La storia della letteratura è costellata di nomi invisi alla critica e destinati
a un immeritato oblio. Spesso scavalcati dalle righe antologiche, censurati o
macchiati dallo stigma di un castigo morale imposto dalla propria epoca, la cui
eco grava a tutt’oggi sulla loro eredità artistica, costituiscono un lavoro
avventuroso – e quanto mai necessario – per molti esegeti. È certamente questo
il caso di Jacques d’Adelswärd-Fersen, il poeta barone francese ritratto con
scrupolosa attenzione da Roger Peyrefitte – autore delle pubescenti Amitiés
particulières (1943) – ne L’Exilé de Capri[1] (Edizioni La Conchiglia, Capri
2020).
Dalla precisione di un testamento, la biografia romanzata rende omaggio a uno
scrittore considerato assai controverso, oltretutto ancora poco noto,
restituendo al contempo l’affresco di un mondo perduto, quello dei primi del
Novecento, al confine tra Italia e Oltralpe.
Nella prefazione al romanzo, un impietoso Jean Cocteau lo etichettava
ingiustamente come «Eros Apteros». Per dirla col Vate, il
disdegnato maudit incarnava una sorta di Cupido «larvato e senz’ali» (Il Fuoco,
1900), una razza di impotente lirico al quale sono state tarpate le ali alla
nascita, che è riuscito tuttavia a tramutare la propria vita in un’opera
d’arte. Sotto questa luce, l’elegante damerino della Belle Époque rassomiglia a
prima vista a “uno di quei personaggi emersi direttamente dalla letteratura, uno
di quei protagonisti tipici che non è difficile incontrare in certi libri di
Baudelaire e di Flaubert, una via di mezzo tra Dorian Gray e Andrea
Sperelli.”[2]
Eppure, colui che fu definito a suo tempo un «Oscar Wilde au petit pied»[3] era
in realtà molto più complesso dell’esteta apollineo modellato sullo stereotipo.
Come ribadisce il suo più tenace studioso Gianpaolo Furgiuele (Jacques
d’Adelswärd-Fersen. La cospirazione delle sirene[4], Ladolfi, 2021), promotore
di una riscoperta del talento artistico così come della assoluta modernità della
voce – coraggiosa, vibrante e fuori da ogni regola – di questo «ultimo dandy»
della sua generazione, Jacques Fersen è stato testimone di un Decadentismo ormai
agli sgoccioli ed è riuscito ad attirare attorno alla sua figura una colonia di
artisti e intellettuali rinnegati in patria.
Poeta mercuriale e ramingo, compose versi carichi di spleen poggiandosi su
eclettiche commistioni metriche. Il sogno irrealizzabile di ritorno al
paganesimo in un mondo di pregiudizi lo avrebbe perlomeno elevato al ruolo di
cantore del passato classico. Non esente dall’invettiva polemica, in aperta
sfida delle convenzioni, fu anche direttore di una delle prime riviste europee a
carattere marcatamente omosessuale, la “Revue Mensuelle d’Art Libre et de
Critique” (in vita un anno, 1909), che raccolse, tra gli altri, contributi di
Anatole France, Achille Essebac, Colette e del nostro Tommaso Marinetti.
Finito ben presto sulle liste di proscrizione francesi come “persona non grata”,
il beniamino diurno dei salotti mondani, schiavo di orde fameliche di ragazzi
(tra cui molti minorenni) e libertino sfrenato durante la notte, pensò bene di
lanciare una satira alla «maschera infiacchita e grottesca» della società
benpensante, la stessa che l’aveva condannato – in modo non dissimile dal caso
wildiano in Inghilterra – per oltraggio alla morale pubblica, in Voi siete i
borghesi:
> “[…] Contro un male sconosciuto
> Mettete alla porta Ganimede, e nudo,
> Benché segretamente ne conserviate la brama;
> Insensati, pensate di avere un gesto d’artisti
> E vi scagliate sui nostri pretesi vizi.
> Credete di cancellare il riso di Narciso,
> Scapini che non siete, valletti di Cesare?”
In seguito agli scandali delle sue “Messe nere” (difese in Lord
Lyllian[5], 1905) – nient’altro che innocenti tableaux vivants più che cortei di
giovinetti in panni di efebi – inscenate nei suoi appartamenti parigini, si
rifugiò in esilio volontario nella terra del Grand Tour, da qui alla volta di
Napoli fino a Capri. Nel 1904 tornava sull’isola dei piaceri segreti della sua
giovinezza, a cui era stato iniziato dal nobile Robert de Tournel, immortalata
da Norman Douglas[6] in Vento del Sud (1917) e da Compton McKenzie[7] nel
romanzo caprese Le vestali del fuoco (1927). Intorno a lui, i contemporanei
conosciuti sul posto, vittime sofisticate dell’etica nordica che popolano
l’aneddotica del sogno italiano d’inizio secolo, erano le “sorelle”
Walcott-Perry – le inquiline saffiche di Villa Torricella – al braccio
dell’amatissima marchesa Casati (detta la Semiramide), la principessa Ephi
Lovatelli e Godfrey Henry Thornton, l’ufficiale in congedo coinvolto in
malaffari con giovanotti locali, tutti invitati speciali ai suoi festini, dove
passò la crème de la crème di quegli anni.
L’episodio, riportato da Peyrefitte, che imprime la parabola all’intera storia,
reale e immaginaria, del giovane aristocratico fu però l’incontro folgorante con
gli sventurati amanti inglesi, ‘Bosie’ Douglas e Wilde (appena liberato da
Reading), apparsi in un breve cameo vacanziero del 1897, quando questi ultimi
vennero cacciati dal ristorante Quisisana:
> “Robert gli prese la mano sotto la tovaglia. ‘Calmatevi, ragazzo mio,
> calmatevi.’ Con aria ironica, il giovane Lord toccò la spalla del maître
> d’hôtel con il suo bastone. ‘Vi faccio i miei complimenti in nome
> dell’Inghilterra’, disse. Se ne andò con il suo amico e gli ospiti tornarono a
> sedersi, senza domandargli spiegazione per quelle parole. Negli occhi di
> Jacques brillavano le lacrime, e le aveva viste brillare in quelli di Oscar
> Wilde”.
Dopo un turbinoso giro del Mediterraneo, il tragico Fersen – spogliatosi del
primo cognome d’alto lignaggio – oserà scappare definitivamente sull’isola blu
con l’amato Nino Cesarini, un manovale quindicenne conosciuto per le vie
dell’Urbe e «più bello della luce di Roma», perfetto per gli scatti iconici dei
fotografi Plüschow e Von Gloeden. Assunto il piccolo Adone come “segretario”
privato, a tratti algido eppure fedele in lunghi pellegrinaggi orientali e
divertimenti oppiacei, l’illustrissimo conte (così per gli amici) creò a
Capri il suo paradiso artificiale: un paesaggio «infernale e divino insieme», ma
anche un riparo fatto di silenzio e pace per poter scrivere e amare come
desiderava, senza ostacoli di perbenismo borghese o riprovazione di sorta. Per
coltivare le sue passioni più intime, fece costruire su un eremo dell’isola una
magnifica residenza in stile rocaille, «sacra al dolore e all’amore»,
ribattezzata poi Villa Lysis da La Gloriette. Un tempio d’amicizia platonica,
divenuto il simbolo di una personale Acropoli della bellezza, comunicante con la
gloriosa Villa Jovis di Tiberio (due passi più in alto), dove riceveva file di
accoliti.
Allo stesso tempo, l’amara realtà lo risvegliava col fardello di un’angoscia
insaziabile derivata in gran parte dall’ostracismo sociale. Nell’autunno 1923,
recluso dentro il suo fumoir sotterraneo, dal cuore stanco di ogni frenesia e
reprobo degli isolani, ingiuriato a più riprese dalla stampa scandalistica in
quanto omosessuale e “mangiatore di oppio”, decise di tagliare corto con
un’overdose di coca affondata in un bicchiere di champagne.
Gli ultimi fleurs du mal, sparsi come anatemi sugli altari dell’invocato Angelo
della morte, fanno eco alle litanie di Lionel Johnson (The Dark Angel, 1894),
mentre cade allucinato:
“O bell’Angelo del male che vivi nelle tenebre
Per esaltarmi la dolcezza dell’amore maledetto;
Angelo triste, esule dai divini paradisi,
Quale ombra serra il tuo funebre sorriso?
Eppure, hai conosciuto i baci più sanguinanti,
L’abbraccio urlante e tenero dei giovani.
In te si è riflesso il loro più bel sonno
Come il chiaro di luna in mare nelle sere dei poeti.
I fanciulli ti hanno offerto la freschezza della loro bocca
E la loro anima innocente in cui tremava l’ignoto.
Il mondo intero ha vibrato nelle tue braccia nude
Sul tuo ventre, O Satana, che sogghigni truce,
Perché tu passi, vai, disprezzi, muori, rinasci,
Spazzando la terra con le tue ali,
Mentre si prova, nell’eterno errore, a colmare
Attraverso un dio il vuoto dei nostri cuori.”
Nella sua casa dell’anima, a distanza di più di cent’anni, lo spettro
malinconico del barone sembra risalire dai marosi e aleggiare tra le stanze
desolate, sopra gli occhi dei visitatori che in ogni stagione accorrono a
quell’antica dimora attratti dalla sua fama. La targa apposta a strapiombo
sull’azzurro intorno alla villa, da lui consacrata «alla gioventù d’amore», reca
il monito di una vita consumata al limite della vertigine. Dopotutto, come detta
la Morante nella vicina Achilleide, fuori del limbo non v’è eliso.
Pierluigi Piscopo
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Messi da parte i versi della maturità, si propone qui una manciata di poesie
giovanili di Jacques Fersen, tratte da L’innario di Adone: alla maniera del
signor marchese de Sade (1902), dove la tipica provocazione del verbo si
stempera in un’insueta dolcezza, con echi ai maestri simbolisti e decadenti
prediletti, da Rimbaud a d’Aurevilly.
L’innario di Adone (Proemio)
Per le aurore d’oro dove l’erba giace addormentata
Sotto la rugiada caduta dalle labbra della notte,
Per le aurore d’oro quando canti amici
Si svegliano nei nidi con un frullo d’ali e di voci,
Son partito leggero, più leggero d’un capro,
Attraverso i campi arati e i boschi tremanti,
Con nastri chiari e munito d’un arco in legno bianco,
Per venire a conquistare, O giovane Adone, la tua bocca!
Udivo i richiami dei fiori e dei pastori,
– il riflesso del tuo sorriso negli stagni che attraversavo –
E qua e là dei canti modulati da lire,
Le uniche a celebrare la tua viva dolcezza.
Vedevo fanciulli, come me, mormorare
Parole d’amore alle tue statue, a cui rassomigli;
Offrendo lillà, profumi e latte.
E tutto ciò vagando, bello, fra i verzieri.
E il cielo infinito, quel cielo dei templi ellenici,
Che rende gli Dèi più belli e le preghiere più caste,
Stendeva sui tuoi proseliti un velo di luce,
Dove i cuori crepitavano come legna secca al fuoco.
Ma a sera, triste e dolce, tornai più fedele,
Meno gioioso e più calmo, ch’avevo dentro al cuore
Il fermento sconosciuto dei dolori divini
Con cui tu sai domare gli schiavi ribelli:
I campi lontani lasciavano svolazzi nell’oblio
Tra fuochi brillanti sulle alte montagne,
Un riposo virgiliano accarezzava i campi
E io mi sentivo puro, il male annientato.
I miti antichi in cui avevi creato il tuo Impero
Palpitavano nella mia carne con vaga sorpresa;
Avrei voluto morire di un bacio nel momento
Di quella sera mesta e dolce come l’inizio di un delirio!
Per ciò mi trovo qui, in lacrime ai tuoi piedi,
Ai tuoi piedi più setosi dell’ala di una colomba,
Per offrirti il mio cuore come una coppa cadente
Satolla dei frutti vermigli raccolti dal pastore.
E ti offro le mie grida, i miei sogni, la mia supplica,
Deboli lamenti d’amore in baci di sillabe,
Sogni infantili simili al cielo roseo
E la mia bocca umida per proferire questi inni!
*
Innocenza
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa,
I nostri cuori bambini han spiegato le ali,
Sogni confusi, ignari d’ogni nevrosi,
Li han fatti tremare come tortorelle;
Sugli occhi addormentati, sulle manine richiuse,
La lampada notturna ha posato il suo chiarore,
E sulle labbra inebriate da una preghiera pia,
I nostri piccoli cuori bambini sanno che Dio li chiama.
A momenti, come il suono di una viola lontana,
Che vibra sulla pace di candide visioni,
Un brivido, un sospiro infantile si diffonde
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa.
*
Schoolboy
Era un liceo vecchio e cupo,
Mi ricordo, e come mi ricordo…
Nei miei occhi calarono le ombre,
La prima volta che vi entrai,
Il direttore era austero e duro,
Mi pareva un Dio,
E quando dovetti dire addio,
Separandomi dalla mamma,
Il mio cuore bambino non osò
Gridare dolore né incertezza,
Proseguii da solo sul selciato,
Fra ricordi di antiche carezze.
Un ragazzino mi condusse in aula,
Tutti a fissare il novizio,
Credendolo un vitellino,
E da solo trovai un posto.
Aprii un libro a caso,
Sentendo ronzare nella testa,
I giorni andati, come tamburi,
Che mi cantavano il caro abbandono.
Rivedevo la casa serrata,
Il grande sole la riscaldava,
E il giardino tremante
Di uccelli, insetti e rose.
Allora, non appena una lacrima
Stillò lungo il viso,
Per evitare scherni
E risate sulla mia tristezza,
Cercai qualcosa da scrivere
Laggiù, alla mia cara mamma,
Da scrivere a singhiozzi,
Che mi annoio senza il suo sorriso!
*Le traduzioni delle poesie in calce sono di Pierluigi Piscopo. Per le citazioni
dalle opere restanti, si fa riferimento al romanzo di Roger Peyrefitte e ai
volumi su Jacques Fersen indicati in bibliografia.
Bibliografia consigliata:
J. Fersen, Amori et dolori sacrum, La Conchiglia, Capri 1990 (prefazione di
Roger Peyrefitte).
F. Esposito, I misteri di villa Lysis. Testamento e morte del barone Jacques
Fersen, La Conchiglia, Capri 1996.
R. Ciuni, I peccati di Capri, Longanesi, Milano 1998.
J. Fersen, E il fuoco si spense sul mare…, La Conchiglia, Capri 2005.
AA. VV., À la jeunesse d’amour. Villa Lysis a Capri: 1905-2005, La Conchiglia,
Capri 2005.
T.M. Pellicanò, Villa Lysis, Abrabooks, 2021.
C.M. d’Ambrosìa, Nino, il sole di Roma, la luna di Capri. Vita reale ed
immaginata di Nino Cesarini, La Conchiglia, Capri 2023.
*In copertina: Jacques d’Adelswärd-Fersen nel 1901
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[1] https://laconchigliacapri.it/prodotto/lesule-di-capri-2/
[2] https://caprinews.it/?p=22986
[3] Philip J., Pourriture, in «L’Aurore», 14 luglio 1904, p. 1.
[4]https://www.ladolfieditore.it/index.php/it/catalogo/agata/jacques-d-adelswaerd-fersen-la-cospirazione-delle-sirene.html
[5] https://www.pendragon.it/catalogo/narrativa-1/linferno/lord-lyllian-detail.html
[6] https://isoladicapriportal.com/norman-douglas-alla-scoperta-di-capri/
[7] https://isoladicapriportal.com/compton-mackenzie-luomo-che-amava-le-isole/
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