Nel 1961 veniva pubblicato per interessamento di Linuccia Saba, figlia del
grande poeta Umberto, il romanzo Il segreto a firma di Anonimo
Triestino. All’epoca fu un piccolo caso letterario anche per l’alone di mistero
che lo circondava: dal nome dell’autore, al titolo, alla singolarità psicologica
del protagonista. Con il passare degli anni il velo di mistero si dissolse,
anche se solo in parte. In un primo tempo la paternità del romanzo venne
attribuita a Guido Voghera (1884-1959), un professore di matematica triestino,
che si sarebbe ispirato alle complesse vicende psicologiche del figlio Giorgio
(1908-1999), il quale poi nel corso degli anni è stato riconosciuto come il vero
autore, anche se lui, pur ammettendo di essere il protagonista, ha continuato a
negare fino alla fine dei suoi giorni con una cerimoniosa ritrosia che la dice
lunga sulla sua psicologia.
A tutt’oggi c’è ancora chi pensa a un libro scritto a quattro mani da padre e
figlio.
Al di là della querelle autoriale, quello che non si è mai dissolto è il fascino
del romanzo: una lunga struggente storia d’amore senza speranza. Il libro non è
altro che il racconto prima di un bambino, poi di un ragazzo e infine di un uomo
e della sua passione per Bianca, un amore mai dichiarato a causa di una
timidezza che diventa una nevrosi inibitoria. Nella parte iniziale del libro è
possibile rintracciare una possibile chiave di lettura quando Mino, il
protagonista, che ancora non ha incontrato Bianca, alle prese con sue prime
fantasie amorose fa una riflessione:
> “Il concetto che l’amore dovesse venir nascosto prese, col fantasticarci a
> lungo sopra, profonde radici nel mio animo, più profonde ancora di quanto io
> stesso non me ne rendessi conto. E da ciò fu determinato, forse in parte non
> piccola, il mio avvenire”.
Lo stesso concetto lo ritroviamo nel momento in cui Mino realizza per la prima
volta di essere innamorato di Bianca e al contempo che il loro amore è destinato
a rimanere una sua fantasia. Una sera i loro sguardi si incrociano per pochi
istanti lungo il Corso e tanto basta. I giochi sono fatti. Una passione appena
sbocciata e già inibita. La nascita e la fine di un amore intrecciate in modo
inestricabile.
> “Ecco, fra i molti visi che il mio sguardo sfiora e sorpassa, un viso che mi
> fa un’impressione del tutto diversa dagli altri: è un viso di bambina,
> delicato e serio, dolcemente pensieroso… Era proprio il destino che mi
> indicava che l’avrei dovuta amare; era l’espressione del suo volto che, solo
> fra mille, aveva parlato al mio cuore. Quella sera tornai a casa con la testa
> piena di sogni, e con la coscienza che la barriera che c’era fra noi era
> diventata ancora più alta, molto più alta”.
A mano a mano che si procede nella lettura del romanzo si viene presi da una
duplice sensazione. Da una parte si vorrebbe che Mino si liberasse delle sue
inibizioni e riuscisse a parlare con Bianca; dall’altra ci si rende conto di
essere di fronte a un amore perfetto così com’è, non macchiato dalla banalità
del quotidiano che finirebbe per incrinarne la purezza. Il protagonista non
nasconde i limiti di Bianca, bella ma non bellissima, non particolarmente
intelligente o colta, un po’ superficiale e capricciosa, ma il sentimento che
prova per lei vola più alto e non viene scalfito dalla realtà e dalle sue
miserie.
Uno scontro tra amore e desiderio nel quale il primo è troppo più forte e
finisce per soffocare il secondo senza pietà. Potremmo dire che quella di Mino è
una rinuncia all’amore per un eccesso di amore. E così la sua attrazione per
Bianca resta per sempre confinata negli sconfinati meandri della fantasia nel
cui filo Mino finisce per avvolgersi sempre di più finendo per chiudersi dentro
di sé come in un bozzolo protettivo. Nel corso del romanzo Mino segue, ma forse
è più giusto dire che osserva come un entomologo la vita di Bianca, prima da
vicino come compagni di classe, poi da lontano quando lei lascia da scuola per
fare la signorina di buona famiglia e lui si trasferisce a Roma per frequentare
l’università. Quando Bianca si fidanza con un altro uomo Mino soffre per la
gelosia ma ancora di più per i difetti e le debolezze che crede di cogliere
nella sua amata quando qualche volta la incontra nelle strade di Trieste sotto
braccio al fidanzato e continua a fantasticare di averla tutta per sé:
> “Da quell’immagine, da quel pensiero, nasceva in me un desiderio, tormentoso
> nella sua vanità, di proteggerla dalla volgarità del mondo, da tutto ciò che
> poteva offenderla, turbarla o inquietarla; di tenermela vicina, di
> accarezzarla come una bimba, di circondarla di tanto amore umile e puro, di
> tanta infinita adorazione”.
Di fatto Il segreto è un inno alla rinuncia. Mino è stretto parente dello
scrivano Bartleby di Melville e dell’Emilio Brentani, che Svevo ha messo al
centro di Senilità e sarebbe certamente piaciuto a Robert Walser, lo scrittore
svizzero che per tutta la sua esistenza non ha fatto altro che praticare la
rinuncia alla vita.
Coprotagonisti del libro sono la timidezza e il pudore che nelle pagine de Il
segreto vengono mostrati senza reticenze in tutta la loro meravigliosa e al
tempo stesso inquietante grandezza. Se il libro sessanta anni fa al momento
della sua pubblicazione poteva anche essere definito un pugno nello stomaco, non
oso pensare a come possa essere accolto in un tempo come quello di oggi in cui
sentimenti come timidezza e pudore sono banditi e messi al pubblico ludibrio e
nel quale, come giustamente ha osservato Claudio Magris: “Tutto deve essere
detto, tutti devono sapere, non c’è nulla che vada trattato con
discrezione”. Sempre a questo proposito, Milan Kundera ha detto parole scolpite
nella pietra:
> “La fine dell’intimità è la catastrofe del mondo contemporaneo”.
Nel libro non ci sono avvenimenti esterni significativi, tutto il romanzo è un
monologo del protagonista e anche Trieste, la città in cui è ambientata la
storia, resta sullo sfondo. Al centro della scena c’è solo e soltanto il
continuo ininterrotto rimuginare di Mino. Una volta arrivati alla fine del
romanzo, l’immagine che si spalanca davanti agli occhi del lettore è quella di
uno straordinario panorama interiore, lo spaccato di un’anima tormentata.
Silvano Calzini
*In copertina: Vanni Rossi, Autoritratto, 1922
L'articolo “Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto
elogio della timidezza proviene da Pangea.
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È un romanzo? Forse. È un’autobiografia? Può essere. È una biografia
immaginaria? Probabile. Confesso che questa ricerca di una definizione non mi
appassiona più di tanto. Preferisco andare al sodo e dire, forte e chiaro, che è
un libro meraviglioso. Mi sto riferendo a La vita di Arsen’ev di Ivan Bunin
(1870-1953), primo scrittore russo a ricevere il Premio Nobel per la letteratura
nel 1933. Figlio di aristocratici decaduti, un’infanzia isolata vissuta in
campagna a contatto con la natura, nel 1920 abbandonò la Russia comunista
rifugiandosi in Francia dove visse fino alla fine dei suoi giorni. Leggendolo è
facile capire che la sua avversione alla Rivoluzione bolscevica e al comunismo
era pre-politica e aveva ben poco a che fare con l’ideologia; nasceva piuttosto
dal suo animo prima ancora che dal suo cervello. Per le stesse ragioni durante
gli anni del suo esilio in Francia fu uno strenuo oppositore del nazismo.
Autore di grande raffinatezza, ne La vita di Arsen’ev Bunin ha messo
osservazioni, sensazioni, riflessioni legate all’esistenza del
protagonista Arsen’ev, un cinquantenne di origini nobili cresciuto nella
profonda e sconfinata provincia russa, esperienza molto simile a quella di Bunin
stesso, che ricorda la propria infanzia e giovinezza.
Considerato un legittimo erede dei giganti della letteratura russa, da Turgenev
a Gončarov da Puškin a Tolstoj, fu amico e discepolo di Čechov al quale lo
accomuna un realismo scarno, preciso, alieno da ogni affettazione, Bunin è prima
di ogni cosa un cantore dell’anima russa:
> «Non v’è dubbio che proprio quella sera mi sfiorò per la prima volta la
> coscienza che ero russo e vivevo in Russia (…) e d’un tratto la sentii, questa
> Russia, sentii il suo passato e presente, le sue selvagge, terribili e
> tuttavia affascinanti caratteristiche e il mio legame di sangue con essa…».
La vita di Arsen’ev è un libro sostanzialmente di sentimenti profondi, di
atmosfere e psicologie più che di trama, inseriti in un tempo ormai perduto in
modo irrimediabile fatto di nostalgie e di passioni. Il protagonista ricorda gli
anni della sua infanzia e poi della sua giovinezza, esplorando i temi della
nostalgia, del passare del tempo e dell’inevitabile perdita che accompagna la
crescita personale. Splendidi i ritratti della natura che accompagnano il
viaggio interiore del giovane.
Acutamente Andrea Tarabbia nella Prefazione all’edizione pubblicata dalla casa
editrice Medhelan riferisce che per Bunin lo scrittore non è un narratore, un
raccontatore di storie, ma un osservatore e ricorda che l’autore amava definire
il proprio libro un “poema in prosa”. Non a caso in realtà Bunin nasce come
poeta e tale resta anche nei suoi lavori in prosa. In effetti leggendolo è
facile accorgersi, pagina dopo pagina, che a farla da padrona è la vena lirica
delle sensazioni e dei sentimenti che hanno toccato il suo animo. Il
protagonista Arsen’ev viene guidato dai suoni, dai colori, dagli odori che
arrivano dai suoi ricordi giovanili. Sono quegli istanti, magici e irripetibili,
che ci segnano una volta per tutte. Un imprinting emotivo indelebile destinato a
segnare la nostra vita e le nostre relazioni con gli altri per sempre. Andando
avanti con gli anni ci accorgeremo che è questo il tesoro più prezioso che ci
portiamo dentro, molto più importante degli avvenimenti che hanno costellato la
nostra esistenza o delle opinioni che abbiamo avuto.
> «In questo viale una bella signorina ci veniva incontro con le amiche… e lei,
> di sotto al bizzarro cappellino, si illuminò tutta di un sorriso sinceramente
> gioioso. Dinanzi al padiglione zampillava una fontana dal getto a ventaglio;
> mi sono rimasti impressi per sempre la sua freschezza e l’odore delizioso dei
> fiori che essa irrorava e che, come seppi dopo, si chiamavano semplicemente
> ‘tabacco’. Mi sono rimasti impressi perché quell’odore si associò per me a un
> sentimento di innamoramento, di cui per la prima volta in vita mia fui
> dolcemente malato per alcuni giorni. Grazie a lei, a quella signorina
> provinciale, non posso ancor oggi sentire senza emozione l’odore del tabacco,
> e lei non ha nemmeno mai saputo che io sia esistito e che sempre durante tutta
> la mia vita ricordavo lei e la freschezza della fontana non appena soltanto
> sentivo quell’odore…»
La vita di Arsen’ev è il capolavoro di queste epifanie emotive; posso
testimoniare che leggerlo significa scoprire un autentico libro del cuore da
tenere sempre a portata di mano, in modo particolare nei momenti difficili della
nostra vita. Un balsamo emotivo in grado di lenire le tante ferite che
l’esistenza ci inferisce. Quando descrive certe sensazioni Bunin ha lo
straordinario potere, per certi versi magico, di trasformare la percezione
dell’attimo, tramutando piccoli eventi personali quasi insignificanti in valori
universali capaci di superare ogni confine di tempo e di spazio. Per capirli,
farli propri e tenerseli stretti non è necessario avere vissuto nella sperduta
campagna russa di un secolo e mezzo fa come Arsen’ev, basta aprire il proprio
animo al senso più autentico dell’esistenza.
Silvano Calzini
L'articolo Su Ivan Bunin, il cantore della selvaggia e terribile Russia.
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