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“Immagino, dunque sono libero”. Lawrence Durrell o dell’ascetismo della mente
Lawrence Durrell porterà sempre con sé l’impronta luminosa di un’infanzia mitica, vissuta tra le valli immense ai piedi dell’Himalaya. Una nostalgia scitica – fatta di cieli purissimi, del lampo negli occhi di una tigre, del passo ieratico di uno yak – non lo abbandonò mai: forse il desiderio, mai appagato, di ritrovare altrove quella prima, segreta armonia.  La sua esistenza, come la sua scrittura, fu tutta votata al nomadismo: dall’India all’Inghilterra, dalla Grecia all’Africa, dal Sud America alla Francia. Poeta, romanziere, spirito inquieto e cosmopolita, amico fraterno di Henry Miller e di Giorgos Seferis, Durrell riposa oggi in un cimitero silenzioso della Provenza. Ma fu un luogo in particolare – oltre a Cipro, amata e dolorosa – a marchiare a fuoco la sua immaginazione: Alessandria d’Egitto. Da quella città molteplice, mitica e carnale, scaturì uno dei cicli romanzeschi più affascinanti del Novecento, il “Quartetto di Alessandria”, vertigine di tempo, memoria e desiderio. * Il libro si apre in un altro luogo del cuore di Lawrence Durrell: un’isola delle Cicladi, che in realtà è Cipro, dove il poeta acquistò una casa e visse per anni immerso nella vita della comunità locale, imparando anche la lingua greca. È tra l’ocra delle case e della sabbia egiziana e l’azzurro profondo del Mediterraneo che si dispiega lo sguardo interiore di Durrell. Nella solitudine assorta dell’isola greca, la memoria delle vicende vissute ad Alessandria poco più di un decennio prima riaffiora lenta, seguendo il ritmo delle onde che lambiscono il bianco calce dei porticcioli. A separarlo dalla città egiziana sono appena cento chilometri di mare – eppure l’anima si tende come un ponte invisibile tra i due mondi: un cortile greco ombreggiato da ulivi, il sorriso obliquo di una donna cipriota, un cielo che esplode d’azzurro di giorno e si vela, la notte, di una costellazione di stelle cerulee. * Il khamsin è un vento che nasce dalle profondità del Sahara. Soffia impetuoso lungo tutta la fascia orientale del Nordafrica, investendo anche Alessandria d’Egitto, che ne subisce la furia nei giorni sospesi della primavera. Irrompe come presagio nella terza parte di Justine, primo movimento del “Quartetto di Alessandria”. La città si ritrae sotto una coltre ocra di sabbia e silenzio. Le imposte si chiudono in fretta; dietro le feritoie, occhi in allerta scrutano la polvere che avanza. La luce si vela di bagliori apocalittici, il cielo si tinge di una minacciosa oscurità. Le feluche ondeggiano lente, consapevoli del pericolo imminente; a bordo, le ciurme si muovono come spettri d’acqua, presenze furtive tra le ombre del porto. Con la stessa violenza del khamsin, l’appello dei sensi e il desiderio di piacere si abbattono sugli abitanti della città, trafiggendoli come una scarica elettrica che li lascia storditi, spossati, annientati. I corpi, come le case, restano inermi sotto la furia degli elementi, tra le rovine visibili e invisibili che l’eros e il vento seminano nella polvere. * Alessandria, Alessandria! Quale altra città scegliere, che già non porti nel nome come il presagio di un destino? In quale altro luogo, sulla terra, la scomparsa delle meraviglie antiche diventa meravigliosa metafora del rovinoso incedere del tempo? È qui che palpita una splendida e drammatica galleria di personaggi – Justine, Nessim, Melissa, Darley – che attraversa tutto il libro e continuerà poi a illuminare, in un raffinatissimo gioco di specchi e punti di vista, le altre opere del Quartetto: Balthazar, Mountolive, Clea.  * Nessim, ricco possidente egiziano e marito di Justine, dissimula, dietro una cordiale esposizione pubblica, il disordinato viluppo dei suoi pensieri verso la moglie. Ne seguiamo la parabola interiore, che lo conduce dapprima a un’immaginazione venata di follia, dove i fantasmi della gelosia sfilano insieme all’ossessione del sospetto. Dopo la partenza di Justine, la sua presunta convalescenza non è che una maschera fragile: sotto di essa si spalanca un vuoto silenzioso, irreparabile. Melissa, la compagna del narratore, figlia dei bassifondi della città e ballerina di cabaret, non priva di una sua grazia che leviga gli angoli di un’aderenza tutta terrestre alla corporeità. Un candore di innocenza, unito alla frequentazione del vizio per pura necessità e non per inclinazione, la rendono quasi una martire. È forse l’unica figura del romanzo capace di com-passione, in grado di intuire il tumulto che si dispiega nel cuore di Nessim. Con la morte di Melissa – l’unica per cui l’amore non richiede gli eccessi dell’intelletto, ma solo la purezza della natura – si spegne anche la speranza di una compiuta dimensione sentimentale proiettata nel futuro. Justine, la donna che dà il titolo al romanzo, è ispirata a Eve, che Durrell conobbe proprio durante la sua parentesi in Egitto. Ebrea colta e aristocratica, Justine sembra uscire da un libro surrealista. Simile a Nadja nel suo inesausto peregrinare, con il suo enigmatico lampeggiamento interiore smentisce ogni principio di causalità. Convivono in lei la Musa e la santa, la martire e la cortigiana, l’amante e l’accanita fedifraga. Regna in Justine una fatale impossibilità alla fedeltà, come se concedersi ai suoi pretendenti fortificasse dentro di lei l’immagine del vero amato, rinchiuso come in una stiva sballottolata dalla tempesta a largo. Donna aracnide, tesse una tela dove a turno restano invischiati Arnauti – che su di lei scrive delle feroci memorie, Moeurs –, Nessim, Darley, ma anche Clea, misteriosa pittrice che vive in completa solitudine. Persone, storie, libri, lacrime e orgasmi conducono come un vortice rapinoso, un ago magnetico, verso la loro sorgente creatrice e disgregatrice. L’improvviso congedo di Justine sarà il nodo di scioglimento dei personaggi che le gravitano attorno, ma anche dalla Palestina, dove si è trasferita a vivere in un kibbutz, l’eco della sua memoria continua a risuonare in Egitto. Divinità ferina metà ellenistica e metà egizia, Justine assurge a simbolo di Alessandria. Infine c’è Darley, alter-ego di Durrell e narratore del romanzo. Anche lui cade vittima del fascino ipnotico di Justine e dell’atmosfera mollemente sensuale di Alessandria, dove le persone sembrano pedine su una scacchiera manovrata da una continua e sfrenata gratificazione della sensorialità. Svuotato da una ricerca tanto effimera quanto estenuante, Darley sembra orientarsi infine verso il tentativo di trovare un legame di sincera amicizia, capace di mettere in comunicazione il cuore autentico di due individui. Ma la sua fuga verso l’isola greca suona come una silenziosa resa: la conoscenza e lo schiudersi reciproco delle anime paiono destinati allo scacco. Forse, solo la bambina che Darley porta con sé accende un barlume di speranza: una promessa muta, rivolta a un futuro che, almeno in potenza, si riappacifica con la parte migliore dell’uomo. Dove si situano l’arte, la letteratura, all’interno di questa cornice? Può uno scrittore, che ha fibra di poeta, trovare una scia luminosa nel tumulto dei gesti e della memoria? Forse non si manca di molto il bersaglio affermando che il tema principale del libro sia la trasfigurazione della realtà attraverso il prisma dell’arte. Solamente sul piano della creazione letteraria, sembra dirci Durrell, i confini della vita e dell’arte si allargano smisuratamente: > “La ricompensa del lavoro che si compie con il cervello e con il cuore sta in > questo – che solo lì, nei silenzi del pittore o dello scrittore, la realtà può > ricevere un ordine nuovo, essere rielaborata e costretta a mostrare il suo > senso. Le nostre azioni quotidiane nella realtà sono semplicemente il > materiale grezzo che nasconde il filo aureo – il senso della composizione. Per > noi artisti è lì che il compromesso gioioso dell’arte con tutto quello che ci > ha ferito o sconfitto nel vivere quotidiano ci attende; in modo tale da non > eludere il destino, come vorrebbero le persone comuni, ma per compierlo nella > sua potenzialità reale – l’immaginario”. Ma anche il groviglio di vicende e sentimenti è destinato a disfarsi sotto l’opera sottile del tempo: i ricordi lentamente trascolorano, i volti si fanno evanescenti. Solo Alessandria rimane, e nella memoria si erge come il suo Faro perduto, sentinella immobile tra i flutti del mondo e quelli, più segreti, di Mnemosine. * Alessandria, oh Alessandria! Città del mito, della storia che si fa archetipo, patria del sogno e di un tempo disperso, quando i sensi guidavano cuore, mente e mani; un tempo ormai sfocato all’orizzonte della vita, che solo il fulgore dell’arte può riportare alla luce, in un lampo di miracolo. L’Alessandria del passato si confonde con quella del presente: città subliminale, frontiera dello spirito, atteggiamento unico e irripetibile nei confronti del vissuto. Ne è cantore meraviglioso e insuperabile Kavafis, che alla città egizia ha dedicato tanta parte della sua opera. Numerosi sono, nel romanzo, i rimandi – diretti e sotterranei – a Kavafis: poeta della nostra Itaca interiore, della promessa racchiusa nei porti fenici, di uno sguardo ionico innestato a una sensualità asiatica; padre di un linguaggio che, come miele colato da un vaso attico, scende nei cuori di chi ama la Poesia. Il libro di Durrell è anche un omaggio straordinario – forse tra i più vibranti mai tributati – al poeta greco: > “L’equilibrio squisito tra ironia e tenerezza l’avrebbe fatto includere tra i > santi, fosse stato religioso. Ma per volere divino era soltanto un poeta e > spesso infelice, anche se con lui avevi l’impressione di essere con qualcuno > capace di afferrare al volo ogni istante del tempo e di capovolgerlo per > mostrarne l’aspetto felice. Consumò veramente sé stesso, il suo io interiore, > vivendo. La maggior parte della gente si adagia e lascia che la vita giochi > con loro, fermi sotto la vita come sotto i tiepidi scrosci d’una doccia. Alla > proposizione cartesiana «Penso, dunque sono» contrapponeva la sua, che forse > doveva suonare pressappoco così: «Immagino, dunque ho radici e sono libero»”. Alessandria, presagio di un’epoca in cui estetica e creazione coincidevano; nostalgia di un’armonia esplosa poi in mille frammenti. Solo di questi frammenti, e di schegge di desiderio, possono accontentarsi i protagonisti di Justine. Darley, il narratore, è come Rembrandt: ritrattista letterario della carne e dei suoi fremiti. Città-labirinto nella quale si resta intrappolati, alla quale si offre la propria interiorità senza riceverne nulla in cambio, Alessandria è avvolta insieme dalla luce del meriggio e dall’ombra del crepuscolo. È possibile allora – parafrasando ancora Kavafis – andare per altre terre, per altri mari, verso una più città più bella anche dei sogni?  La risposta, indimenticabile e luminosa, arriva dalle ultime righe di Clea, il romanzo che chiude il Quartetto: > “Sì, un giorno mi sorpresi a scrivere con mano tremante le quattro parole > (quattro lettere! quattro volti!) sulle quali ogni narratore dall’inizio del > mondo ha puntato il suo debole diritto all’attenzione dei suoi simili. Parole > che presagiscono semplicemente la vecchia storia di un artista divenuto > maggiorenne. Scrissi: C’era una volta… > > E mi parve che l’universo intero m’avesse fatto un cenno d’intesa!” Lorenzo Giacinto *In copertina: Anouk Aimée è stata “Justine” nell’omonimo film di George Cukor del 1969, tratto dal romanzo di Lawrence Durrell L'articolo “Immagino, dunque sono libero”. Lawrence Durrell o dell’ascetismo della mente proviene da Pangea.
June 2, 2025 / Pangea