Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita
radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il
confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo?
«Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva
Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli
luminose dell’Himalaya.
Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa
diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti?
Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto
inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico,
trasfigurandolo in desiderio.
Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia
millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia,
popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i
dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il
Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una
costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso.
E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si
immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di
Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e
inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di
viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla
meraviglia.
*
Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi –
Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili,
nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato
antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo
documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la
sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni
gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano.
Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non
siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e
Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini,
invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di
camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In
questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha
visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci
dell’immaginazione.
Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal
porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo,
contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur
scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave
avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è
legato da una profonda riconoscenza.
Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine:
l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in
Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui
avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una
certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità
di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne
il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya
Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta
pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del
mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di
pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da
giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e
silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti
da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto
di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica,
capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e
di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la
prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a
cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese,
nascono quasi degli Haiku in prosa:
> “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati
> all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada
> imperlava di luce”.
Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua
scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri
nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella
giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche
lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto.
Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci:
geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura
delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei
versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco:
maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi
come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran
Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura
femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero
lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi
l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo
che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini
abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo
lirismo proprio nell’evocazione di Pemà.
La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un
contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco
superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in
lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e
penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal
sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece,
sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo
gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei,
stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è
avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle
mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda
occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena
tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e
profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene
l’inglese e i grandi autori della letteratura.
La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18
maggio 1948 Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024
Archivi Alinari.
C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno
alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un
pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per
Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta
tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in
quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue
sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un
modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al
cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla
nostra?
Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è
passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano,
come per incanto:
> “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i
> puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i
> campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della
> Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle
> distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti
> svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci
> degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da
> difendere, da condurre di là dall’Imàlaia”
*
Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e
costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la
fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e
l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per
squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti
vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare,
dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e
nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa
indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali
sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano
portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.
Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i
mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso
violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo
atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di
scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della
scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente
pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo
svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.
Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante
di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche,
un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze
opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e
dolcezza, umorismo e compassione.
*
Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella
regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due
estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti,
pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di
stoffa tibetane.
Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi
perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello
dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare
da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico
drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito
mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed
irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella
manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963.
Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi
Alinari
L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla
generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.