo acqua dove il muro è crepato. Questo, ha permesso a Marguerite di stare
da straniera tra le aule dell’Accademia di Francia: come alla corte di Praga,
trecento anni prima, ad Avignone nell’era dei contro-papi, tra le sibille
sillabiche di Erode quando fu promulgato di decollare Giovanni, a Micene, a
quell’epoca di maschere d’oro.
In sostanza, estranea perfino a una qualche storia della letteratura.
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Antonia Arslan, scrivendo delle Novelle orientali, ha scritto che “è tutto
portento di stile”, ha scritto “di una scrittura corrusca e sfumata, capace di
realismi brutali e di languori sovrannaturali”. Dei dieci racconti, la Arslan
preferisce L’ultimo amore del Principe Genji, scritto per “colmare” una
reticenza lasciata lì, come un fazzoletto caduto, da Murasaki Shikibu, la
splendida narratrice del Genji Monogatari. In un passo di particolare potenza,
Genji, quel “don Giovanni asiatico di stile eccelso”, dice:
> “Sto per morire… Non mi lamento di un destino che condivido con i fiori, con
> gli insetti, con gli astri. In un universo dove tutto passa come un sogno, non
> ci perdoneremmo di durare per sempre. Non mi addolora sapere che le cose, gli
> esseri e i cuori siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza
> è fatta di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici”.
Nel 1981 Yourcenar consolida il suo legame con il Giappone pubblicando un libro
affatto diverso, Mishima ou la Vision du vide. Yukio Mishima, quel tragico,
inafferrabile Genji… Di lui, tre anni dopo, Marguerite traduce Cinq nôs
modernes: “opera di un poeta autentico… che riguarda, in modo a tratti
sconvolgente, la nostra stessa vita”.
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Nell’anno in cui pubblica Novelle orientali, traduce per Stock Le onde, il
romanzo di Virginia Woolf.
Sono anni fertili. A Capri, in poche aggraziate settimane, Marguerite scrive Il
colpo di grazia, uno dei suoi libri più belli e più inquieti. Ambientata durante
la Prima guerra, quella storia, residuo del ricordo di un ricordo che “si ispira
a un avvenimento autentico”, forse per quell’amore mutilo e muto, per il
risentito frainteso, per quella sprezzante atmosfera onirica, per il confidare
nell’impossibile, è così cruda da sembrare un diamante. Regge il confronto con i
romanzi più noti ed elaborati.
Soprattutto, nel ’36 pubblica, per Grasset, Fuochi, quel libro inattuale, “nato
da una crisi passionale”, di monologhi e feticci lirici, “una raccolta di poesie
d’amore o, se si preferisce, una serie di prose liriche collegate fra di loro
sulla base di una certa nozione dell’amore”. Il libro, dedicato A Hermes, viene
redatto nel 1935, a Costantinopoli, durante un viaggio compiuto con André
Embricos, poeta e psicoanalista a cui sono dedicate le Novelle orientali. È
vero: Fuochi è un libro a parte, è un libro per dipartiti, che Yourcenar tenta,
con levigata malizia, di disconoscere (“appartiene a quella maniera tesa e
ornata che fu la mia per un certo periodo”); è da quella stessa tempesta – per
rifrazioni e chiaroscuri e discordie – che nasce Novelle orientali. Tra i
testi-emblema, Nostra Signora delle Rondini. Yourcenar racconta la lotta tra il
monaco Terapione e un lotto di Ninfe superstiti, che confondono i contadini
neoconvertiti, che riportano l’uomo alle ragioni del fango e dell’umore terreno,
dell’amore e dell’ardore. Terapione riesce a murare le Ninfe in una grotta,
occlusa dalla sua cella; Maria, la madre del Nazareno, gli appare perché le
liberi.
> “Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e
> ai greggi delle capre?… Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di
> dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei
> boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan?… Non esaltare, come i
> pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno
> per la Sua opera”.
Tra le mani di Maria, le Ninfe sono mutate in rondini. Nella fiaba, si racconta
il punto di giunzione tra Atene e Gerusalemme, tra Cristo e Dioniso.
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Nel perimetrare gli enigmi, nel decrittare i miraggi – secondo una strategia che
sarà anche di Pavese, nei Dialoghi con Leucò –, Yourcenar non scrive
propriamente ‘racconti’. In quell’arte, gli eccellenti sono Hemingway e Čechov,
Maupassant e la O’Connor, scrittori in grado di ‘dare la vita’. No, a Marguerite
non importa il vero, tanto meno il verosimile – si affratella ai fatti scorgendo
il prodigio. Imbraccia la fiaba, appunto, secondo i toni, ad esempio, di Hugo
von Hofmannsthal.
In Fuochi, incideva nella carne:
> “Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un
> corpo.
>
> Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti
> lascio, il dolore sta a fondo del mio essere come una specie di orribile
> figlio”.
Nelle Novelle orientali: ombre sul paravento, sciacalli di tela, sagome in
ginocchio, apparizioni nel ghiaccio. Ci si libra, liberati, come su aquiloni.
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La categoria del contemporaneo non si attaglia a Marguerite – in Adriano
ausculta i tremori di un’era; in Zenone il palpito dell’uomo totale; in Anna le
estasi della reclusa d’amore. Di anima in anima, va, come le api di fiore in
fiore – a noi resta il venefico miele, questo opale dolcissimo. Lei, la
scrittrice, inattingibile, lascia di sé una zuccherina traccia di cenere.
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Le Novelle orientali sono ispirate, per lo più, da un viaggio in Grecia.
L’Oriente di Marguerite contempla Bisanzio e i Balcani, l’India, il Giappone,
Amsterdam.
In Italia, Novelle orientali esce nel 1983, per Rizzoli, tradotto da Maria Luisa
Spaziani, testimonianza di una ineffabile incomprensione. Nell’edizione
definitiva del libro, quella del 1963, Yourcenar incenerisce alcuni testi (Les
emmurés du Kremlin), muta alcuni titoli, cambia l’ordine delle apparizioni. Il
primo racconto non parla più di Kali, ma di Wang-Fô, il vecchio pittore taoista
che contemplava gli astri di notte e le libellule di giorno. Questo
straordinario pittore, che con il talento riesce a rendere straordinariamente
vivido il mondo, riesce a salvarsi dalla crudeltà dell’Imperatore prendendo il
largo, su una piccola barchetta, tra i meandri di una sua opera. L’Imperatore
pensò di ucciderlo: non accettava che il mondo non fosse bello come i dipinti
del vecchio Wang-Fô.
L’ultimo racconto, La tristezza di Cornelius Berg – nell’edizione del ’38: Les
tulipes de Cornélius Berg – parla di un “vecchio pittore di ritratti”, “oscuro
contemporaneo di Rembrandt”, ritratto mentre la malinconia, artigliata, lo
logora. Aveva fatto successo in Italia, Cornelius, aveva viaggiato per
“l’Oriente sordido” e dipinto il Sultano a Costantinopoli: non riesce ad
appassionarsi ai turgidi tulipani ostentati per lui dal Sindaco di Haarlem.
L’artista, il cui talento è ormai calcificato nell’abitudine, si rammarica che
Dio, “il pittore dell’universo”, non si sia limitato a creare paesaggi; gli
uomini gli sembrano orrendi. Wang-Fô, al contrario, riesce a penetrare la natura
delle cose, fino a sfatare le distanze tra verità e finzione, perché ogni
singolo elemento del cosmo – che siano i capelli di una donna, un ciottolo e un
insetto, la sciarpa che fluttua al collo di un impiccato e “il fiore esposto al
vento caldo e alle piogge d’estate” – gli sembra immenso, glorioso, degno. Anche
a lui, allora, è dato sparire in quella spaventosa magnificenza, felice.
In questo gioco di assennate asimmetrie, è bene intuire una poetica. Poi, anni
dopo, verrà Adriano, che è poi un modo per dire Occidente, i suoi valli, la
barbarie, la balbuzie, la bellezza.
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secondo Marguerite Yourcenar proviene da Pangea.