Tag - Kavafis

“Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis, i poeti della luce
Un lento avvicinamento al cuore di Roma in una mattina di tarda primavera: corona della solarità, vasti aneliti di azzurro e un sentore di gelsomino nell’aria. Andiamo alla ricerca del Graal nascosto in fondo al silenzio dei tempi, la rosa dei secoli sfracellati – la fuga a ritroso dalla storia al mito. Ci avviciniamo dall’alto, disegnando dolci traiettorie. Avvistiamo i bastioni del Vaticano, San Pietro. Ecco le maestose forme, corolle di bianco marmo, fregi e lesene di ionica nostalgia – mettiamo a fuoco lo sguardo verso l’oro inseguito da Giasone. Eccesso di idealismo? Forse. Come a dire: da una sponda dell’Egeo alla costa tirrenica, presidiamo l’arco interiore della distanza con la fedeltà senescente di Argo, innalzando iliache fortezze d’amore e fari di luminosa verità. Da due lustri ormai riecheggia la marea dell’Egeo, non lontano dalla città di Smirne. Quella notte è ormai istoriata nelle pareti del sogno. Lo pensava Saffo, lo ha scritto Elitis:  > “nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia.” E la luna era un astro più vivido che mai, come gli occhi luminosi della circassa descritta da Kavafis. Con solide reti da pesca andavamo a caccia di coralli, tenendo chiusa in petto quella voce che si sarebbe riversata, calda e dolce come mosto, in puri esametri greci.  La strada per Efeso si snodava attraverso dorati campi di ulivi. Un tempo – dove ora il muschio ricopre gli angoli sbreccati dei capitelli – si respirava salsedine. Ho sempre creduto che la felicità occupi, nello spettro cromatico dell’anima, il posto dell’ocra e dell’azzurro, sigillati uno dentro l’altro come verso la linea dell’orizzonte. È qui, mi dico, che il grande solitario lanciava i suoi frammenti. Sì, scagliati come piccole meteore infuocate. Per questo, leggendo Eraclito, si accendono ancora piccoli falò ai bordi delle pagine e sotto l’epidermide.  Sul lungomare di Smirne, nel viavai dei traghetti e tra i richiami alla preghiera, pensavo all’Asia Minore, ad Efeso e Antiochia – all’oro dell’Ellenismo –: è da qui, e non dall’Acropoli di Atene, che nasce l’umanesimo di Kavafis, come suggerisce Marguerite Yourcenar nella sua splendida presentazione critica del poeta. In quel momento, come dalle vigne e dai frutteti pieni di agrumi di Archiloco, ho cercato di spremere il succo di un modo di esistere, di una postura che giustificasse le coordinate presenti e quelle passate. Era a Odisseas Elitis che dovevo guardare: > “Devi saper afferrare il mare dall’odore perché esso ti dia la nave e perché > la nave ti dia la Gorgona e la Gorgona ti dia Alessandro Magno e tutte le pene > della grecità.” Voglio dire: deve pur esserci un filo, un’immagine, una catena che tenga uniti la pietra, i graffiti nelle caverne, la gola, il mattone e la pergamena: qualcosa che rifluisce nel tempo, nonostante il tempo, dentro il tempo, attraverso e al di fuori del tempo. > “Dorme più profondamente chi è intriso di Storia > Avanti accendila con un fiammifero come fosse alcol.  > Solo Poesia è > Quello che rimane. Poesia. Giusta essenziale e retta > Come forse l’hanno immaginata le prime due creature > Giusta nell’asprezza del giardino e infallibile nel tempo.”    > > (Odisseas Elitis, Come Endimione) Nelle linee esatte dei palazzi del centro, nelle fughe dei cornicioni – fosforescenza del passato – ripenso a Kavafis e a Elitis: poeti della luce. Sì, anche Kavafis, considerato il poeta della penombra e delle stanze oscurate dalle finestre chiuse. Per me, la poesia di K. inonda di luce. Come l’innamorata ateniese ascolta le parole dello straniero Orazio e vi scopre immagini di fulgida bellezza, così i versi del poeta greco rivelano squarci di mondo, aprono nuove rotte da percorrere con fremito di piacere. > “Il giovane professa il proprio amore > E l’ateniese ascolta silenziosa > Il suo eloquente innamorato Orazio; > e del grande italiano la passione > con mondi nuovi di Beltà l’abbaglia.”                   > > (Kavafis, Orazio ad Atene) Anche io, mi dico con ingenuo spirito d’immedesimazione, sono un “Greco con emozioni d’Asia”. Ecco, la vedo quella geometria invisibile che mi diverto a incrinare con il richiamo di steppe, deserti e passi himalayani… Ho scritto: “una fuga a ritroso dalla storia al mito” – un’anfora greca, un ciottolo levigato, lo zampillio dell’acqua e lo sguardo di una ragazza. Dai colli della periferia romana siamo arrivati a uno splendido borgo sul mare. La natura non ha bisogno di camuffamenti e maschere. Dove fallisce la storia, arriva la poesia. Il grano ci insegna ad esercitare la sua solare e libera disciplina. I colori: buganvillea viola, lo smeraldo del mare, la ginestra, un ciuffo di papavero. Tra gli arbusti e i rovi roventi per il mezzogiorno sgusciano piccole vipere – anfibio attaccamento al cuore pulsante della terra. Basilico, gelsomino e tiglio; sciame di vespe: il ronzio dei millenni.  La prima voce lirica nella poesia, l’obbedienza del marmo alla carezza umana, il triangolo delle montagne introdotto nell’architettura, il richiamo dell’acqua, l’attesa minoica del tuffo, l’etrusco sorriso: c’è qualcosa che incede lungo i colli della storia, più persuasivo della tettonica delle placche. Mi viene in mente ancora una volta Kavafis:  > “Oh, terra d’Ionia, te amano ancora, > le loro anime te ricordano ancora. > Quando l’alba d’agosto splende su di te > Un rigoglio della loro vita percorre l’aria; > e un’eterea forma di adolescente, a volte; > indistinta, con passo celere, > incede sopra le tue alture.” > > (Kavafis, Ionico)  A un’ansa del sentiero si trova una piccola edicola votiva dedicata alla Madonna. La ospita una nicchia scavata nella pietra. Credo sia in quella posizione da secoli. Da lì, ha vegliato sui pescatori, sui viandanti e ora continua a vigilare sulle fiumane di sciatti turisti domenicali. In un lampo di associazione, penso alle divinità dei crocevia: in Giappone, a ogni svolta, trovi piccole statue di Jizō, bodhisattva protettore dei viaggiatori. Questa Madonna mi ricorda le cappelle votive in Grecia: una in particolare, con annessa chiesetta in miniatura, sul colle di una collina ateniese che vede il Partenone. Su tutto, il bianco e l’azzurro. Tra le pagine della mia antologia di Elitis ho ritrovato una piccola icona greca: raffigura un San Giorgio fiammante nell’atto di uccidere il drago. Ho smesso da tempo di credere alle coincidenze. E infatti, lo sguardo individua subito delle frasi sottolineate con un lieve tratto di lapis: > “Tendo con tutto me stesso verso un – come dire? – avvolgente, abbagliante > bene. Da come mordo un frutto a come guardo dalla finestra, sento formarsi un > intero alfabeto che mi sforzo di mettere in atto con l’intenzione di comporre > parole e frasi e, massima ambizione, giambi e tetrametri. Il che vuol dire: > concepire e parlare di un altro secondo mondo che dentro di me arriva sempre > primo.” Quando rileggo e rimedito tutto questo, nell’immaginazione e poi nel meriggio spalancato della cassa toracica, allora, per dirlo con Elitis,  > “è come se sorgesse un secondo giorno dentro al primo”. Lorenzo Giacinto *La traduzione di Kavafis è di Nicola Crocetti; la traduzione di Elitis è di Paola Maria Minucci L'articolo “Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis, i poeti della luce proviene da Pangea.
June 6, 2025 / Pangea
“Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un crimine linguistico
Per spiegare se un testo sia traducibile sono stati scritti centinaia di libri e di saggi di traduttologia, sono state spese milioni parole in decine di lingue, tradotte a loro volta in altre decine di lingue. Quello che resta, di questo profluvio verbale, di questo scialo teoretico, sono alcune affermazioni apodittiche e contraddittorie, che spesso sconfinano nel paradosso o nella boutade, e che fanno il giro del mondo nei convegni sulla traduzione. Il repertorio è infinito: dal precetto di Cicerone di non tradurre verbum pro verbo alle polemiche di San Gerolamo, dalle considerazioni di Lutero alle argomentazioni di Du Bellay, Montaigne e Chapman, a quelle di Ben Jonson sull’imitazione, fino alle considerazioni filosofiche di Von Humboldt e ai resoconti di Goethe, Schopenhauer, Arnold, Valéry, alle teorizzazioni di Pound, Benjamin e Ortega y Gasset. In Italia domina la battuta, citatissima e un po’ misogina – attribuita a Croce ma in realtà di Carl Bertrand, il traduttore tedesco di Dante, che riprese una definizione di Gilles Ménage –, secondo cui le traduzioni sarebbero come le donne, “brutte e fedeli o belle e infedeli”. Come anche quella, attribuita a Robert Frost, secondo cui “poesia è ciò che si perde nella traduzione”. Per Ortega y Gasset, la traduzione, semplicemente, “non è possibile”; per Jakobson “la poesia è intraducibile per definizione”. Walter Benjamin, pur nel suo pessimismo, sostiene che “la traduzione è necessaria”. Secondo Novalis e Humboldt, tutta la comunicazione è traduzione. C’è poi la celebre quartina di Nabokov:  > “Cos’è la traduzione? Su un vassoio  > La testa pallida e fiammante di un poeta,  > Uno stridìo di pappagallo, una ciancia di scimmia,  > E una profanazione dei morti”. Come afferma George Steiner in Dopo Babele, “per circa duemila anni di discussioni e di precetti, le convinzioni e i contrasti manifestati sulla natura della traduzione sono stati quasi gli stessi. Tesi identiche, mosse e confutazioni familiari ricorrono nelle dispute, quasi senza eccezioni, da Cicerone e Quintiliano ai giorni nostri”. Il postulato dell’intraducibilità “poggia sulla convinzione, formale e pragmatica, che non vi possa essere autentica simmetria, rispecchiamento adeguato, tra due sistemi semantici differenti”. Il punto, conclude ancora Steiner, è sempre il medesimo: la cenere non è la traduzione del fuoco. Scuola spagnola, Testa di Giovanni il Battista, XVII secolo Se, come sostiene Croce, “l’intraducibilità è la vita della parola”, resta nondimeno il dato incontrovertibile che centinaia di migliaia di biblioteche straripano di libri tradotti. E restano i milioni di libri tradotti da un’infinità di lingue: molti egregiamente, altri mediocremente, altri ancora pessimamente. Perché è vero che in nome della traduzione – della sua necessità, e del suo culto – sono stati commessi i delitti più infami e i più gloriosi atti di eroismo. Sepolti negli scaffali delle biblioteche, esposti sui banconi dei librai di tutto il mondo, giacciono crimini linguistici efferati, compiuti spesso da persone, come si dice, al di sopra di ogni sospetto, che le logiche editoriali impongono, o tollerano o incoraggiano, che spesso i lettori subiscono impotenti, e che nessuno punisce mai. In questa necessaria, indispensabile quanto spesso inutile attività dell’ingegno umano, si sono esercitate schiere di inetti, ignari spesso della lingua di partenza come di quella d’arrivo, consegnando agli editori o alle stampe aborti mostruosi; e imperano legioni di scrittori mancati e di scribacchini frustrati che cercano, come uccelli usurpatori, confortevole riparo in nidi altrui. Ma a tale attività offrono il loro contributo anche legioni di onesti mestieranti, che pur dietro compensi offensivi nobilitano la professione; per non dire dei non pochi geni che la elevano da attività funambolica a sublime forma d’arte. Con ciò non si vuole infierire sulle traduzioni letterarie malfatte, ma semplicemente porre l’accento su quanto sia arduo riuscire a fare una buona traduzione. Com’è noto, una delle attività preferite di moltissimi critici e traduttori è la caccia all’errore nelle traduzioni altrui: sport che ha prodotto qualche libro divertente e molte gogne umilianti, come l’americano Glorious Mistakes. Il che equivale, comunque, a sparare ai passeri. I francesi hanno un’espressione deliziosa per definire questi perditempo frustrati che cercano un po’ di gloria dando la caccia all’errore in traduzioni di onesti professionisti che per pochi soldi si sono consumati gli occhi su testi a volte difficilissimi al limite dell’intraducibilità: li chiamano (excuse my French) le enculeurs des mouches, i sodomizzatori delle mosche. Giovanni Bellini, Testa di Giovanni il Battista, 1470 ca. Come diceva Pound, i critici dovrebbero ricordarsi che scopo della traduzione poetica è appunto la “poesia”, non le definizioni verbali dei dizionari; e che a volte una traduzione è brutta proprio perché non sbaglia mai. Il fondamento della traduzione poetica, infatti, è la trasposizione, non il rispecchiamento, vale a dire la restituzione fedele del senso poetico, e la necessità di compiere, nella lingua d’arrivo, lo stesso percorso creativo che ha condotto l’autore originale a dare al suo testo, tra tutte le forme possibili, quella storicamente proposta e non altre. In questo senso, allora, ogni testo diventa traducibile, con buona pace di Croce (che del resto non era poeta) e di tutti i pudichi glottologi che con reverenza quasi superstiziosa ritengono sacro e inviolabile il testo originale. Prendiamo il caso del greco-alessandrino Costantino Kavafis, che mentre in Grecia (dove lui non è mai vissuto) infuriava asperrima la questione della lingua, se cioè si dovesse usare la lingua popolare (dimotikì) o quella riformata (l’aulica katharèvusa), lui, “alla periferia dell’impero”, ad Alessandria d’Egitto, usava nella sua poesia un amalgama delle due lingue, creando uno stile personalissimo, unico e inimitabile. Se il neogreco è dunque l’unico caso di diglossia praticata in un Paese moderno, com’è possibile tradurre un poeta, che tra l’altro occasionalmente usa metrica e rima, e una lingua “schizofrenica”, in qualsiasi altra lingua a cui sia estraneo il fenomeno della diglossia? Eppure lo hanno fatto in moltissimi. Secondo una recente ricerca dell’Università di Salonicco, Kavafis è in assoluto il poeta moderno più tradotto e imitato al mondo (seguito a diverse lunghezze da Pessoa). Che cosa sarà mai rimasto della “intraducibile” poesia di Kavafis nelle innumerevoli versioni fatte nelle lingue più ignote, compresa la lingua dei maori? Di certo, come nel caso di molti altri poeti, qualche inevitabile scempio metafrastico. Ma forse non solo. Io credo che resti dell’altro, che se si perde molta “filologia” rimanga però anche un po’ di buona “poesia”. Diversamente non si spiegherebbe il paradosso che uno dei poeti moderni “più intraducibili” come Kavafis abbia influenzato forse più di chiunque altro buona parte della poesia contemporanea moderna. Personalmente credo che la traduzione vada intesa secondo il principio dell’equivalenza, e che il traduttore dovrebbe sforzarsi di pensare a come sarebbe l’opera originale se fosse stata scritta nella propria lingua. E mi torna alla mente Novalis, secondo cui la traduzione è “poesia della poesia”, giacché il traduttore, nel suo sforzo di dare una nuova veste linguistica all’originale, deve prima enuclearne la “poeticità”. Questo è il principio di equivalenza su cui dovrebbe fondarsi l’atto del tradurre. Atto che è garantito solo se il traduttore è un poeta o ha alle spalle una solida cultura poetica. Se poi il traduttore-poeta condivide con l’autore che traduce principî estetici e artistici comuni, e ha con quest’ultimo affinità ideali, allora il testo tradotto riuscirà davvero a costituirsi come un’opera nuova e originale. Credo che l’obiettivo finale di ogni traduzione, infatti, sia quello di trascendere l’originale, in un certo senso ucciderlo per trasformarlo in un nuovo originale. Giovan Francesco Maineri, Testa di Giovanni il Battista, 1502 Ma questa è una situazione ideale, quasi sempre difficile da verificarsi. Le necessità dell’editoria moderna sembrano far prevalere le esigenze delle traduzioni di servizio su quelle artistiche, e d’altro canto non sempre i buoni traduttori sono anche poeti, e viceversa. Ma anche quando una stessa persona riesca a coniugare in sé le qualità del poeta e del traduttore, i pericoli non mancano. Il testo originale rischia di essere dimenticato e sostituito completamente da un altro testo (a volte persino migliore, come per esempio è capitato al Cinque maggio di Alessandro Manzoni tradotto da Goethe), che reca in sé le tracce dell’ideologia e delle esperienze di colui che pertanto dovrà considerarsi il nuovo autore, e le specificità proprie dell’ambito linguistico e culturale d’arrivo. Tradurre, dunque, non è né possibile né impossibile: è semplicemente necessario. Per dirla con Benjamin, la traduzione è un luogo d’incontro tra lingue e culture diverse, un luogo utopico di raccordo tra le divergenze. È un mezzo di circolazione, di crescita e di arricchimento culturale prezioso e indispensabile.  Forse la miglior traduzione letteraria possibile è quella della poesia tradotta dai poeti, cioè la poesia tradotta in “poesia”. Nicola Crocetti *Questo testo è stato scritto per una conferenza sulla traduzione tenutasi a Parigi nel 2000. Fortunosamente ritrovato dall’autore, ci è parso bello pubblicarlo, non come l’ennesimo documento su un tema per sua natura infinito – come lo è il linguaggio, come lo è il suo umile tedoforo: l’uomo – ma per la sua smaliziata ‘luccicanza’, per la sua inesausta fede nel ‘fatto’ poetico. Al poeta, in effetti, non interessano gli applausi del pubblico pagante (o fraudolento), ma che la sua poesia ‘agisca’ davvero: che faccia piovere sul deserto, che faccia muovere le montagne, che muova a compassione gli induriti cuori.  In copertina: Albrecht Bouts, Testa di Giovanni il Battista, XV secolo L'articolo “Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un crimine linguistico proviene da Pangea.
May 27, 2025 / Pangea
“In un angolo sghembo del mondo”. Kavafis, il gigante solitario
Costantino Kavafis è il poeta di paradossi. Il primo e principale è che un giovane privo di formazione scolastica grecofona e mai vissuto in Grecia, sia diventato uno dei maggiori poeti greci del Novecento. Il suo greco era quello di un autodidatta, che non di rado faceva errori di ortografia sconcertanti. Il secondo paradosso è che Kavafis non ha mai pubblicato una raccolta di versi in vita. La prima è uscita postuma, nel 1935, due anni dopo la sua morte. Le sporadiche pubblicazioni su riviste provinciali e di scarsa circolazione gli erano valse in Grecia lazzi e derisioni a causa della sua omosessualità. Kavafis nasce ad Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863, ultimo di nove figli di Petros e Charìklia Fotiadi, esponenti di importanti famiglie aristocratiche (Fanarioti) di Costantinopoli, ricchi titolari di un’azienda di import-export con succursali in Inghilterra. Due anni dopo la morte di Petros, nell’agosto 1870, Charìklia e i figli si trasferiscono a Liverpool e a Londra. Nel 1876 l’impresa di famiglia fallisce; l’anno seguente, via Parigi e Marsiglia, i Kavafis tornano ad Alessandria, dove Costantino si iscrive al liceo commerciale. Nel 1882, in seguito a gravi scontri tra il partito nazionalista e gli occupanti britannici (l’Egitto è un loro protettorato), in cui rimane distrutta la casa di famiglia, Charìklia e i figli più giovani riparano a Costantinopoli – all’epoca capitale dell’impero ottomano –, dove rimangono fino al 1885. È in questo periodo che Costantino comincia a scrivere versi e ad avere le prime esperienze omosessuali. Sempre nel 1885, a 22 anni, ritorna ad Alessandria, dove risiederà fino alla morte, avvenuta il 29 aprile 1933, giorno del suo settantesimo compleanno.  Si dedica allo studio e al lavoro, collabora con diversi giornali, frequenta la Borsa come agente di cambio (occupazione che mantiene fino al 1902) e approfondisce la conoscenza della letteratura greca e bizantina, nonché di quella francese e inglese. Nel 1892 viene assunto come impiegato part time nell’Ufficio irrigazioni del ministero dei Lavori pubblici di Alessandria, dove si fa apprezzare per le sue conoscenze linguistiche (parla inglese, greco, francese, arabo e un po’ d’italiano, oltre alle lingue classiche). Manterrà l’impiego fino alla pensione, nel 1922, anno della catastrofe greca in Asia Minore. Una delle definizioni più pertinenti della poesia di Kavafis è forse quella del suo traduttore francese, il poeta Dominique Grandmont. Poiché la verità non è mai quella che ci narrano i vincitori, occorre interessarsi ai personaggi ignorati dalla Storia, a piccoli commercianti, nobili dissoluti o assassinati, generali traditi o dignitari esiliati; occorre prendere in esame non la cultura “emblematica”, ma gli eventi occulti, determinanti e per questo cancellati. È quello che Kavafis fa – dice Grandmont –, donandoci “una specie di Iliade dei dimenticati”. Un’operazione analoga a quella di Plutarco, la cui erudizione Kavafis ammirava, e le cui opere erano probabilmente i suoi livres de chevet, tali e tanti sono nei suoi testi i riferimenti allo storico greco (vi sono testimonianze di come il poeta amasse citarlo a memoria in pubblico, non senza civetteria). Se nelle sue Vite Plutarco indaga la Storia di Roma e della Grecia attraverso l’ethos dei personaggi, Kavafis, nelle sue poesie ‘storiche’ e ‘filosofiche’ mette in risalto gli aspetti meno noti della personalità dei suoi protagonisti. I suoi sono sì gli eroi della Storia maiuscola, come gli Spartani di Leonida alle Termopili, a cui il poeta dedica una delle sue poesie più belle e commosse, ma soprattutto le umili comparse di una storia minuscola e dimenticata. Sono sovrani macedoni, seleucidi, egiziani, tiranni greco-siriani e imperatori bizantini dai nomi pomposi – l’Evergete, il Benefattore (trasformato dal popolo in Kakergete, il Malfattore), il Poliorcete, l’Assediatore di città, il Nicatore, il Vittorioso –, o nomi beffardi, come il Misopogon (l’Odiatore della barba). Principi destinati spesso a essere uccisi dal nemico, com’è naturale, ma anche a cadere vittime di cospirazioni ordite da amici, fratelli, mogli infedeli. Sovrani tronfi e vanesii, messi alla berlina dal popolo con nomi dissacranti e ironici – Schiavo, Naso aquilino, Làtiro (Cece), Fiscone (Panzone) –, che il poeta definisce, tout court, “pagliacci”. Perché Kavafis ha un suo personale alto senso della giustizia storica: demitizza i potenti svelandone le false glorie e le miserie, raccontandone le sconfitte e la decadenza; riabilita personaggi a suo parere ingiustamente diffamati; in altre parole, punta a ristabilire una sua verità. E soprattutto, al pari di Plutarco, è impegnato a ricuperare e a far rivivere la grandezza della Grecia e della sua lingua. Una lingua già parlata all’età del bronzo e che, come è stato detto, “ha insegnato ai popoli la dolcezza e l’umanità”. LE POESIE. TESTO GRECO A FRONTE Basta, tutto ciò, a spiegare il successo straordinario, senza uguali nella poesia del Novecento, di questo poeta vissuto ai margini di tutto – dell’impero geografico e delle lettere, della vita sociale e professionale, dell’editoria e della critica –, di quest’uomo colto e raffinato, greco alessandrino di nascita, di lingua e di sentimento, costretto a guadagnarsi il pane come travet anglofono nell’Ufficio irrigazioni del ministero dei Lavori pubblici nell’Egitto protettorato britannico? Certamente al suo successo universale hanno concorso altri fattori, primo fra tutti la relativamente facile traducibilità della sua poesia nelle altre lingue. Perché se è vero che nella traduzione va persa una delle caratteristiche principali della poesia di Kavafis, cioè lo smalto del suo impareggiabile greco – un amalgama di lingua colta e popolare, che conferisce al suo lessico la levigatezza e le screziature del marmo –, molto altro si conserva, soprattutto l’afflato morale, il sarcasmo e l’ironia con cui sono ritratti eventi e personaggi di un mondo remoto e sconosciuto: quello dell’ecumene ellenistica, della Siria, della Seleucìa, di Cirene, di Tiana, dei Tolomei d’Egitto, di Bisanzio. Nell’opera di Kavafis sono stati contati i nomi di 251 personaggi, 130 dei quali storici, 64 mitologici e 57 di fantasia. Mondi lontani mille o duemila anni da noi e per lo più estranei a gran parte delle culture e dei Paesi odierni, ma che il poeta utilizza spesso come metafore della contemporaneità. Un altro elemento dell’importanza di Kavafis è la straordinaria attualità della sua poesia: che, pur essendo quella di un autore del passato, si può leggere come un’opera dei nostri tempi. Anche spogliata, nelle traduzioni, dello splendido orpello (l’aurea pellis) della sua lingua, questa poesia parla ai suoi posteri, ai nostri contemporanei, e quasi certamente parlerà alle generazioni future, con una forza e un’incisività non intaccate dal tempo. Come d’altronde egli era ben cosciente quando diceva di sé, con la sua amabile ironia: “Kavafis è un poeta del futuro’. Kavafis suddivideva le sue poesie in tre categorie: “filosofiche”, “storiche” ed “erotiche”, o sensuali. Una ripartizione che secondo alcuni critici non ha senso, vuoi perché non pochi testi sono riconducibili all’una o all’altra categoria, vuoi perché, come ha fatto notare il suo traduttore americano Daniel Mendelsohn, il poeta deve essere apprezzato in una prospettiva unica: quella che gli consentiva di guardare alla storia con l’occhio di un amante e al desiderio con l’occhio di uno storico. Del resto lo stesso Kavafis ha affermato che “molti poeti sono soltanto poeti, mentre io sono un poeta storico”. L’Alessandrino aborre gli abbandoni e gli sdilinquimenti lirici. Scandaglia con severità l’animo umano ma ha pietà delle sue debolezze. Esalta il primato dell’Arte e della Poesia. Rimarca con orgoglio la bellezza e l’unicità dell’inestimabile patrimonio della cultura e della lingua greca ricevuto in eredità, e che egli ha contribuito ad arricchire forgiando a suo uso e consumo un idioma nuovo, che rende unica, riconoscibile e inimitabile la sua voce. Kavafis riserva il suo sarcasmo ai fanatici e ai puritani, lui che ha come unica religione la tolleranza. Infine, rivendica la legittimità del sentimento e della passione in ogni sua forma, anche in quelle “che la morale corrente condanna”. E sulla sua opera intera appone il sigillo dell’ironia. Domina, nell’opera di Kavafis, il tema del tempo che tutto altera; la presenza del passato nel nostro presente, la realtà inestricabile dall’immaginazione. E ci sono, imprinting inconfondibili, l’eros e la memoria, soprattutto nelle poesie “erotiche” o sensuali. Sono i testi originati dagli incontri casuali sulle scale di casa (al pianterreno dello stabile in cui abitava, al numero 10 della rue Lepsius – oggi museo – c’era un bordello), a teatro o nei luoghi di piacere che frequentava. Sono i versi sull’esaltazione della bellezza fisica (labbra rosse, capelli neri profumati, pelle di gelsomino, occhi di zaffiro, corpi modellati da Amore), sul desiderio erotico inappagato, sugli amori e i luoghi della giovinezza rievocati con rimpianto a distanza di anni. In questi testi, un terzo circa delle 154 poesie del “canone”, la sua omosessualità compare inizialmente per accenni timidi e velati (si considerino i tempi e l’ambiente in cui visse e scrisse), per farsi nel tempo più ardita e quasi sfrontata. E anche per alcuni di questi testi non di rado chiama ‘in soccorso’ personaggi e autori della Grecia antica, quasi a voler dare maggior vigore al diritto della sua diversità, a rivendicare con orgoglio una delle fonti principali della sua ispirazione. Nelle poesie in cui parla apertamente di amore omoerotico, Kavafis ricorre al vocabolario usato nella società in cui vive, definendolo “illecito”, “morboso”, “anomalo”. In altre parole, un tipo di piacere (nella mia traduzione delle sue poesie questa parola compare 40 volte) considerato perversione. E tuttavia, in una nota privata del 1902, il poeta afferma che per lui “la perversione” è “fonte di grandezza”. Non è mancato, in Grecia e altrove, chi ha attribuito all’omosessualità di Kavafis una parte importante del suo successo. Secondo costoro, sarebbero stati i suoi paladini omofilòfili a diffonderne l’opera e a incoraggiarne le traduzioni. È indubbio che amici e ammiratori come E. M. Forster, Maurice Bowra, Wystan H. Auden hanno concorso a far conoscere Kavafis nel mondo anglosassone, l’unico che allora contasse veramente ai fini della diffusione planetaria di un nome, di una figura, di un’opera. Forster, che conobbe Kavafis ad Alessandria durante la Prima guerra mondiale, nel 1919 pubblicò un articolo in cui descriveva il valore del suo lavoro, l’uso inimitabile della lingua e la sua “inconsueta filosofia”. L’immaginazione del pubblico fu colpita in particolare dalla descrizione del “gentiluomo greco in paglietta, ritto in piedi, assolutamente immobile, in un angolo sghembo del mondo”. Di Auden è rimasta famosa la definizione del suo “inconfondibile tone of voice”, che sopravvive alla traduzione. Bowra ne elogiò la lingua magistrale, che mescola il greco erudito e i testi antichi con lo slang della moderna Alessandria. Numerosi sono stati, fin da subito e soprattutto in Grecia, i detrattori del poeta. A cominciare dal patriarca delle lettere greche Kostìs Palamàs, assertore della poesia lirica e della lingua popolare, il quale definì i testi dell’Alessandrino meri reportages, “annotazioni indegne di diventare poesie”. Molti altri intellettuali ateniesi manifestarono apertamente la loro ostilità alla poesia di Kavafis, imputandogli errori di ortografia e l’uso di una lingua improbabile (viene in mente la nostra Amelia Rosselli), senza risparmiargli commenti ingenerosi e imitazioni crudeli. Perfino Nikos Kazantzakis diede voce a un’opinione comune: “Kavafis è uno degli ultimi fiori di una cultura. Un fiore dalle foglie doppie scolorite, dal lungo stelo svigorito, un fiore senza seme”. Seferis ribadì in altro modo le proprie riserve: “Kavafis è una fine, non un inizio”. E più avanti Elitis lo definirà un “innovatore, ma vecchio”. Certo è che al suo apparire la poesia di Kavafis provocò scompiglio e ribellione nell’ambiente letterario provinciale e sonnacchioso della Grecia d’inizio secolo. Ma nel 1924, nel momento degli attacchi più virulenti contro di lui, la rivista ateniese “Nea Techni” gli dedicò per la prima volta un numero speciale. Tra i vari articoli, quello del poeta Napoleon Lapathiotis ne prendeva le difese e si scagliava contro i suoi avversari accusandoli di “animosità, invidia, parzialità fanatica, superficialità meschina, ignoranza totale e sistematica di ciò che significano l’Arte e l’artista”. L’opera di Kavafis, scriveva Lapathiotis, è invece “originale, senza precedenti” e, come “una quintessenza della poesia, schiude gli orizzonti dell’Arte universale”. Lungo fu il processo di maturazione di Kavafis, considerato spesso un “poeta della vecchiaia”. Tuttavia, una volta raggiunta la pienezza espressiva (verso i quarant’anni), egli rifiutò gran parte della produzione precedente, escludendola dalle 154 poesie del “canone”, lo stesso numero dei sonetti di Shakespeare. Anche se è indubbio che alcune delle poesie “rifiutate” e “inedite” avrebbero potuto benissimo far parte delle poesie del “canone”. Oggi sono innumerevoli, in tutto il mondo, le schiere degli estimatori e lettori, che hanno fatto di Kavafis il poeta più tradotto, più conosciuto e uno dei più amati del Novecento. A partire, in Italia, da Filippo Maria Pontani, il primo a presentarlo integralmente più di mezzo secolo fa e la cui versione, al pari della poesia di Kavafis, sfida il tempo.Giorgio Seferis ha scritto che “al di là della sua poesia Kavafis non esiste”. In effetti la sua vita somiglia a quella di alcuni dei personaggi storici minori da lui riesumati, ma che la scintilla di un evento, di un motto insignificante, di un epitaffio semicancellato, del volto di un bel giovane visto per strada o raffigurato su una moneta, di un nome storico dimenticato o fittizio, accende di improvvisi bagliori. Il poeta visse per lunghi anni in isolamento volontario: un’esistenza schiva, punteggiata da rare assenze dalla sua amata Alessandria – se si eccettuano gli anni trascorsi da ragazzo in Inghilterra e a Costantinopoli, brevi visite a Parigi e ad Atene e l’ultimo soggiorno di sei mesi nella capitale greca per essere operato di un cancro alla laringe che ne segnò la fine. Giornate scandite dai discreti incontri omosessuali nelle case di piacere o nel suo appartamento, da passeggiate in città, da soste nei caffè popolari, da appassionati conversari con amici e visitatori occasionali. E, cosa più importante, dalle immersioni notturne negli studi e nelle letture di autori classici e storici antichi. Con altrettanta parsimonia distribuì la propria opera, che si rifiutò sempre di raccogliere in volume, e che incessantemente correggeva, riscriveva, cancellava, intervenendo anche sulle feuilles volantes a stampa che distribuiva agli intimi e a pochissimi eletti, assillato dalla smania di riuscire ad apporre l’ultimo tocco di perfezione alla sua poesia.  Kavafis visse quasi esclusivamente al servizio della Poesia e dell’Arte, del suo amore per la lingua e dell’appassionata dedizione alla cultura greca: cose tutte che elevò a vertici empirei. Questa è stata, e continuerà a essere, la sua eredità. Nicola Crocetti * 11 poesie di Kavafis nella traduzione di Nicola Crocetti La satrapia Che disastro! Sei fatto per cose grandi e belle e hai sempre questa sorte ingrata che coraggio e successo ti rifiuta; hai consuetudini vili come intralcio, meschinità, indifferenze. Ed è tremendo il giorno che ti arrendi (il giorno che rinunci e che ti dai per vinto) e ti metti in cammino verso Susa per andare a trovare il re Artaserse che benigno ti accoglie alla sua corte e ti offre satrapie e favori. E tu le accetti con disperazione queste cose di cui non sai che farti. Ben altro chiede l’anima, per altre cose piange: per le lodi del popolo e dei Dotti, i difficili, inestimabili consensi; e l’Agorà, il Teatro, le Ghirlande. Come può darti tutto ciò Artaserse? La satrapia può darti queste cose? E senza queste, me la chiami vita? * Itaca Se ti metti in viaggio per Itaca augurati che sia lunga la via, piena di conoscenze e d’avventure. Non temere Lestrigoni e Ciclopi o Posidone incollerito: nulla di questo troverai per via se tieni alto il pensiero, se un’emozione eletta ti tocca l’anima e il corpo. Non incontrerai Lestrigoni e Ciclopi, e neppure il feroce Posidone, se non li porti dentro, in cuore, se non è il cuore a alzarteli davanti. Augurati che sia lunga la via. Che siano molte le mattine estive in cui felice e con soddisfazione entri in porti mai visti prima; fa’ scalo negli empori dei Fenici e acquista belle mercanzie, coralli e madreperle, ebani e ambre, e ogni sorta d’aromi voluttuosi, quanti più aromi voluttuosi puoi; e va’ in molte città d’Egitto, a imparare, imparare dai sapienti. Tienila sempre in mente, Itaca. La tua meta è approdare là. Ma non far fretta al tuo viaggio. Meglio che duri molti anni; e che ormai vecchio attracchi all’isola, ricco di ciò che guadagnasti in viaggio, senza aspettarti da Itaca ricchezze. Itaca ti ha donato il bel viaggio. Non saresti partito senza lei. Nulla di più ha da darti. E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso. Sei diventato così esperto e saggio, avrai capito Itaca che vuol dire. * Più che puoi Se non riesci a farla come vuoi, la vita, sforzati almeno più che puoi di non prostituirla nei contatti eccessivi con la gente, con i gesti eccessivi e le parole. Non la svilire col portarla troppo spesso in giro, con l’esporla ai rapporti e ai commerci dell’insensatezza quotidiana finché diventi estranea ed importuna. * Assai di rado È un vecchio. Senza forze, curvo, storpiato dagli anni e dagli abusi, cammina a passo lento nella viuzza. Ma appena rientra in casa a rintanare il suo misero stato e la vecchiaia, riflette sulla parte che ha ancora presso i giovani. Adolescenti ora dicono i suoi versi. I loro occhi vivi son colmi delle sue visioni. Le loro menti sane e sensuali, le loro carni ben tornite e sode, la sua idea di bellezza fa vibrare. * Una notte La camera era povera e triviale, nascosta sull’equivoca taverna. Dalla finestra si vedeva il vicolo sudicio e angusto. Da sotto provenivano voci di operai che giocavano a carte e facevano baldoria. E lì, sull’infimo e sordido giaciglio, ebbi il corpo d’amore, ebbi le labbra sensuali e rosate dell’ebbrezza – rosate di una tale ebbrezza, che anche adesso che scrivo, dopo tanti anni!, nella mia casa solitaria, m’ubriaco ancora. * Torna Torna sovente e prendimi, torna e prendimi amata sensazione – quando il ricordo del corpo si ridesta e trascorre nel sangue il desiderio antico; quando labbra e pelle rammentano, e alle mani pare di nuovo di toccare. Torna sovente e prendimi, di notte, quando labbra e pelle rammentano… * Lontano Questo ricordo lo vorrei ridire… Ma ormai s’è così spento… quasi più nulla resta – perché giace lontano, negli anni primi dell’adolescenza. Pelle come di gelsomino fatta… Quella sera d’agosto – ma era agosto?… Ricordo appena gli occhi; erano azzurri, credo… Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro. * Guardai così fissa Guardai così fissa la bellezza che se n’è riempito lo sguardo. Linee del corpo. Labbra rosse. Membra sensuali. Capelli come da statue greche presi: anche se spettinati sempre belli, caduti un po’ sopra le fronti bianche. Volti d’amore, come li voleva la mia poesia… le notti della mia giovinezza, nelle mie notti incontrati di nascosto… * Aspettando i barbari – Che aspettiamo, raccolti nell’agorà? Oggi devono arrivare i barbari. – Perché è così inoperoso il Senato? E perché siedono senza far leggi i Senatori? Perché oggi arrivano i barbari. Che leggi devon fare i Senatori? Quando verranno, faranno leggi i barbari. – Perché l’imperatore s’è alzato così presto e sta alla porta maggiore della città solenne in trono, e indossa la corona? Perché oggi arrivano i barbari. E l’imperatore aspetta di ricevere il loro capo. Anzi ha disposto di offrirgli una pergamena. Sulla quale gli ha scritto molti titoli e nomine. – Perché stamani i due consoli e i pretori sono usciti con toghe rosse ricamate? Perché indossano bracciali colmi di ametiste e anelli con smeraldi splendidi e lucenti? Perché oggi impugnano le preziose mazze dai raffinati ceselli d’argento e d’oro? Perché oggi arrivano i barbari; e queste cose abbagliano i barbari. – Perché i valenti retori non vengon come sempre a fare i loro discorsi, a dire le loro cose? Perché oggi arrivano i barbari; e hanno a noia concioni ed eloquenza. – Perché questa inquietudine, d’un tratto, questo scompiglio? (Come si sono fatti serî i volti.) Perché si svuotano in fretta strade e piazze e tutti tornano a casa pensierosi? Perché si è fatta notte e non son venuti i barbari. Messaggeri son giunti dai confini e han detto che non ci sono più barbari. E ora, senza barbari, che sarà di noi? Era una soluzione, quella gente. * Giorni del 1901 Questo aveva dagli altri di diverso: che pure nella sua dissolutezza, nel soverchio esercizio dell’amore, e nonostante l’armonia consueta tra il suo atteggiamento e l’età, c’erano istanti in cui – ma beninteso istanti rari – dava l’impressione che la sua carne fosse quasi intatta. Dei suoi ventinove anni la bellezza, la tanto cimentata dal piacere, in quegli strani istanti ricordava un efebo maldestro che all’amore la prima volta il corpo casto cede. * Termopili Onore a quanti nella loro vita si fecero custodi delle Termopili, senza mai venir meno a quel dovere. Integri e giusti nelle loro azioni, ma sempre con pena e compassione; generosi se ricchi, e generosi sia pur con poco se indigenti, soccorrevoli quanto possono; pronunciando sempre la verità, ma senza detestare i mentitori. E sono degni di più grande onore se prevedono (e molti lo prevedono) che all’ultimo comparirà un Efialte e comunque i Persiani passeranno. Traduzione di Nicola Crocetti L'articolo “In un angolo sghembo del mondo”. Kavafis, il gigante solitario proviene da Pangea.
April 8, 2025 / Pangea