> «Ciò che non viene detto, ha la vita più forte, perché ogni dire ed ogni
> accennare toglie qualcosa all’oggetto, lo intacca, e così lo diminuisce».
Riflessioni del genere non possono venire che da un grande silenzioso come lo
scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956). Il più silenzioso dei
silenziosi. Un antidoto a un mondo come quello di oggi dominato dal
presenzialismo a tutti i costi, dalla facile indignazione, dalla protesta a buon
mercato, dallo spasmodico bisogno di apparire e di parlare anche quando non si
ha niente da dire. Leggerlo e conoscerlo vuol dire disintossicarsi dalla
stupidità dilagante per entrare in regioni dello spirito dove soffia un vento
sicuramente gelido, ma tonificante e salutare, che ci può aiutare a conservare
un minimo di dignità.
Sto parlando di uno scrittore unico e di una personalità originalissima, non
classificabile in nessun gruppo, in nessuna categoria o comunità. Un isolato
cultore della riservatezza e della povertà che non ha mai alzato la voce o
protestato; un uomo che ha fatto dell’assenza la sua religione e che si è
nascosto nelle pieghe della vita per salvarsi l’anima.
Se stiamo ai canoni esistenziali dominanti Walser è uno sconfitto dalla vita, un
perdente, ma se si impara a conoscerlo un po’ si capisce che in realtà è un
vincente. Sì, perché quest’uomo mite e inerme ha combattuto una lotta titanica e
probabilmente è uno dei pochi esseri umani che sia riuscito a non farsi
inghiottire da quell’ingranaggio infernale che ci stritola tutti, giorno per
giorno, ora per ora.
> «Non è forse bello che nella nostra esistenza rimanga qualcosa d’ignoto, di
> strano, come dietro un muro coperto d’edera? Questo le conferisce un fascino
> indicibile che sempre più si va perdendo. Oggi si ha voglia di tutto, ci
> s’impossessa di tutto con brutalità».
I protagonisti dei suoi romanzi e delle sue prose brevi sono sempre dei
perdigiorno o dei servitori che conducono un’esistenza insignificante, costretta
nei limiti imposti da qualche entità superiore. Ma è proprio in questa
subalternità il segreto. Solo mimetizzandosi in un ruolo anonimo è possibile
salvaguardare il proprio io, non essere identificati dal potere e non cadere
nella macina sociale.
Walser vede con grande lucidità il vuoto e il non senso della realtà ed è
convinto che per preservare un minimo di identità sia necessario abdicare alla
vita. L’unica via di salvezza è in un’apparente sconfitta. Da qui la sua
ossessione del “servire”. Dipendere da qualcuno o da qualcosa vuol dire
rinunciare a un’effimera affermazione della propria personalità, ma anche essere
esentati dal partecipare all’orrore del mondo.
Robert Walser (1878-1956)
La stessa biografia di Walser è una testimonianza di questa sofisticata e
silente tecnica di sopravvivenza. Prima si è dato a mille mestieri:
dall’apprendista in banca nella natia Biel al commesso di libreria, dal copista
al domestico in un continuo peregrinare tra la Svizzera e la Germania, quasi
sempre a piedi perché Robert Walser era un formidabile camminatore, nel senso
più nobile del termine come afferma Piero Citati:
> «Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la
> sua inquietudine, era la gioia, l’estasi. Dove poteva abitare, se la vita lo
> teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla
> pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida
> sull’erba sino alla discesa delle tenebre».
Poi, in seguito a certi suoi comportamenti e a crisi di ansia, nel gennaio del
1929, quando Walser ha cinquant’anni, viene ricoverato in una clinica per
malattie nervose vicino a Berna. Da allora, per ventisette anni, vivrà sempre in
case di cura, in un’assoluta solitudine, rinunciando anche a scrivere per
coltivare solo e soltanto il silenzio. Almeno ufficialmente. In realtà molti
anni dopo la sua morte si è scoperto che anche nei lunghi anni di ricovero
Walser aveva continuato a scrivere, ma lo aveva fatto alla sua maniera, in modo
nascosto; a matita, utilizzando fogli riciclati che trovava qua e là, e con una
grafia talmente minuta da risultare illeggibile a occhio nudo. Sono i suoi
cosiddetti microgrammi. Un altro modo per celarsi agli occhi del mondo.
Nei lunghi anni di ricovero l’unico contatto con l’esterno saranno le lunghe
passeggiate fatte in compagnia dell’amico Carl Seelig, che ci ha lasciato una
toccante e preziosa testimonianza con il libro Passeggiate con Robert Walser di
cui consiglio vivamente la lettura. Per il resto Walser passava le giornate
nella grande camerata con gli altri malati intento a piegare sacchetti di carta,
osservando in modo scrupoloso tutte le regole dell’istituto, anche le più
stupide e insensate, e quando l’amico Seelig gli propose un trasferimento che
migliorasse la sua situazione rifiutò in modo deciso. Non voleva avere privilegi
né tanto meno rientrare in contatto con il mondo e si proponeva soltanto di
soddisfare quella che una volta definì come la sua massima
aspirazione: «diventare uno zero assoluto».
> «Preferisco sparire, adesso. Certo, potevo scegliere un convento per
> chiudermici dentro e pregare, rispettato dalla chiesa e dai potenti. Ma forse
> è meglio il manicomio. Ci sono meno idee su Dio qui dentro, meno preghiere
> incomprensibili, meno riti da accettare. Qui si sopravvive calmi. Qui si è
> sicuramente malati. Certificazioni, esami, firme, diagnosi. Perché bisogna
> avere sempre la testa inquieta? Il mondo non è già abbastanza agitato? Almeno
> opponiamoci al furore. Qui deve esserci la quiete».
La mattina di Natale del 1956 Robert Walser uscì dall’istituto psichiatrico di
Herisau per una delle sue solite passeggiate. Da solo, nel silenzio più
assoluto. Qualche ora più tardi venne ritrovato morto in un pendio coperto di
neve. Giaceva disteso con la testa un po’ piegata, la bocca aperta e sul volto
aveva un’espressione che assomigliava a un lieve sorriso.
Silvano Calzini
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divenne uno zero assoluto proviene da Pangea.