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“…e io stesso non esisto più”. Divorando il cuore di Strindberg
August Strindberg sta alla solitudine come Marcel Proust sta alla memoria. Parafrasando quello che una volta Walter Benjamin ha detto di Proust, si può dire che per lo scrittore svedese la parte principale non è affatto svolta da ciò che egli ha vissuto, ma dalla tela di Penelope della sua solitudine. D’altra parte basta leggere Solo, il romanzo breve pubblicato nel 1903 per avere conferma di quanto ho appena affermato. Il protagonista-narrante è un cinquantenne vedovo che, dopo avere vissuto per una decina di anni in provincia, torna nella sua città natale, Stoccolma. Qui si trova faccia a faccia con la noia per i vuoti rituali sociali travestiti da normalità e per le futili chiacchiere da caffè con i vecchi amici di un tempo, così sceglie deliberatamente l’isolamento ed elegge la solitudine come il luogo più autentico dove realizzare se stesso. Affitta una camera ammobiliata da cui esce solo per delle brevi passeggiate, evitando ogni rapporto con il prossimo che non sia quello puramente formale della sopravvivenza quotidiana. Non vuole avere niente a che fare con quello che gli altri chiamano progresso, civiltà, normalità.  Per molti versi Solo è la rappresentazione del conflitto insanabile tra la società e l’individuo. > «Nel rompere i contatti con gli altri ebbi dapprima l’impressione di perdere > energia, ma intanto il mio io cominciava come a coagularsi, ad addensarsi > intorno a un nucleo in cui si riunivano, si fondevano le mie sensazioni, e la > mia anima le assorbiva come nutrimento. Inoltre mi abituai a dare corpo a > qualsiasi cosa vedessi o udissi in casa, per la strada o nella natura, e nel > trasferire ogni mia percezione al lavoro in corso sentivo crescere il mio > capitale; così, gli studi che facevo in solitudine risultavano più > significativi degli studi sulla gente nella mia vita di società.» Quella dell’io-narrante di Solo è una solitudine voluta e ricercata, una solitudine allo stato puro, tonica, fortificante, tutta tesa a riassaporare idee, ricordi e istanti vissuti sotto un’ottica diversa. Una condizione che nella visione di Strindberg è essenziale per conoscere se stessi, ritrovarsi e approfondire la propria identità.  Coprotagonista assoluta del romanzo è Stoccolma, rappresentata nello scorrere dei giorni, dei mesi, delle stagioni, dalle luminose e interminabili serate estive alle cupe e brevi giornate invernali e alla quale l’autore si abbandona senza opporre resistenza.  > «È di nuovo inverno, il cielo è grigio e la luce viene dal basso, dalla neve > candida per terra.» Case e strade hanno il potere di stimolare sensazioni del tutto particolari. In una delle scene più belle di Solo il protagonista ritorna per qualche minuto in una casa dove aveva abitato molti anni prima e nel suo animo riprendono vita le speranze e le paure di quando era giovane. Come dice bene Franco Perrelli nella acuta e penetrante introduzione al romanzo presente nell’edizione di Carbonio, in Solo «Stoccolma è soprattutto un luogo intimo, che vibra dentro e con il suo essere». In questo mare di solitudine però affiorano delle isole di socialità. In modo in apparenza del tutto involontario il personaggio narrante ha delle frequentazioni con quelle che lui definisce le “conoscenze impersonali”; sono gli estranei incrociati per caso in strada oppure visti di sfuggita attraverso le finestre illuminate di una casa. Ecco che allora, quasi per magia, quelle figure intraviste solo per qualche istante diventano la scintilla per accendere l’immaginazione del protagonista, che in questo modo approfitta della solitudine in cui è immerso per trasformare e potenziare a dismisura il proprio io.  Un processo con un fascino del tutto particolare e anche un po’ inquietante. Leggete la citazione che segue e ditemi se non è vero che per molti versi fa venire alla mente, mutatis mutandis, la metamorfosi raccontata da Stevenson ne Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde:  > «Quando però torno a casa e mi siedo alla scrivania mi sento veramente vivo… > sguscio fuori dalla mia persona e parlo come fossi un bambino, una donna o un > vecchio: sono re e mendicante, sono il signore potente, il tiranno e il più > disprezzato, il ribelle sconfitto; qualsiasi opinione mi appartiene e > qualsiasi religione è la mia; vivo in qualsiasi epoca, e io stesso non esisto > più.» Chi lo conosce e ha letto un po’ dei suoi libri sa bene che esistono molti Strindberg diversi: ildrammaturgo, il romanziere, il botanico, il chimico e persino l’occultista. La sua è stata una personalità complessa e tormentata che ha attraversato molte crisi, e così abbiamo avuto lo Strindberg antifemminista, quello ateo, il precursore dell’autoanalisi psicologica, lo scrittore naturalista e quello espressionista, il mistico seguace di Swedenborg e poi di Nietzsche. Quello che incontriamo in Solo è uno Strindberg lontano dai toni veementi e dalle furie selvagge per cui è più conosciuto. Le sue proverbiali invettive qui lasciano il posto a toni più sommessi, i suoi furori misogini vengono messi in disparte per lasciare spazio a tormenti più intimi e personali. Lo Strindberg brutale misantropo dei tanti drammi teatrali che ha scritto, il tormentato visionario delle sue opere più autobiografiche si prende una pausa di riflessione e preferisce volgersi verso le sfumature più sensibili del proprio animo. In Solo Strindberg ha deposto la sciabola dell’invettiva per affidarsi al fioretto della poesia. In queste poco più di cento pagine prima ancora del suono della sua voce sentiamo i battiti del suo cuore. Silvano Calzini L'articolo “…e io stesso non esisto più”. Divorando il cuore di Strindberg proviene da Pangea.
June 18, 2025 / Pangea
“Preferisco sparire, adesso”. Vita di Robert Walser, lo scrittore che divenne uno zero assoluto
> «Ciò che non viene detto, ha la vita più forte, perché ogni dire ed ogni > accennare toglie qualcosa all’oggetto, lo intacca, e così lo diminuisce». Riflessioni del genere non possono venire che da un grande silenzioso come lo scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956). Il più silenzioso dei silenziosi. Un antidoto a un mondo come quello di oggi dominato dal presenzialismo a tutti i costi, dalla facile indignazione, dalla protesta a buon mercato, dallo spasmodico bisogno di apparire e di parlare anche quando non si ha niente da dire. Leggerlo e conoscerlo vuol dire disintossicarsi dalla stupidità dilagante per entrare in regioni dello spirito dove soffia un vento sicuramente gelido, ma tonificante e salutare, che ci può aiutare a conservare un minimo di dignità. Sto parlando di uno scrittore unico e di una personalità originalissima, non classificabile in nessun gruppo, in nessuna categoria o comunità. Un isolato cultore della riservatezza e della povertà che non ha mai alzato la voce o protestato; un uomo che ha fatto dell’assenza la sua religione e che si è nascosto nelle pieghe della vita per salvarsi l’anima.  Se stiamo ai canoni esistenziali dominanti Walser è uno sconfitto dalla vita, un perdente, ma se si impara a conoscerlo un po’ si capisce che in realtà è un vincente. Sì, perché quest’uomo mite e inerme ha combattuto una lotta titanica e probabilmente è uno dei pochi esseri umani che sia riuscito a non farsi inghiottire da quell’ingranaggio infernale che ci stritola tutti, giorno per giorno, ora per ora.  > «Non è forse bello che nella nostra esistenza rimanga qualcosa d’ignoto, di > strano, come dietro un muro coperto d’edera? Questo le conferisce un fascino > indicibile che sempre più si va perdendo. Oggi si ha voglia di tutto, ci > s’impossessa di tutto con brutalità». I protagonisti dei suoi romanzi e delle sue prose brevi sono sempre dei perdigiorno o dei servitori che conducono un’esistenza insignificante, costretta nei limiti imposti da qualche entità superiore. Ma è proprio in questa subalternità il segreto. Solo mimetizzandosi in un ruolo anonimo è possibile salvaguardare il proprio io, non essere identificati dal potere e non cadere nella macina sociale. Walser vede con grande lucidità il vuoto e il non senso della realtà ed è convinto che per preservare un minimo di identità sia necessario abdicare alla vita. L’unica via di salvezza è in un’apparente sconfitta. Da qui la sua ossessione del “servire”. Dipendere da qualcuno o da qualcosa vuol dire rinunciare a un’effimera affermazione della propria personalità, ma anche essere esentati dal partecipare all’orrore del mondo.  Robert Walser (1878-1956) La stessa biografia di Walser è una testimonianza di questa sofisticata e silente tecnica di sopravvivenza. Prima si è dato a mille mestieri: dall’apprendista in banca nella natia Biel al commesso di libreria, dal copista al domestico in un continuo peregrinare tra la Svizzera e la Germania, quasi sempre a piedi perché Robert Walser era un formidabile camminatore, nel senso più nobile del termine come afferma Piero Citati: > «Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la > sua inquietudine, era la gioia, l’estasi. Dove poteva abitare, se la vita lo > teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla > pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida > sull’erba sino alla discesa delle tenebre». Poi, in seguito a certi suoi comportamenti e a crisi di ansia, nel gennaio del 1929, quando Walser ha cinquant’anni, viene ricoverato in una clinica per malattie nervose vicino a Berna. Da allora, per ventisette anni, vivrà sempre in case di cura, in un’assoluta solitudine, rinunciando anche a scrivere per coltivare solo e soltanto il silenzio. Almeno ufficialmente. In realtà molti anni dopo la sua morte si è scoperto che anche nei lunghi anni di ricovero Walser aveva continuato a scrivere, ma lo aveva fatto alla sua maniera, in modo nascosto; a matita, utilizzando fogli riciclati che trovava qua e là, e con una grafia talmente minuta da risultare illeggibile a occhio nudo. Sono i suoi cosiddetti microgrammi. Un altro modo per celarsi agli occhi del mondo. Nei lunghi anni di ricovero l’unico contatto con l’esterno saranno le lunghe passeggiate fatte in compagnia dell’amico Carl Seelig, che ci ha lasciato una toccante e preziosa testimonianza con il libro Passeggiate con Robert Walser di cui consiglio vivamente la lettura. Per il resto Walser passava le giornate nella grande camerata con gli altri malati intento a piegare sacchetti di carta, osservando in modo scrupoloso tutte le regole dell’istituto, anche le più stupide e insensate, e quando l’amico Seelig gli propose un trasferimento che migliorasse la sua situazione rifiutò in modo deciso. Non voleva avere privilegi né tanto meno rientrare in contatto con il mondo e si proponeva soltanto di soddisfare quella che una volta definì come la sua massima aspirazione: «diventare uno zero assoluto». > «Preferisco sparire, adesso. Certo, potevo scegliere un convento per > chiudermici dentro e pregare, rispettato dalla chiesa e dai potenti. Ma forse > è meglio il manicomio. Ci sono meno idee su Dio qui dentro, meno preghiere > incomprensibili, meno riti da accettare. Qui si sopravvive calmi. Qui si è > sicuramente malati. Certificazioni, esami, firme, diagnosi. Perché bisogna > avere sempre la testa inquieta? Il mondo non è già abbastanza agitato? Almeno > opponiamoci al furore. Qui deve esserci la quiete». La mattina di Natale del 1956 Robert Walser uscì dall’istituto psichiatrico di Herisau per una delle sue solite passeggiate. Da solo, nel silenzio più assoluto. Qualche ora più tardi venne ritrovato morto in un pendio coperto di neve. Giaceva disteso con la testa un po’ piegata, la bocca aperta e sul volto aveva un’espressione che assomigliava a un lieve sorriso. Silvano Calzini L'articolo “Preferisco sparire, adesso”. Vita di Robert Walser, lo scrittore che divenne uno zero assoluto proviene da Pangea.
May 28, 2025 / Pangea
Il suicidio di un’epoca. Elogio di Zweig, l’ultimo cantore di un’Europa scomparsa
«Sono nato in un grande possente impero, nella monarchia degli Absburgo, ma non si vada a cercarla sulla carta geografica essa è sparita senza traccia. Sono cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta lasciare come un delinquente prima che essa venisse degradata a città provinciale tedesca. Io ora non appartengo ad alcun luogo, sono dovunque uno straniero e tutt’al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era eletta, l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fraterna.» In queste parole tratte dall’introduzione alla sua autobiografia, Il mondo di ieri, c’è il ritratto completo della vita e del dramma di Stefan Zweig (1881-1942). Nato in una famiglia della grande borghesia ebraica di Vienna, cosmopolita per spirito e formazione, trascorse buona parte della sua vita viaggiando tra Vienna, Berlino, Zurigo, Parigi, Londra, e poi la Russia, l’Italia, l’America, sempre in contatto con i maggiori intellettuali dell’epoca. Autore soprattutto di racconti e biografie, fu uno scrittore popolarissimo tra le due guerre, ma resta un “minore” rispetto ai tanti giganti suoi contemporanei, da Thomas Mann a Robert Musil, solo per citare due scrittori della sua stessa epoca.  Con il passare degli anni la sua fama è sempre più rimasta legata all’immagine dell’ultimo cantore di un’epoca e di un’Europa ormai scomparse, un mondo dove ai suoi occhi regnavano l’amore per l’intelligenza e la cultura, il gusto per la poesia e la musica, un mondo nel quale:  > «ognuno sapeva quanto possedeva e quanto gli era dovuto, quel che era permesso > e quel che era proibito in cui tutto aveva una sua norma, un peso e una misura > precisi». L’Europa di Zweig era quella dove non esistevano frontiere e passaporti, accomunata da una spiritualità comune, che credeva nella funzione storica della cultura, strumento di comunicazione e di dialogo tra i popoli e tra le società. L’avvento della modernità, così arrogante e volgare, il culto dell’efficientismo e l’esplosione dei nazionalismi che porteranno l’Europa a “suicidarsi” con le due guerre mondiali, furono qualcosa di sconvolgente e incomprensibile per Zweig, del tutto incapace di accettare la nuova realtà. Per restare fedele al suo personaggio, Zweig diede alla sua autobiografia, Il mondo di ieri, scritta quando era già in esilio, il sottotitolo “Ricordi di un europeo”.  La sua era senza dubbio una visione aristocratica, di chi era cresciuto e si era formato nel privilegio, e la critica ha spesso colto nella sua nostalgia un sapore dolciastro, un che di troppo caramelloso. Facile immaginare che un tipo del genere poteva dare sui nervi a uno scrittore come Carlo Emilio Gadda, che infatti dopo avere letto Il mondo di ieri diede uno dei suoi giudizi al vetriolo: > «Un trufolone europeo che va in cerca di tutti, è amico e ospite di tutti, è > stato a balia con tutti (…) Tutto ciò non gli impedisce di ‘nutrire degli > ideali’. Il più alto, il più generoso, e ad un tempo il più facile, è la > comunione delle anime universe nella civiltà della supernazione. Auspicio > supremo la scomparsa dei passaporti». Con il passare degli anni però, aldilà dell’alone nostalgico, resta un punto fermo incontestabile che Zweig aveva colto a pieno: il grande ciclo storico dell’Europa si è chiuso per sempre. Tutto quello che è successo dal 1945 a oggi lo testimonia senza ombra di dubbio.  Per capire meglio quella che era la sua visione del mondo, vecchio e nuovo, il consiglio migliore resta quello di leggere La novella degli scacchi, forse il racconto più famoso e sicuramente, almeno a mio parere, il più bello di Stefan Zweig, scritto negli ultimi mesi di vita. Il tema è quello di una sfida tra due personaggi che rappresentano due opposte umanità: uno, il dottor B, sensibile e tormentato, è arrivato agli scacchi attraverso un percorso drammatico, l’altro, Mirko Czentović, un gelido professionista, arido, rozzo e del tutto ignorante, “specializzato” solo nel gioco degli scacchi.  > «Il contrasto spirituale dell’habitus dei due avversari divenne, nel corso > della partita, sempre più plastico, più concreto. Czentović, il praticone, > rimase per tutto il tempo immobile come un masso, gli occhi strenuamente fissi > sulla scacchiera… Il dottor B. invece si muoveva del tutto disteso e > disinvolto. Come il vero dilettante nel senso migliore del termine, che nel > gioco vede solo il gioco che procura “diletto”». Una sfida che alla fine vede inesorabilmente soccombere il “mondo di ieri”, rappresentato dall’anima aristocratica e sensibile del dottor B., di fronte al “mondo nuovo”, sotto le sembianze della forza brutale e ottusa di Czentović.  Questo racconto va considerato come il testamento spirituale di Zweig, che lo scrisse negli ultimi mesi del 1941 a Petropolis, la cittadina vicino a Rio de Janeiro dove era andato a vivere, lontano, il più lontano possibile, dalla sua Europa che non riconosceva più. Ormai era un uomo stanco, deluso, che vedeva finire in cenere tutto ciò in cui aveva sempre creduto.  Allo stesso modo dei vecchi elefanti che quando sentono avvicinarsi la fine abbandonano il branco, anche Zweig, preso atto della sua sconfitta definitiva, se ne andò in fondo al buco del culo del mondo dove il 23 febbraio del 1942 si suicidò insieme alla seconda moglie. Silvano Calzini *In copertina: Samuel Reshevsky (1911-1992), scacchista di genio e bambino prodigio, il 6 aprile del 1922, sfida alcuni maestri a Washington DC L'articolo Il suicidio di un’epoca. Elogio di Zweig, l’ultimo cantore di un’Europa scomparsa proviene da Pangea.
May 19, 2025 / Pangea
“Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto elogio della timidezza
Nel 1961 veniva pubblicato per interessamento di Linuccia Saba, figlia del grande poeta Umberto, il romanzo Il segreto a firma di Anonimo Triestino. All’epoca fu un piccolo caso letterario anche per l’alone di mistero che lo circondava: dal nome dell’autore, al titolo, alla singolarità psicologica del protagonista. Con il passare degli anni il velo di mistero si dissolse, anche se solo in parte. In un primo tempo la paternità del romanzo venne attribuita a Guido Voghera (1884-1959), un professore di matematica triestino, che si sarebbe ispirato alle complesse vicende psicologiche del figlio Giorgio (1908-1999), il quale poi nel corso degli anni è stato riconosciuto come il vero autore, anche se lui, pur ammettendo di essere il protagonista, ha continuato a negare fino alla fine dei suoi giorni con una cerimoniosa ritrosia che la dice lunga sulla sua psicologia.  A tutt’oggi c’è ancora chi pensa a un libro scritto a quattro mani da padre e figlio.  Al di là della querelle autoriale, quello che non si è mai dissolto è il fascino del romanzo: una lunga struggente storia d’amore senza speranza. Il libro non è altro che il racconto prima di un bambino, poi di un ragazzo e infine di un uomo e della sua passione per Bianca, un amore mai dichiarato a causa di una timidezza che diventa una nevrosi inibitoria. Nella parte iniziale del libro è possibile rintracciare una possibile chiave di lettura quando Mino, il protagonista, che ancora non ha incontrato Bianca, alle prese con sue prime fantasie amorose fa una riflessione: > “Il concetto che l’amore dovesse venir nascosto prese, col fantasticarci a > lungo sopra, profonde radici nel mio animo, più profonde ancora di quanto io > stesso non me ne rendessi conto. E da ciò fu determinato, forse in parte non > piccola, il mio avvenire”. Lo stesso concetto lo ritroviamo nel momento in cui Mino realizza per la prima volta di essere innamorato di Bianca e al contempo che il loro amore è destinato a rimanere una sua fantasia. Una sera i loro sguardi si incrociano per pochi istanti lungo il Corso e tanto basta. I giochi sono fatti. Una passione appena sbocciata e già inibita. La nascita e la fine di un amore intrecciate in modo inestricabile.  > “Ecco, fra i molti visi che il mio sguardo sfiora e sorpassa, un viso che mi > fa un’impressione del tutto diversa dagli altri: è un viso di bambina, > delicato e serio, dolcemente pensieroso… Era proprio il destino che mi > indicava che l’avrei dovuta amare; era l’espressione del suo volto che, solo > fra mille, aveva parlato al mio cuore. Quella sera tornai a casa con la testa > piena di sogni, e con la coscienza che la barriera che c’era fra noi era > diventata ancora più alta, molto più alta”.  A mano a mano che si procede nella lettura del romanzo si viene presi da una duplice sensazione. Da una parte si vorrebbe che Mino si liberasse delle sue inibizioni e riuscisse a parlare con Bianca; dall’altra ci si rende conto di essere di fronte a un amore perfetto così com’è, non macchiato dalla banalità del quotidiano che finirebbe per incrinarne la purezza. Il protagonista non nasconde i limiti di Bianca, bella ma non bellissima, non particolarmente intelligente o colta, un po’ superficiale e capricciosa, ma il sentimento che prova per lei vola più alto e non viene scalfito dalla realtà e dalle sue miserie.  Uno scontro tra amore e desiderio nel quale il primo è troppo più forte e finisce per soffocare il secondo senza pietà. Potremmo dire che quella di Mino è una rinuncia all’amore per un eccesso di amore. E così la sua attrazione per Bianca resta per sempre confinata negli sconfinati meandri della fantasia nel cui filo Mino finisce per avvolgersi sempre di più finendo per chiudersi dentro di sé come in un bozzolo protettivo. Nel corso del romanzo Mino segue, ma forse è più giusto dire che osserva come un entomologo la vita di Bianca, prima da vicino come compagni di classe, poi da lontano quando lei lascia da scuola per fare la signorina di buona famiglia e lui si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Quando Bianca si fidanza con un altro uomo Mino soffre per la gelosia ma ancora di più per i difetti e le debolezze che crede di cogliere nella sua amata quando qualche volta la incontra nelle strade di Trieste sotto braccio al fidanzato e continua a fantasticare di averla tutta per sé: > “Da quell’immagine, da quel pensiero, nasceva in me un desiderio, tormentoso > nella sua vanità, di proteggerla dalla volgarità del mondo, da tutto ciò che > poteva offenderla, turbarla o inquietarla; di tenermela vicina, di > accarezzarla come una bimba, di circondarla di tanto amore umile e puro, di > tanta infinita adorazione”. Di fatto Il segreto è un inno alla rinuncia. Mino è stretto parente dello scrivano Bartleby di Melville e dell’Emilio Brentani, che Svevo ha messo al centro di Senilità e sarebbe certamente piaciuto a Robert Walser, lo scrittore svizzero che per tutta la sua esistenza non ha fatto altro che praticare la rinuncia alla vita.  Coprotagonisti del libro sono la timidezza e il pudore che nelle pagine de Il segreto vengono mostrati senza reticenze in tutta la loro meravigliosa e al tempo stesso inquietante grandezza. Se il libro sessanta anni fa al momento della sua pubblicazione poteva anche essere definito un pugno nello stomaco, non oso pensare a come possa essere accolto in un tempo come quello di oggi in cui sentimenti come timidezza e pudore sono banditi e messi al pubblico ludibrio e nel quale, come giustamente ha osservato Claudio Magris: “Tutto deve essere detto, tutti devono sapere, non c’è nulla che vada trattato con discrezione”. Sempre a questo proposito, Milan Kundera ha detto parole scolpite nella pietra:  > “La fine dell’intimità è la catastrofe del mondo contemporaneo”. Nel libro non ci sono avvenimenti esterni significativi, tutto il romanzo è un monologo del protagonista e anche Trieste, la città in cui è ambientata la storia, resta sullo sfondo. Al centro della scena c’è solo e soltanto il continuo ininterrotto rimuginare di Mino. Una volta arrivati alla fine del romanzo, l’immagine che si spalanca davanti agli occhi del lettore è quella di uno straordinario panorama interiore, lo spaccato di un’anima tormentata. Silvano Calzini *In copertina: Vanni Rossi, Autoritratto, 1922 L'articolo “Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto elogio della timidezza proviene da Pangea.
April 17, 2025 / Pangea
Su Ivan Bunin, il cantore della selvaggia e terribile Russia. Leggerlo è un balsamo
È un romanzo? Forse. È un’autobiografia? Può essere. È una biografia immaginaria? Probabile. Confesso che questa ricerca di una definizione non mi appassiona più di tanto. Preferisco andare al sodo e dire, forte e chiaro, che è un libro meraviglioso. Mi sto riferendo a La vita di Arsen’ev di Ivan Bunin (1870-1953), primo scrittore russo a ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1933. Figlio di aristocratici decaduti, un’infanzia isolata vissuta in campagna a contatto con la natura, nel 1920 abbandonò la Russia comunista rifugiandosi in Francia dove visse fino alla fine dei suoi giorni. Leggendolo è facile capire che la sua avversione alla Rivoluzione bolscevica e al comunismo era pre-politica e aveva ben poco a che fare con l’ideologia; nasceva piuttosto dal suo animo prima ancora che dal suo cervello. Per le stesse ragioni durante gli anni del suo esilio in Francia fu uno strenuo oppositore del nazismo. Autore di grande raffinatezza, ne La vita di Arsen’ev Bunin ha messo osservazioni, sensazioni, riflessioni legate all’esistenza del protagonista Arsen’ev, un cinquantenne di origini nobili cresciuto nella profonda e sconfinata provincia russa, esperienza molto simile a quella di Bunin stesso, che ricorda la propria infanzia e giovinezza.  Considerato un legittimo erede dei giganti della letteratura russa, da Turgenev a Gončarov da Puškin a Tolstoj, fu amico e discepolo di Čechov al quale lo accomuna un realismo scarno, preciso, alieno da ogni affettazione, Bunin è prima di ogni cosa un cantore dell’anima russa: > «Non v’è dubbio che proprio quella sera mi sfiorò per la prima volta la > coscienza che ero russo e vivevo in Russia (…) e d’un tratto la sentii, questa > Russia, sentii il suo passato e presente, le sue selvagge, terribili e > tuttavia affascinanti caratteristiche e il mio legame di sangue con essa…». La vita di Arsen’ev è un libro sostanzialmente di sentimenti profondi, di atmosfere e psicologie più che di trama, inseriti in un tempo ormai perduto in modo irrimediabile fatto di nostalgie e di passioni. Il protagonista ricorda gli anni della sua infanzia e poi della sua giovinezza, esplorando i temi della nostalgia, del passare del tempo e dell’inevitabile perdita che accompagna la crescita personale. Splendidi i ritratti della natura che accompagnano il viaggio interiore del giovane.  Acutamente Andrea Tarabbia nella Prefazione all’edizione pubblicata dalla casa editrice Medhelan riferisce che per Bunin lo scrittore non è un narratore, un raccontatore di storie, ma un osservatore e ricorda che l’autore amava definire il proprio libro un “poema in prosa”. Non a caso in realtà Bunin nasce come poeta e tale resta anche nei suoi lavori in prosa. In effetti leggendolo è facile accorgersi, pagina dopo pagina, che a farla da padrona è la vena lirica delle sensazioni e dei sentimenti che hanno toccato il suo animo. Il protagonista Arsen’ev viene guidato dai suoni, dai colori, dagli odori che arrivano dai suoi ricordi giovanili. Sono quegli istanti, magici e irripetibili, che ci segnano una volta per tutte. Un imprinting emotivo indelebile destinato a segnare la nostra vita e le nostre relazioni con gli altri per sempre. Andando avanti con gli anni ci accorgeremo che è questo il tesoro più prezioso che ci portiamo dentro, molto più importante degli avvenimenti che hanno costellato la nostra esistenza o delle opinioni che abbiamo avuto. > «In questo viale una bella signorina ci veniva incontro con le amiche… e lei, > di sotto al bizzarro cappellino, si illuminò tutta di un sorriso sinceramente > gioioso. Dinanzi al padiglione zampillava una fontana dal getto a ventaglio; > mi sono rimasti impressi per sempre la sua freschezza e l’odore delizioso dei > fiori che essa irrorava e che, come seppi dopo, si chiamavano semplicemente > ‘tabacco’. Mi sono rimasti impressi perché quell’odore si associò per me a un > sentimento di innamoramento, di cui per la prima volta in vita mia fui > dolcemente malato per alcuni giorni. Grazie a lei, a quella signorina > provinciale, non posso ancor oggi sentire senza emozione l’odore del tabacco, > e lei non ha nemmeno mai saputo che io sia esistito e che sempre durante tutta > la mia vita ricordavo lei e la freschezza della fontana non appena soltanto > sentivo quell’odore…» La vita di Arsen’ev è il capolavoro di queste epifanie emotive; posso testimoniare che leggerlo significa scoprire un autentico libro del cuore da tenere sempre a portata di mano, in modo particolare nei momenti difficili della nostra vita. Un balsamo emotivo in grado di lenire le tante ferite che l’esistenza ci inferisce. Quando descrive certe sensazioni Bunin ha lo straordinario potere, per certi versi magico, di trasformare la percezione dell’attimo, tramutando piccoli eventi personali quasi insignificanti in valori universali capaci di superare ogni confine di tempo e di spazio. Per capirli, farli propri e tenerseli stretti non è necessario avere vissuto nella sperduta campagna russa di un secolo e mezzo fa come Arsen’ev, basta aprire il proprio animo al senso più autentico dell’esistenza. Silvano Calzini L'articolo Su Ivan Bunin, il cantore della selvaggia e terribile Russia. Leggerlo è un balsamo proviene da Pangea.
March 18, 2025 / Pangea