È morto Stefano Simoncelli. Lo so. Me lo hanno detto dei giornalisti stamattina,
chiedendo di commentarla, ma la morte non sopporta commenti… e, per quanto mi
riguarda, con dolore, posso solo dire che non ci sopportavamo da anni. Ci siamo
evitati, maltrattati, cancellati per necessità reciproche, oppure orgogliosa
indifferenza.
Era un bugiardo. Sin dove ha potuto ha mentito, tradito, contraffatto la verità,
soprattutto in amore. Ha invidiato ed emulato, sino all’esaurimento nervoso,
l’aura poetica di Ferruccio che, a sua volta, non lo sopportava più. Ferruccio,
come un riccio solitario, preferiva autodistruggersi pieno d’aculei, squarci
d’azzurro ultramarino, artifici alcolici, versi intessuti di metriche sospese e
impossibili, tra l’inguaribile e l’immaginario.
La vita di Stefano era quella tipica, riccioluta, di maniera, di chi indossa
appena possibile, la faccia da poeta bene in vista, appartato, elegante,
maglietta ben stirata, con coccodrillo e microfono in mano. In cambio di
recensioni offriva soggiorni con vista sul canale. Oppure le comprava molto
semplicemente, in cambio di qualche spiccio, cenetta in collina, arrangiata
grazie all’eredità accumulata per vie seduttive. Era un ipocrita straordinario,
anche quando mi chiamava ‘fratello’. Era affetto da ‘ipocrisia sincera’, oserei
dire necessaria, infelicemente gioiosa, come lo sono tutti gli ossimori.
Certo, ora che mi manca veramente, meriterebbe meno stupidaggini, meno
ignoranza, arroganza ben stipendiata, di quella che alberga in Casa Moretti; e,
al fine, un po’ più di silenzio. Non era affatto laureato, scarso in grammatica,
per niente anarchico, in pochi lo sanno. Né era quel grande poeta o tennista che
avrebbe voluto. Era, questo sì, un uomo corrotto e indecente. Anche per questo,
piangendo di cuore, stanotte gli auguro la prima notte di quiete, come a tutti i
peccatori, che davvero lo meritano.
Walter Valeri
Abano Terme, 20/05/2025
*Walter Valeri, tra l’altro, ha fondato insieme a Stefano Simoncelli, Alessandro
Casagrande e Ferruccio Benzoni, nel 1973, la rivista “Sul Porto”. In copertina:
Stefano Simoncelli e Walter Valeri in un ritratto fotografico di Daniele Ferroni
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Andai a trovarlo per via di René Char, il poeta combattente, il “Capitaine
Alexandre”, il poeta di Fogli d’Ipnos, così amato da Camus. L’aveva conosciuto,
trentenne, in un paio di folgoranti viaggi, insieme a Vittorio Sereni. “Guidava
una Alfa Sud amaranto in modo terribile, da Milano a L’Isle-sur-la-Sorgue. Se
tirava il mistral, Char dava di matto, era impossibile avvicinarlo…”.
A Stefano Simoncelli piaceva fare il piacione – sapeva di piacere, si vantava
della sua longeva virilità. Era capace di improvvise dolcezze, di disastri
altrettanto bruschi. Aveva una palafitta sull’abisso. Tra i poeti viventi, era
senz’altro il poeta più vivo. Insieme a Ferruccio Benzoni, a Cesenatico, nel
1973, aveva ideato la rivista “Sul porto”. Di quell’aurora di poeti, Simoncelli
era l’irrequieto, l’irregolare. Da ragazzo, eccelleva coi piedi: a sedici anni
lo voleva la Fiorentina, “mio padre non ne volle sapere; avrei dovuto
trasferirmi a Firenze, si oppose”. Restò a giocare nel ravennate, tra i
dilettanti e la serie C. Anni dopo, una fotografia immortala Simoncelli con
l’accappatoio, nello spogliatoio di un glabro campo da calcio; al suo fianco,
Giovanni Giudici, in giacca e cravatta. “Veniva a vedermi quando facevo il
torneo del bar: ero di un’altra categoria, segnavo sempre tre o quattro gol.
Giocavo all’ala…”.
Giocavo all’ala è il titolo della raccolta più nota di Simoncelli: esce
vent’anni fa, per Pequod, l’editore a cui il poeta resterà rigorosamente fedele.
Aveva esordito nel 1980 con una silloge, Via dei platani, introdotta da Giovanni
Raboni, pubblicata da Guanda nei “Quaderni della Fenice 64”. Seguì un altro
libro – Poesie d’avventura, per Gremese, sotto gli auspici di Enzo Siciliano,
nel 1989 –, la rottura con Benzoni, gli inferi della vita. Per quindici anni
Simoncelli, poeta avventuriero, poeta – si direbbe – senza lignaggio, poeta
latitante al sé, non scrive. Nel 1997 muore Benzoni, nel 2000 muore la madre, “e
per me è stato un dolore fortissimo. Erano morti tutti. Mi sentivo solo al
mondo. Poi, un giorno, è tornata la poesia e mi ha detto, ‘piccolino, perché non
ci mettiamo a scrivere qualcosa?’”. Da allora, Simoncelli si rimette alla
scrivania. Come un ossesso. Scrive tutti i giorni. Non smette più. Una veglia
perenne. Escono, con compulsiva violenza, La rissa degli angeli (2006), Stazione
remota (2008), Hotel degli introvabili (2014), Residence Cielo (2019), Un
barelliere del turno di notte (2021). Tra raccolte e plaquette, una
pubblicazione all’anno. Con Sotto falso nome, nel 2023, è finalista alla prima
edizione dello Strega poesia. Arnaldo Colasanti ha scritto che la poesia di
Simoncelli possiede una “forza immensa”, una “perfetta gloria”, perché “una
poesia che accetta di cancellare quel poco che è, se stessa, è una poesia senza
limiti, è una poesia dell’indifferenza e dell’assoluto”.
Simoncelli amava le donne e amava i cani. Una raccolta, A beneficio degli
assenti (2020), è “alla memoria della mia labrador Margot”. La poesia che mi ha
dedicato comincia così: “Non assomiglio più a nessuno…/ Certe volte sembro un
banco di nebbia,/ impenetrabile e denso, come quelli// che arrivano dal mare a
tradimento/ verso mezzogiorno portandosi via tutto”. C’era sempre qualcosa di
scaraventato in lui, c’era un cuore chiamato Paul Newman: lo spaccone che si
rivela spappolato. Un giorno mi ha scritto, “ho pensato di farmi fuori”; ogni
poesia, con quei versi di selvaggia lucidità (“Non so più chi sono/ e quale il
mio nome vero”), poteva essere l’ultima – Simoncelli scriveva come si prepara il
fuoco, per quelli che verranno e per quelli che non ci sono più.
Mi disse di quando aveva fatto ubriacare Franco Fortini, “cominciò a declamare
Baudelaire in francese, una scena di una bellezza assoluta”. Mi disse di aver
accompagnato Giorgio Caproni a vedere i treni, a Bologna; disse che “soltanto i
mediocri se la tirano” e disse di Pasolini, “uomo dal fascino micidiale,
avvertivi l’intelligenza e il tormento dell’intelligenza”: era andato a trovarlo
a Chia. Giocava con i ricordi come un pescatore con le più prelibate esche.
Amava i complimenti perché ha fatto di tutto per distruggersi. “La poesia è un
viaggio verso l’ignoto, la poesia sa di me molte più cose di quante io sappia di
me stesso”, mi aveva detto, a Cesena, anni fa, nella luce torba del suo
appartamento, una luce terrea, che ti seppellisce.
Era nato nel 1950, ha avuto pochi amici, in molti non lo sopportavano – il male
l’ha divorato in fretta. La settimana scorsa gli ho scritto. “Ti vedo con
piacere”, fa lui – non ci siamo visti, non c’è stato il tempo. Se esiste un Eden
dei poeti, Simoncelli cercherà di evitarlo. “I poeti davanti sorridono sempre –
poi ti accoltellano alle spalle”. Andrà per la sua via, come sempre, con il
corrusco orgoglio dei ronin, dei cavalieri solitari. Le sue poesie lasciano il
sale sulle labbra. Tra gli animali, preferiva la volpe, perché “prima di morire
guarda verso il bosco dove è nata”.
**
Intanto vedo che non vieni
per cena, che non ci sei
in mezzo alla piazza
tra i piccioni e la giostra,
che ti bagnerai fino alle ossa,
ti ammalerai adesso che piove
e hai dimenticato l’ombrello
accanto alla porta,
che non chiamerai per avvisarmi
e non ci sarà più niente,
proprio più niente
da chiederti.
(da Terza copia del gelo, Italic Pequod, 2012)
*
Nelle notti di burrasca lo si può vedere mentre lampeggia con una torcia
elettrica incomprensibili segnali luminosi lungo la spiaggia. È convinto che da
qualche parte, prima degli scogli e la grande secca di sabbia, aspettino di
sbarcare tutti i dimenticati, gli introvabili e i dispersi che hanno
attraversato a luci spente la grande burrasca della sua e di ogni altra
memoria.
(da Hotel degli introvabili, Italic Pequod, 2014)
*
Mancano pochi minuti a mezzanotte
e qualcuno bussa piano alla porta.
Mi alzo dal divano barcollando
e domando: “chi è?”. Silenzio
dentro a un altro silenzio
più crudele e profondo.
Faccio scorrere la sbarra
d’acciaio, tolgo la catenella,
schiudo una minuscola fessura
e guardo verso destra, a sinistra,
in basso, in alto, ma non c’è nessuno.
Buio sul pianerottolo, buio nel dolore,
il mio, buio dappertutto, mentre sento
la tua voce che bisbiglia da chissà dove:
“sono ritornata a prenderti, sei pronto?”
Lo sono da sempre ti vorrei rispondere,
ma la commozione mi stringe la gola,
non respiro, e d’un tratto capisco
che non capirò mai più niente.
(da Visite notturne, Italic Pequod, 2024)
*Le poesie di Stefano Simoncelli sono state scelte da Clery Celeste
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