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“Sono patologicamente curioso”. Da Gladio alla Patagonia, dall’occulto ai Talking Heads: dialogo con Guido Mina di Sospiro
Di solito, indossa ampi cappelli: il sigaro e la camicia larga conferiscono al profilo un ardore à la Indiana Jones; l’entusiasmo, a vertigine, un certo titanismo negli occhi, lo rendono, piuttosto, un soggetto degno di Friedrich, il protagonista di un romanzo inglese dei primi del Novecento, di ampi porti in luoghi esotici, arricchito da esoterici vagabondi. Di solito, alle spalle di Guido Mina di Sospiro appaiono paesaggi suggestivi: liane amazzoniche, templi minoici, canyon. Nato in Argentina da famiglia di alto lignaggio, studi a Milano, vita negli Stati Uniti, una volta mi ha scritto dal Giappone – o dalla Patagonia, non ricordo. Ha una casa a Todi, a cui approda, di tanto in tanto. Ha praticato come musicista – tra l’altro, con l’ungherese Miklós Rózsa, tre volte Oscar “alla migliore colonna sonora” – e come cineasta – Heroes and Villains, cercatelo in rete, è stato realizzato con un gruppo di amici nel 1978 –; ha scritto tanto. La sua vita furibonda nella California degli anni Ottanta rimanda ai romanzi di Bret Easton Ellis: Guido non lo ha letto, e con rabbiosa schiettezza mi dice di preferire Borges. Lo vedrei bene come allevatore di centauri.  Guido Mina di Sospiro, uomo in direzione contraria all’editoria dominante, ha scritto tanto, è stato tradotto ovunque. Il suo libro di maggior successo, forse, è The Metaphysics Of Ping-Pong: uscito nel 2013 nel mondo inglese, è stato recepito da Ponte alle Grazie tre anni dopo; lo stesso editore, nel 2017, ha pubblicato Sottovento e sopravvento, una specie di “romanzo filosofico d’azione” (così Maurizio Ferraris), che sovverte il candore del ‘genere’. Da allora – Rizzoli, tra 2002 e 2003, ha pubblicato L’albero e Il fiume – dell’autore, in Italia, si sono perse le tracce. Incessante è tuttavia la sua attività letteraria negli altri mondi; scrive, tra l’altro, sulla “New English Review”.  Quest’anno le reticenze – Mina di Sospiro è ostile al mainstream narrativo che va per la maggiore – si sono dissigillate: Bietti ha tradotto Il libro proibito, un noir teosofico scritto dall’autore insieme Joscelyn Godwin, studioso di occultismo, esoterista, autore, tra l’altro, di testi su Robert Fludd, Fabre d’Olivet, René Guenon e Julius Evola. Quest’anno, Lindau ha invece pubblicato Terrore e musica, libro in cui, in sostanza, Mina di Sospiro parla della sua Milano dilaniata dagli Anni di Piombo, tra i Talking Heads (in appendice, l’autore impila una “lista di compositori, composizioni, musicisti, gruppi, brani e dischi a cui si fa riferimento nel testo”, tutta da ascoltare) e le Brigate Rosse. “Questo libro tratta della città in cui sono cresciuto, Milano, nella quale rischiavo la vita quotidianamente pur senza mai volerlo. Né intendevo, in quel luogo e in quel periodo… intorno a me tutto era diventato improvvisamente così strano, era come se io vivessi in un altro mondo, da straniero nella propria città”, confessa l’autore. L’attacco del libro parte in contropiede – con David Byrne in sottofondo: > “È la settimana di orientamento per le matricole straniere alla University of > Southern California, o USC, a Los Angeles, verso la fine di agosto del 1980. > Mi viene assegnata una stanza in un dormitorio da condividere con un compagno > di studi internazionale, un palestinese di centocinquanta chili il cui padre è > «non potente come il presidente Carter,ma quasi». Più tardi, lo stesso giorno, > aggiunge che come membro dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della > Palestina, «ho ucciso tre ebrei». Oddio, penso, il mio compagno di stanza è un > assassino!”.  Stenio Solinas, che ha scritto di Terrore e musica su “il Giornale”, sintetizza il ‘clima’ dell’epoca con parole statuarie: “La gran parte dei rivoluzionari ventenni dell’epoca, dieci anni dopo li avresti ritrovati nei giornali borghesi che avrebbero voluto bruciare, nelle aziende paterne che avrebbero voluto bruciare, nelle multinazionali, negli uffici pubblici, dietro quelle cattedre scolastiche e universitarie che avrebbero voluto bruciare. Tutti pompieri”. Detto tutto.  Quanto a me, di Guido Mina di Sospiro piace il moto sciamanico, l’ansia del viaggiatore, il suo essere estraneo – anzi, australe – al mondano. Così, l’ho cercato. Pare che questa intervista si sia svolta tra Todi e Villa O’Higgins, in Cile; ma forse è sempre un altro mondo quello a cui tendiamo.  Lui è Guido Mina di Sospiro Parto da “Terrore e musica”, che è poi un libro autobiografico. A un certo punto parli del mitico Miklós Rózsa. Ecco, che ruolo ha avuto la musica nella tua scrittura, nella tua vita?  Un ruolo enorme che ora, però, non c’è più (surfeit). Miklós Rózsa fu uno dei miei mentori. Quando ero diciassettenne e lui settantenne avevo la beata incoscienza di mostrargli le mie composizioni, che fra l’altro non gli dispiacevano. Discutevamo di musica e musicisti, armonia e composizione per ore. Mi cambiò la vita: fu lui stesso a dirmi della University of Southern California, dove aveva insegnato composizione succedendo a Schönberg, che era andato alla UCLA, e dove c’era una famosa scuola di cinematografia. Fu così che scelsi di lasciare l’Italia incasinatissima e insanguinatissima di allora e, nel 1980, cominciare a frequentare la USC (non fu affatto facile, con esami di ammissione e complicazioni a non finire, ma ci riuscii). Nel libro esprimi il tuo giudizio sugli “Anni di Piombo”. Riassumilo per chi ci legge.  La vulgata che ci è tanto assiduamente propinata, e cioè che la eversione era per metà di estrema destra e per metà di estrema sinistra, non corrisponde alla realtà. Ma mi fermo qui. Preferirei che il lettore, leggendo il mio libro che va dal 1974 al 1980, si rendesse conto, anno per anno, mese per mese, settimana per settimana, di che cos’erano le grandi città italiane di allora, specialmente Milano, in cui vivevo. Non mi pare che parli del “terrorismo nero”. Come mai? Ne parlo, invece, mettendo nel loro contesto le “stragi di stato” e la “strategia della tensione”, inizialmente ispirate da gruppi eversivi quali Ordine Nuovo, ma in seguito adottate da stay-away-governments, dall’Operazione Gladius, dalla CIA, dalla Masad, dai vari servizi segreti italiani (spesso in conflitto fra loro), dalla P2, e così via. Ma nelle strade la sopraffazione e le intimidazioni, la violenza cronica, quotidiana e sempre in crescendo, erano rosse. Le Brigate Rosse, solo per limitarmi a loro, hanno compiuto 14.000 atti di violenza nei primi dieci anni di attività, dal 1970 al 1980, quasi 4 al giorno. Nessuna organizzazione clandestina di estrema destra si avvicina nemmeno lontanamente a tale media da mattanza.  Come nasce “Il libro proibito” e qual è il suo nucleo incandescente, il cuore esoterico? Insomma, come dobbiamo leggerlo? Anni fa c’era la moda del romanzo cosiddetto “esoterico”, che in certi casi diventava molto essoterico, con vendite di milioni di copie. Joscelyn Godwin – una delle menti più geniali al mondo, autore, traduttore ed editor di oltre quaranta libri – ed io pensammo che, come scherzo o jocus severus, avremmo potuto scrivere un romanzo veramente esoterico. Nel senso che quelli in voga allora partivano invariabilmente da un mistero “magico” che però poi veniva risolto dal solito ispettore con i soliti mezzi razionali. Noi invece, avendo la formazione esoterica necessaria, che nessuno di tali scrittori ha, ci ripromettemmo di partire da un mistero magico e risolverlo… con la magia, nel mentre prendendo in giro il classico ispettore. L’approccio ha funzionato: a oggi, oltre all’originale inglese, sono state pubblicate dieci edizioni straniere. Le ideologie saranno pure defunte, non certo le idee di mondo: qual è la tua? Intendo: che senso ha vivere, cosa c’è dopo questa vita? Dovresti darmi un milione di euro per ciascuna risposta, ammesso che io le azzecchi. Cominciamo dallo stato di cose di questo mondo occidentale despiritualizzato: oltre un secolo fa Wittgenstein ha dichiarato senza ombra di dubbio che la metafisica era morta, e da allora la filosofia s’è tramutata in sofismi. Pertanto se un povero cristo in buona fede si pone domande quali le due che mi hai posto tu, non troverà risposta nella filosofia dell’ultimo secolo, che si è persa in stupidaggini, Sprachspiele e logorrea. Se per “idea di mondo” intendi, come credo, Weltanschauung, la mia si rifà all’opera di Alfred North Whitehead, il quale, mentre Wittgenstein e poi la Scuola di Vienna davano per morta e sepolta la metafisica, scrisse uno dei libri di metafisica più importanti di sempre: Process and Reality. A mio avviso, l’unica ragione per cui la riflessione metafisica rimane necessaria, forse più che mai, è che la nostra coscienza moderna ha perso contatto con la propria esistenza cosmica e quindi necessita di una giustificazione intellettuale. Prima che Omero mettesse la penna sulla pergamena e parodiasse gli dei, l’anima umana non sperimentava alcuna separazione tra il Logos del mondo (significato) e la sua esistenza (fattualità), e quindi non aveva bisogno di credenze religiose. La divinità viveva e respirava in mezzo alle creature della terra e del cielo. Lo shintoismo dice lo stesso, incidentalmente. La cosmologia panteistica di Whitehead intende correggere la tradizionale visione religiosa di Dio come sovrano e onnipotente. La sua cosmologia dotata di un’anima intende correggere la visione filosofica moderna secondo cui l’uomo è separabile dalla natura, o la mente separabile dalla materia. Il potere, per Whitehead, diventa persuasivo poiché estetico, piuttosto che coercitivo poiché meccanico. Dio non arriva dall’aldilà per progettare il mondo a suo piacimento, né lo fa la coscienza umana. Per Whitehead la “concrescenza” è il nome del processo in cui “l’universo delle molte cose acquisisce un’unità individuale in una determinata relegazione di ogni elemento dei molti alla sua subordinazione nella costituzione del nuovo ‘uno’”. La concrescenza, in altre parole, è semplicemente il processo di diventare “concreto”, nel senso di pienamente attuale come occasione reale compiuta. La concrescenza è l’atto del divenire di entità reali. Dal latino “concrescere”, crescere insieme, è l’atto produttivo, l’atto del divenire di un atto produttivo, l’atto del divenire di un essere che è l’insieme. Nella concrescenza, il nuovo essere passa dai suoi componenti nella loro diversità disgiuntiva ideale agli stessi componenti nella loro realizzazione. La metafisica di Whitehead, nota anche come filosofia del processo, definisce la realtà come una rete dinamica di eventi interconnessi o “occasioni reali” (actual occasions) piuttosto che di sostanze statiche. Mette in risalto il divenire rispetto all’essere, il cambiamento e il processo rispetto alla permanenza e le relazioni rispetto alle entità isolate; capovolge il mito della caverna di Platone. Questa visione considera tutta l’esperienza, compresa la realtà soggettiva e oggettiva, come unificata all’interno di un unico cosmo interconnesso. Chi di voi cercasse di leggere Whitehead senza capirci nulla si troverebbe in buona compagnia e sarebbe sulla via maestra: l’universo, infatti, non è un manuale d’istruzioni. Mi domandi inoltre: cosa c’è dopo questa vita? Ho letto e studiato innumerevoli testi esoterici di tante tradizioni molto distanti tra loro nello spazio e nel tempo, e ne ho discusso con tanti pensatori, nessuno dei quali appartiene alla mainstream. In nuce: oltre cinquant’anni fa David Conway, un magus gallese, diede alle stampe Magic: An Occult Primer. Maxine Sanders ne scrive come segue: “Al giorno d’oggi ci sono innumerevoli libri sulla magia. Questo è diverso. Diverso come quando è apparso per la prima volta nel 1972. Ciò che lo rende diverso è che spiega al lettore – esperto o principiante, scettico o credente – che cos’è la Magia, perché la Magia funziona e, soprattutto, come si può lavorare con la Magia. Pochi libri fanno tutte e tre le cose, certamente non con tanto stile, erudizione e umorismo.” L’ultimo capitolo s’intitola: Death and the Meaning of Life (La morte e il significato della vita), e spiega dettagliatamente che cosa succede all’anima quando si stacca dal corpo che l’ha ospitata. Confesso di avere smesso di leggere tale capitolo verso la fine perché mi sembrava fin troppo veritiero, e a me non va che le cose finiscano in quel modo. Inoltre, esorto i lettori che leggessero Magic: An Occult Primer a NON cimentarsi nelle arti magiche; non conosco nessun magus che, praticandole, non abbia subito contraccolpi o ripercussioni, anche molto pesanti, cioè la propria morte, o quella di un caro. Leggere, sì, e con deferenza; praticare, altamente sconsigliato. Che cosa tiene insieme il tuo interesse per i manoscritti alchemici, la musica colta, il cinema, il “clima” degli anni Settanta italiani? Sono patologicamente curioso, non mi fido affatto del canone e delle vulgate che ci propinano e sono allergico al pensiero mainstream. La curiosità non è necessariamente un dono, però, e spesso invidio i nostri gatti, quattro, uno più contento e pigro dell’altro. E sin da piccino sono stato abituato all’alta cultura. Casa nostra era frequentata da personaggi di alto livello, direttori d’orchestra, cantanti lirici, musicisti, scrittori, poeti, pittori, registi e così via. In campagna da mio nonno apparivano spesso Mario Soldati e Renzo Pasolini, entrambi intenti a baciare l’anello. Lo ricordo perché, pur piccino, mi sembravano comicamente ossequianti. Quindi ho sempre avuto accesso al meglio nel campo delle arti, e non solo. Più tardi la profonda amicizia con Joscelyn Godwin (con il quale ho scritto due romanzi), Rupert Sheldrake, Christopher Sinclair-Stevenson, Gillian Prance e diversi altri pensatori inglesi mi ha ulteriormente ampliato gli orizzonti.  Negli ultimi vent’anni ho (ri)scoperto la letteratura spagnola e ispano-americana e leggo principalmente in quella lingua. Gli anni Settanta in Italia erano sconvolgentemente violenti, ma qua e là, soprattutto nella musica, anche molto creativi. Secondo Andrea Kerbaker, con il quale fondai il giornalino La nuova scapigliatura milanese al liceo Leonardo a Milano mi sembra nel 1977, fra la violenza e la creatività di quegli anni c’è un nesso; io, non saprei. Perché non ci siamo riconciliati con gli “Anni di Piombo”? Perché in Italia parliamo ancora di “fascismo” e di “resistenza” in toni che provocano divisione più che comprensione? Perché, e te lo dico con candore, gli Anni di Piombo sono stati il terzo tentativo nel XX secolo in Italia di imporre il comunismo con la lotta armata: dopo il Bienno Rosso del 1919-20; dopo la Resistenza, che resistenza non era bensì guerra civile, del 1943-49 (vedi gli scritti di Claudio Pavone); infine gli Anni di Piombo. È sempre la stessa matrice. Ad esempio, le P38 che nel 1975 apparvero d’improvviso nelle mani dei militanti di ultra sinistra (“Poliziotto fai fagotto/ è arrivata la P38!”) altro non erano che le Walther P38, le pistole d’ordinanza dell’esercito tedesco, sottratte e nascoste dai partigiani che, trent’anni dopo, le consegnavano ai figli con l’esortazione di “finire la guerra contro il fascismo”. Ma il fascismo era morto e sepolto, non c’era più, e i neofascisti erano un po’ come i tartari nel romanzo di Buzzati (che scrisse nell’Africa Orientale, dov’era amico di mio padre: ne discutevano di sera). Ce n’erano davvero pochi (alcuni dei quali mortiferi), e quei pochi non si facevano certo vedere. Essendo la storiografia in Italia saldamente nelle mani della sinistra, la vera storia del ventesimo secolo non è mai stata raccontata, né tanto meno assimilata. Cosa sono stati per te – cosa sono – gli Stati Uniti?  Meriterebbe una risposta fiume, essendoci approdato nel 1980. In nuce, negli States ho fatto cinema, suonato in un gruppo, trovato moglie alla fine del Sunset Boulevard in un contesto squisitamente romanzesco, mi sono laureato, ho fatto il corrispondente per riviste europee di musica e cinema come membro della Hollywood Foreign Press, fatto figli e messo su famiglia, vissuto in California, Florida, Virginia, Maryland, conosciuto tutti e più di tutti e fatto amicizia con grandi menti, scritto libri, libri e poi ancora libri, girato in lungo e in largo, fatto e perso amici. Una vita. Gli USA mi sono sempre piaciuti per il loro pragmatismo yankee; ora non li riconosco più perché quasi metà della popolazione si è lasciata sedurre e indottrinare da un marxismo/globalismo postmoderno che può portare solo alla fine dell’impero, e che, a parte essere distruttivo, è, come gli si conviene, riduttivo, roba da duri di comprendonio, vedi la suprema modestia di Marcuse, quindi intellettualmente tutt’altro che stimolante, anzi, la morte cerebrale. Degli USA a tutt’oggi mi piacciono gli spazi; sono appassionato di fuoristrada, e spesso vado nel South-West, soprattutto a Moab, nello Utah, a cimentarmi nel rock-crawling, disciplina che consiste nel superare a passo d’uomo ostacoli apparentemente insuperabili con lo sfondo di una natura selvaggia e meravigliosa. In quanto a cultura, con qualche eccezione (americani old money, MAI accademici, che sono marxisti e banalissimi) preferisco frequentare pensatori europei o ispano-americani che risiedono in America. Gli americani tipici sono bravi a inventare marchingegni straordinari e a fare soldi. Ma a nessuno dei miliardari della tech interessa l’arte. I Vanderbilt, Morgan, Rockfeller, Carnagie sono stati rimpiazzati dai Gates, Bezos, Zuckemberg, Musk, ai quali arte e letteratura interessa meno di zero.  C’è poi un altro Paese che ha avuto un’enorme influenza su di me, specialmente come scrittore: l’Inghilterra. Ma ne parlerò un’altra volta. Quali sono i tuoi “maestri” di scrittura, i tuoi lari? In “Terrore e musica”, a tratti, ho visto l’ombra di Bret Easton Ellis… Insomma, cosa ti piace leggere? Mai letto Bret Easton Ellis. Casomai c’è l’influenza di George MacDonald Fraser e della sua serie con Flashman come protagonista. Sono diciassette romanzi che ho letto e riletto, e i primi libri che ho avuto la necessità di duplicare: i diciassette tomi nelle casa in America, gli stessi diciassette tomi in quella in Italia. Figurati che quando abbiamo avuto Rupert Sheldrake ospite da noi, l’ho convinto a leggere Flash for Freedom! I maestri di scrittura? Le influenze ormai sono infinite, e spesso insolite, come ti puoi immaginare. Per esempio nei seguenti versi dell’umile canzonettista Alvaro Carrillo, tratti dalla sua canzone Sabor a mí trovo più (disarmante, cruda) poesia che nell’opera omnia di Pablo Neruda:  > “No pretendo ser tu dueño > No soy nada, yo no tengo vanidad > De mi vida doy lo bueno > Soy tan pobre, ¿qué otra cosa puedo dar?” Non frequento più librerie tradizionali da anni, ma spesso quelle che vendono libri usati, e ce ne sono molte di più nel mondo anglofono. Entri senza sapere che cosa stai cercando ed esci, quando la cerca va a buon fine, con una o due o più gemme la cui esistenza ignoravi fino a poco prima. Mi divertono tutti i libri della Adventure Unlimited Press, capitanata da quel mattoide di David Hatcher Childress. Ciascuno di voi lettori dovrebbe leggere almeno un libro di Graham Hancock, il quale fra l’altro ha inventato un nuovo genere: la narrative non-fiction, che sembra un ossimoro, ma non lo è. Cominciate da Impronte degli dei. Alla ricerca dell’inizio e della fine. Non posso non citare almeno qualche autore di lingua spagnola al di là di Cervantes, Lope de Vega, Leopoldo Lugones, César Vallejo, Xul Solar e Jorge Luis Borges: mi piacciono molto José Javier Esparza e Pío Moa. Ce ne sono così tanti altri che l’intervista diverrebbe una lista, il che non è di grande intrattenimento. E ora… cosa scrivi? Cosa vorresti scrivere?  Ho appena terminato A Drive Down the Carretera Austral in Chilean Patagonia. Ho guidato, cioè, fra andata, divagazioni e parziale ritorno, per 2600 chilometri, da Puerto Montt a Villa O’Higgins, tutti esclusivamente in Cile e per la maggior parte su sterrato. Le Ande bloccano le nuvole che vengono dal Pacifico, cosicché la Patagonia cilena è una verdissima foresta pluviale temperata, mentre quella argentina, un deserto. La Carretera Austral è stata costruita per volere di Pinochet per poter mobilitare l’esercito contro le incursioni argentine, ma è diventata un viatico per la natura più bella al mondo, fra vulcani, ghiacciai, foreste zeppe di maestosi alberi a noi sconosciuti, laghi, fiumi, cascate, fiordi, isole e isolotti. Il libro l’ho scritto di getto; vado a giorni a Londra a parlarne con il mio agente letterario. Speriamo che per una volta esca entro breve. Di solito gli editori, spesso duri di comprendonio, ci mettono anni ad arrivarci… *In copertina: David Byrne indossa “The Big Suite”; Stop Making Sense esce nel 1984 L'articolo “Sono patologicamente curioso”. Da Gladio alla Patagonia, dall’occulto ai Talking Heads: dialogo con Guido Mina di Sospiro  proviene da Pangea.
June 10, 2025 / Pangea