Parole: piccoli ceselli sulla pelle pietrigna del tempo. Fiammanti agguati, di
feroci simmetrie, che abbrancano prede fatte di vento. Mosse a un crudore aspro
o leni, appoggiate o impugnate, deposte, in profferta come doni votivi testimoni
di una fragilità che elegge Dio.
Parole derelitte come costole spolpate dal sole. Parole dipinte con estro
tonale, giustapposte, squillanti, stemperate o scialbe.
Parole fuori traccia, inedite e da sommossa, futili, banali, raccogliticce. Che
mordono la carne come stiletti, che lambiscono appena come fiati di petalo, come
un caldo contatto di pelle… Che sanciscono distanze, che abbreviano o
circonloquiscono in modo infame. Come incunaboli di fioriture, laceri stracci,
arazzi superbi, protendersi di dita rattrappite verso l’impellenza del sole;
sequele di futili, pedissequi rilievi, insignificanti, giocose, gratuite, nudate
e sofferte. Che avvengono e non avvengono, numinose e sapienti come antico
delubro, fitte di semenza o sterili come le greppie del potere. Occulte o
palmari. Parole abbrivio di lagnanze, petulanti tracce egotiche di parventi
ragioni, disilluse e bestiali, perentorie come carcasse da mattatoio, celestiali
e senza macchia. Parole argilla del boia e arcolai di salubri raggi.
Ogni linguaggio è territorio animale… Ma per ogni parola, detta o non detta, si
adultera o corrompe ciò che designa: intrasferibile verità e atavica condanna.
Per ogni parola, scelta e ragionata, prolettica e ventrale, la meridiana del
pieno meriggio si sgretola come osso tra le zanne di una bestia.
Il giorno è una stele che detta pene e vantaggi, la notte non appartiene a
nessuno, solo a un varco di stelle che, compassate, trafiggono solitudine
antica. E le parole lì, adiacenti a un desiderio, una promessa, un pianto
incistato in gola. Mentre la fatica del mondo si compie e le vite si estenuano
fino all’ultimo singhiozzo di luce lecita.
Possono far libera un’anima o condannarla alla pazzia, secchi gerani scossi
dalle mani di un uomo senza più un uscio per entrare o uscire dalla propria
appartenenza.
Ho visto creature, punite da un obolo di misericordia, brandire le parole e
scucire il velo dell’ipocrisia. Creature che non possono incontrarsi senza prima
smarrirsi dentro sé, perché è vero: solo ci si incontra, smarrendo la strada. Là
dove la parola evoca una disorna traccia, la geniale omissione dell’intero
oggettuale, scheletro astratto del contingente che fu o che sarà, che di un
oggetto ne fa mille e di mille uno.
Parole che appendono la lebbra delle fiamme a polverosi registri. Parole che
inseguono sentori: pugni che stringono il vento o mungono il sangue dalle lame.
Parole derelitte al centro di un’idea inesplicabile che si aggira sola al mondo
come una creatura. Parole come colli di bianchi cigni, come retrattili artigli,
ottuse come liti, angoli acuti senza porzione d’arco discreto. Legittime e
legittimate. Su arazzi di religioni e simili a stampelle d’un pensiero storpio.
Che giustificano il delitto seriale, che deprecano un tozzo rubato, enfie e
vacue, puntute e abissali… Che disegnano la silhouette di un’identità gettata
nei fatti. Che sfogliano paesaggi con le dita sottili di un visibile nascosto.
Parole, sono solo parole, ma si può dover morire per dar loro un senso.
Il poeta le sceglie, chi voce non ha le subisce, tutti le usiamo senza troppo
tema di sbagliare, con quotidiano, usato abuso che niente aggiunge e niente sa
di verità e bellezza.
Parole come un delitto perfetto di omissioni. Che molto dicono col raggiro di
non dire e di pletore d’opinioni e fatti desunti. Stagionali come abiti, eterne
come una rosa dipinta o cantata.
Parole di polvere su cubitale polvere di parole. Scritte sull’acqua, figlie
della muta e di mimesi psicotiche dettate, a cliché, dalla paranoia del
potere. Come spine confitte di ordini eseguiti, sogni nel sogno e rime eterne
col nostro rimosso, discorsi allo specchio di un turgore che olezza di carogna.
Parole enormi come cattedrali e che non significano un metro, parole esigue che
affoltano di vuoto. Cannibali e sottili come un’ostia. Rune di un’esistenza
sequestrata dal cielo. Ce ne sono di puntiformi e di simili a enormi bacini,
come soffitte e come sacrari, o infiniti contenitori in cui derubricare scomode
posizioni, a cumuli, con surrettizi, epidermici giudizi figli d’apocrifa
antonomasia.
Ne sfoggiamo di trite e ne defalchiamo di essenziali. Talvolta ne azzecchiamo
qualcuna, ma come per un lancio di dadi, un gioco di bussolotti.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: disegni di Peter Paul Rubens (1577-1640)
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come un’ostia” proviene da Pangea.