Un lento avvicinamento al cuore di Roma in una mattina di tarda primavera:
corona della solarità, vasti aneliti di azzurro e un sentore di gelsomino
nell’aria. Andiamo alla ricerca del Graal nascosto in fondo al silenzio dei
tempi, la rosa dei secoli sfracellati – la fuga a ritroso dalla storia al mito.
Ci avviciniamo dall’alto, disegnando dolci traiettorie. Avvistiamo i bastioni
del Vaticano, San Pietro. Ecco le maestose forme, corolle di bianco marmo, fregi
e lesene di ionica nostalgia – mettiamo a fuoco lo sguardo verso l’oro inseguito
da Giasone.
Eccesso di idealismo? Forse. Come a dire: da una sponda dell’Egeo alla costa
tirrenica, presidiamo l’arco interiore della distanza con la fedeltà senescente
di Argo, innalzando iliache fortezze d’amore e fari di luminosa verità.
Da due lustri ormai riecheggia la marea dell’Egeo, non lontano dalla città di
Smirne. Quella notte è ormai istoriata nelle pareti del sogno. Lo pensava Saffo,
lo ha scritto Elitis:
> “nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia.”
E la luna era un astro più vivido che mai, come gli occhi luminosi della
circassa descritta da Kavafis. Con solide reti da pesca andavamo a caccia di
coralli, tenendo chiusa in petto quella voce che si sarebbe riversata, calda e
dolce come mosto, in puri esametri greci.
La strada per Efeso si snodava attraverso dorati campi di ulivi. Un tempo – dove
ora il muschio ricopre gli angoli sbreccati dei capitelli – si respirava
salsedine. Ho sempre creduto che la felicità occupi, nello spettro cromatico
dell’anima, il posto dell’ocra e dell’azzurro, sigillati uno dentro l’altro come
verso la linea dell’orizzonte. È qui, mi dico, che il grande solitario lanciava
i suoi frammenti. Sì, scagliati come piccole meteore infuocate. Per questo,
leggendo Eraclito, si accendono ancora piccoli falò ai bordi delle pagine e
sotto l’epidermide.
Sul lungomare di Smirne, nel viavai dei traghetti e tra i richiami alla
preghiera, pensavo all’Asia Minore, ad Efeso e Antiochia – all’oro
dell’Ellenismo –: è da qui, e non dall’Acropoli di Atene, che nasce l’umanesimo
di Kavafis, come suggerisce Marguerite Yourcenar nella sua splendida
presentazione critica del poeta. In quel momento, come dalle vigne e dai
frutteti pieni di agrumi di Archiloco, ho cercato di spremere il succo di un
modo di esistere, di una postura che giustificasse le coordinate presenti e
quelle passate. Era a Odisseas Elitis che dovevo guardare:
> “Devi saper afferrare il mare dall’odore perché esso ti dia la nave e perché
> la nave ti dia la Gorgona e la Gorgona ti dia Alessandro Magno e tutte le pene
> della grecità.”
Voglio dire: deve pur esserci un filo, un’immagine, una catena che tenga uniti
la pietra, i graffiti nelle caverne, la gola, il mattone e la pergamena:
qualcosa che rifluisce nel tempo, nonostante il tempo, dentro il tempo,
attraverso e al di fuori del tempo.
> “Dorme più profondamente chi è intriso di Storia
> Avanti accendila con un fiammifero come fosse alcol.
> Solo Poesia è
> Quello che rimane. Poesia. Giusta essenziale e retta
> Come forse l’hanno immaginata le prime due creature
> Giusta nell’asprezza del giardino e infallibile nel tempo.”
>
> (Odisseas Elitis, Come Endimione)
Nelle linee esatte dei palazzi del centro, nelle fughe dei cornicioni –
fosforescenza del passato – ripenso a Kavafis e a Elitis: poeti della luce. Sì,
anche Kavafis, considerato il poeta della penombra e delle stanze oscurate dalle
finestre chiuse. Per me, la poesia di K. inonda di luce. Come l’innamorata
ateniese ascolta le parole dello straniero Orazio e vi scopre immagini di
fulgida bellezza, così i versi del poeta greco rivelano squarci di mondo, aprono
nuove rotte da percorrere con fremito di piacere.
> “Il giovane professa il proprio amore
> E l’ateniese ascolta silenziosa
> Il suo eloquente innamorato Orazio;
> e del grande italiano la passione
> con mondi nuovi di Beltà l’abbaglia.”
>
> (Kavafis, Orazio ad Atene)
Anche io, mi dico con ingenuo spirito d’immedesimazione, sono un “Greco con
emozioni d’Asia”. Ecco, la vedo quella geometria invisibile che mi diverto a
incrinare con il richiamo di steppe, deserti e passi himalayani…
Ho scritto: “una fuga a ritroso dalla storia al mito” – un’anfora greca, un
ciottolo levigato, lo zampillio dell’acqua e lo sguardo di una ragazza. Dai
colli della periferia romana siamo arrivati a uno splendido borgo sul mare. La
natura non ha bisogno di camuffamenti e maschere. Dove fallisce la storia,
arriva la poesia. Il grano ci insegna ad esercitare la sua solare e libera
disciplina. I colori: buganvillea viola, lo smeraldo del mare, la ginestra, un
ciuffo di papavero. Tra gli arbusti e i rovi roventi per il mezzogiorno
sgusciano piccole vipere – anfibio attaccamento al cuore pulsante della terra.
Basilico, gelsomino e tiglio; sciame di vespe: il ronzio dei millenni.
La prima voce lirica nella poesia, l’obbedienza del marmo alla carezza umana, il
triangolo delle montagne introdotto nell’architettura, il richiamo dell’acqua,
l’attesa minoica del tuffo, l’etrusco sorriso: c’è qualcosa che incede lungo i
colli della storia, più persuasivo della tettonica delle placche. Mi viene in
mente ancora una volta Kavafis:
> “Oh, terra d’Ionia, te amano ancora,
> le loro anime te ricordano ancora.
> Quando l’alba d’agosto splende su di te
> Un rigoglio della loro vita percorre l’aria;
> e un’eterea forma di adolescente, a volte;
> indistinta, con passo celere,
> incede sopra le tue alture.”
>
> (Kavafis, Ionico)
A un’ansa del sentiero si trova una piccola edicola votiva dedicata alla
Madonna. La ospita una nicchia scavata nella pietra. Credo sia in quella
posizione da secoli. Da lì, ha vegliato sui pescatori, sui viandanti e ora
continua a vigilare sulle fiumane di sciatti turisti domenicali. In un lampo di
associazione, penso alle divinità dei crocevia: in Giappone, a ogni svolta,
trovi piccole statue di Jizō, bodhisattva protettore dei viaggiatori. Questa
Madonna mi ricorda le cappelle votive in Grecia: una in particolare, con annessa
chiesetta in miniatura, sul colle di una collina ateniese che vede il Partenone.
Su tutto, il bianco e l’azzurro.
Tra le pagine della mia antologia di Elitis ho ritrovato una piccola icona
greca: raffigura un San Giorgio fiammante nell’atto di uccidere il drago. Ho
smesso da tempo di credere alle coincidenze. E infatti, lo sguardo individua
subito delle frasi sottolineate con un lieve tratto di lapis:
> “Tendo con tutto me stesso verso un – come dire? – avvolgente, abbagliante
> bene. Da come mordo un frutto a come guardo dalla finestra, sento formarsi un
> intero alfabeto che mi sforzo di mettere in atto con l’intenzione di comporre
> parole e frasi e, massima ambizione, giambi e tetrametri. Il che vuol dire:
> concepire e parlare di un altro secondo mondo che dentro di me arriva sempre
> primo.”
Quando rileggo e rimedito tutto questo, nell’immaginazione e poi nel meriggio
spalancato della cassa toracica, allora, per dirlo con Elitis,
> “è come se sorgesse un secondo giorno dentro al primo”.
Lorenzo Giacinto
*La traduzione di Kavafis è di Nicola Crocetti; la traduzione di Elitis è di
Paola Maria Minucci
L'articolo “Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis,
i poeti della luce proviene da Pangea.