Poi – giorni dopo – sono, per lo più, due occhi verdi, verbosi, per sempre
fanciulli, occhi da bimbo con la cerbottana. Occhi d’erba. Cristiano Godano, per
lo più, è lì, negli occhi: occhi che scalpitano. Occhi con le unghie. Occhi tra
l’altalena e la fame, tra azzurro e azzardo.
Siamo ancora qui, mi dirà, dopo. Beve Red Bull. Ha ordinato una quantità di
piatti. Mangia poco. Sono di una lentezza esasperante, dice. Ride. Poi, ancora.
Siamo ancora qui, dice. Dice dei Marlene Kuntz. Cita i Verdena. Parliamo di
Gianni Maroccolo e di Ferretti, dei CSI e del Consorzio Produttori Indipendenti.
Tenacia nell’occhio destro, malinconia in quello sinistro. Cristiano ha occhi da
Alessandro.
Catartica esce nel 1994 – dovevi essere nella brutale periferia torinese, in
quegli anni anodini, ad ascoltarlo. Cesare Pavese ha intravisto, in un celebre
saggio, il Middle West in Piemonte, ha tentato un gemellaggio tra le Langhe e
l’Ohio, mitica terra narrata da Sherwood Anderson. Sono cresciuto a Orbassano,
gattopardesco ghetto degli operai della Fiat: quel luogo, nei neri e nubiformi
anni Novanta, pareva paragonabile, semmai, agli slums scozzesi di Trainspotting;
pensavo alle brughiere di Emily Brontë, a tratti, per uno slancio di
sentimentalismo esistenziale. Per salvarmi, rubavo Dylan Thomas e Julio Cortázar
nelle librerie di Torino (a Orbassano non esistevano); il mio amico Jonathan
suonava Eric Clapton, Mark Knopfler e Jeff Beck. Ascoltavamo,
annegando, Nuotando nell’aria:
> “Intanto
> l’aria intorno è più nebbia che altro…
> Mi piacerebbe sai, sentirti piangere
> anche una lacrima, per pochi attimi”.
Imperava la droga – Roberto Baggio, imperiale, negli Usa – il podio del Festival
di Sanremo diceva la piagnona disumanità italica: Aleandro Baldi, Giorgio
Faletti, Laura Pausini – in maggio, si insediava il Governo Berlusconi I.
Intorno a Orbassano: chilometri di terre infeconde – il marrone addosso come un
bastone, il marrone in faccia. In fondo, a Sfinge, le montagne, bianche,
inaccesse – cupa mascella di Dio, pari alle nostre montagne interiori.
*
Più tardi suonerà Osja, amore mio, il pezzo dedicato a Osip Mandel’štam, il
grande poeta russo straziato da Stalin, morto di stenti nei Gulag sovietici,
poco dopo il Natale del 1938. La canzone trae spunto dall’ultima, memorabile
lettera di Nadežda al marito – una lettera rimasticata dagli spettri, che Osip
non leggerà mai. Osja, amore mio esce nel 2013, l’album dei Marlene Kuntz
s’intitola Nella tua luce. “Se mi senti dimmi dove sei…”. Amo le memorie di
Nadežda, bellissime e tremende: c’era quel libro, L’epoca e i lupi, ora so che
l’hanno ristampato come Speranza contro speranza, mi dice Godano. Poi parliamo
di Iosif Brodskij. Fondamenta degli Incurabili. Come se fosse un abbecedario
minimo – Godano indossa gli occhiali da sole come fossero un elmo. All’inizio,
però, era Oblomov.
Incupito, Cristiano Godano costretto ad ascoltare le prediche di Brullo
*
Sono a letto, scusami, non si addice alla nostra conversazione: ora mi alzo. Mi
dice Godano, giorni fa – giorni che potremmo chiamare Alpi, giorni in rampicata.
Come Oblomov, faccio io.
Insieme a Roberta Rocelli, donna di indocile lucidità, che alterna la tenerezza
al cazzotto, abbiamo deciso di invitare Cristiano Godano a suonare al Festival
Biblico e a parlare del “Salterio dei Poeti”. Così, gli telefono. Che mi dici di
Dio? Andavo a Messa da bambino – potrei dirmi ateo, preferisco agnostico: non è
nel mio orizzonte, fa lui. E i poeti? Non li leggo. Non è vero, lo incalzo.
In Poeti – brano installato in Bianco sporco, album dei Marlene del 2005 – citi
Guido Gozzano, “il gran poeta”: Un mio gioco di sillabe ti illuse, da L’onesto
rifiuto, gran bella poesia. È vero…, fa lui, intendevo dire che non sono un buon
lettore di poesia. Più tardi si attarderà su Montale, “è sempre disponibile a
farsi leggere e rileggere”; poi va a Borges, “una sua poesia mi ha ispirato”.
Comincia così un dialogo in ascesa. Come corda, piccozza e artigli usiamo
WhatsApp. Facciamo un esperimento, gli dico: ti faccio una domanda al giorno.
Sondiamo gli insondati, gli indicibili. Con rapace generosità – sbandato tra un
concerto e l’altro – Godano ci sta.
*
Parto dal campo base. Ci accomuna l’amore per Nick Cave e Vladimir Nabokov. Il
primo è semplice. Mentre io andavo in delirio per No More Shall We Part –
ipnotico brano di apertura, As I Sat Sadly by Her Side, mandato a ripetizione in
una casa-catafalco a Milano – i Marlene avevano pubblicato da poco Che cosa
vedi. Più tardi, sul palco, Godano sradicherà da quel disco il pezzo-Houdini,
quello che scatena i cuori ammanettati degli astanti, La canzone che scrivo per
te. Manca Skin, non ho il physique. “Di Nick Cave amo tutto. I miei tre dischi
preferiti? Forse The Good Son, The Boatman’s Call, Kicking Against the Pricks”.
Poi c’è Nabokov. Ovunque. Cosa c’entri Nabokov con Nick Cave, a parte l’ecumene
di N e di K, lo faccio dire a lui, copio-incollo da Il suono della rabbia (il
Saggiatore, 2024):
> “Due dei miei eroi di riferimento nel campo artistico, Nick Cave e Vladimir
> Nabokov, un cantante e uno scrittore, hanno vissuto una vita dedita in maniera
> spontaneamente totalizzante all’arte. Immuni a qualsiasi ingerenza del sociale
> nei loro lavori artistici, mi hanno sempre dato la sensazione, influente e
> ispiratrice, di una esistenza eccitante nella ben nota (e da molti
> disprezzata) torre d’avorio dell’artista”.
Godano cita Nabokov come un amuleto. Entrambi siamo affascinati dall’uomo;
quando gli parlo di Intransigenze, raccolta nabokoviana di interviste rette dal
carisma della crudeltà (in Italia: Adelphi, 1994; l’anno di Catartica…), Godano
va in brodo, cita a memoria alcuni giudizi del sommo, “l’asinina Morte a
Venezia di Mann… le pannocchiesche cronache di Faulkner”. Ride. L’austerità
dell’arte incline a tirannica ascesi. Lo scrittore: al contempo demone e
crocefisso all’asse del proprio mondo. Godano preferisce La vera vita di
Sebastian Knight; parliamo di Fuoco pallido; quando scopre che ho scritto un
romanzo, Nabokov, su Nabokov, mi piglia per matto.
Credo che a Godano piaccia distruggere le maschere. Eleva la maschera a idolo,
poi la abolisce, ne fa abominio. Si leva la maschera e la offre come trogolo al
pubblico. Condanna di chi vive sul palco, perpetuo pasto dei fan, costretto a
essere sigillo di memorie altrui, che non gli appartengono, di cui è ignaro.
Nell’ultimo disco, Stammi accanto, un lotto di testi – Lode all’istante, Cerco
il nulla, Vacuità – costituisce una specie di sentiero dello spirito, rasenta
una poetica dell’esistere.
Vuol farmi credere che “nel Cristiano solista c’è meno frattura – o zero proprio
– fra l’io narrante e il sottoscritto”. Fosse così, l’artista morirebbe a ogni
pezzo. Spaccare lo specchio, esercitarsi coi vetri finché il sangue non è che
una variante del cielo.
*
Un giorno lo scambio si infuoca. Gli piace Cioran, lo stringo sulla morte,
sull’aldilà.
> “Adoro il black humour di Cioran: la penso come lui sul senso della vita, che
> per me non c’è. Dunque, detesto profondamente la morte che considero
> tremendamente ingiusta. Non ho alcun rapporto ‘foscoliano’ particolare con i
> morti: un cimitero mi dice poco in merito al dialogo con loro, nonostante
> camminarvi dentro mi consegni una fantastica pace. Una volta ho fatto footing
> in un cimitero: inverno, otto e trenta del mattino, tentavo di trovare una
> routine salvifica dagli stati ansiogeni che mi assillavano. Sforzo vano:
> detesto correre”.
…ma ti rendi conto la noia di essere eterni?
“Oh, no, siamo in totale disaccordo. Penso che si tenda a parlare di noia
dell’eternità perché la si immagina in connessione con il mortificante
accadimento della senescenza, ma se si potesse essere eterni senza invecchiare
sfido chiunque a ritrovarsi a un certo punto annoiati della vita…”
…eppure la bellezza esiste perché sfiorisce e gli uomini si amano, fino a
morirne, proprio perché muoiono… altrimenti, crepino nel crepitio eterno.
“Farei a meno dell’amore (ah, l’amore, il mio mistero per eccellenza: l’unica
crepa nella mia apparentemente radicale convinzione che tutto sia illusione e
che i vari nostri valori – bellezza inclusa – non siano altro che nostre
inevitabili costruzioni) se in cambio avessi l’eternità”.
Ad ogni modo, hai un figlio. Per lui, sei tu il senso. Al suo cospetto, la vita
torna vita, non più tenue insensatezza.
“Sono il senso per mio figlio perché la vita (e l’evoluzione) ci ha tirato
questo brutto scherzo: a tutti gli esseri viventi la condanna a cercare di
vivere a tutti i costi, affannandoci costantemente e costringendoci a legarci ai
più prossimi (genitori in primis) per non soccombere, e a noi esseri umani, in
più, la sfiga della coscienza (siamo costretti a essere coscienti) che ci porta
e riflettere e speculare e inventare illusioni. (Sono così, ahinoi, soverchiato
dal raziocinio)”.
…ma l’arte è mania, mantica, insorgenza dell’irrazionale. La ragione, il logos,
è la quintessenza dell’illusione. Se non esistesse la morte (il pensiero della
morte, dunque l’amore che ci lega a questo ferito e fetido mondo e non ci fa
suicidi), non avrebbe peso né presa l’arte. Un figlio non è generato dal caos,
ma dal fato: un dono più che una condanna, da preservare, come il fuoco e il suo
fuco. Che si spegnerà è ovvio: intanto, scalda, è luce. Si vive per dare la vita
a un altro (anche se l’altro la rifiuta). Da gettati.
“Ahimè, per me la vita è condanna. Questione di tempra. ‘Si vive per dare la
vita a un alto’ è un altro brutto tiro della vita e dell’evoluzione, questa
insensatezza rivolta in avanti (anche se il tempo, come dicono, non esiste).
Vedi che è la cazzo di morte (violenta, ingiusta) che definisce tutto? È la sua
protervia che ci costringe a ogni tipo di sotterfugi, arte inclusa (che fra
tutte le illusioni è l’unica con qualche potenziale, illusorio anch’esso,
salvifico)”.
Se è grazie alla morte che ho potuto leggere Trakl e Rilke, vedere Bellini e
ascoltare… Godano e Nick Cave, beh, sono felice di morire. Il sotterfugio è il
vero gioco da illusionisti. Amo questa terra grave di morte, ma non così tanto.
Levarsi di torno senza tema di memoria, di lacrime, di arpie pettegole sarebbe
saggio. Sparire più che morire. La morte fa da sprone – la vita, mai nostra, sia
restituita. Il resto, chissà… troppo chiasso fanno i pensatori, i poeti
impastano l’impensato.
“Io amo la vita, ma solo nel senso che è mia con tutto il corredo di sentimenti
emozioni affetti che a lei mi lega tenacemente. Odio la morte, che temo
ardentemente. Per me ci si può con tranquillità chiedere se fosse meglio non
nascere, e propendo più per il sì, con qualche circostanziata remora”.
*
Un giorno gli dico che è lui il grande illusionista.
I cantautori scrivono pezzi che inchiodano chi li ascolta a quel particolare
ricordo, frainteso, acido d’anni: una rosa che si rivela iena, che ti si rivolta
addosso. Schiavizzano, e sono schiavi. Mi risponde poco dopo:
> “Credo di poter dire che alla fin fine i miei scopi artistici sono
> principalmente estetici. Nell’ambito della scrittura questo vuol dire che
> gioisco in particolare di una qualche forma di eleganza connessa all’idea
> dello stile, come se avesse un piccolo vantaggio sul significato”.
La forma è il significato (scarceriamo le parole dalla condanna di significare
qualcosa, lasciamole essere falchi, ungulati, a unghiate); la chiarezza:
idolatria da geometri, da vetusti cardinali del vocabolario. Su questo siamo
(quasi) d’accordo.
Più tardi costringo Godano al ‘sacro’; si smarca: “non avendo fede e non
riuscendo a immaginare credibile l’esistenza di una deità che ci abbia a cuore
non penso di nutrire una qualche riverenza altrettanto credibile nei confronti
del sacro. Sacri al limite, per me, possono essere alcuni nostri valori (nostri
in quanto creati da noi esseri umani), come la compassione”. Parliamo
dell’anima, ma so che è fare Arlecchino con il fumo. “Ragionerei più in termini
di coscienza”, fa lui, e fiancheggia altre vie, l’arsura del no, “ammetto di non
essere particolarmente attratto o consolato dall’idea che la nostra ‘energetica
coscienza’ confluisca in un gigantesco ricettacolo universale… anche ’sti
cazzi”. Potrebbe essere il motto di una nuova formula teologica.
*
Più che altro, va tenuta sull’ambone questa nostra vita da sfracellati.
Forse “Cristiano Godano”, votato alla musica, obbligato a concelebrare sul
palco, non ha avuto lo spazio per poter essere Cristiano Godano. Da qui gli
occhi: perpetuamente famelici. Felici.
Ogni parola, con le sue botole, i botoli, le trappole, semina disorientamenti.
Poi è il concerto, nel giardino del palazzo vescovile di Vicenza, tra fantesche
gelsomini. Il canto annienta ogni concetto e tutto torna come è, per sempre
primo, rupestre. La vita, allora, è questa immemore caccia di comete felidi,
questa luce tra le mani, i volti come stelle filanti.
Quando mi chiama – Davide, Davide – siamo già all’Ade di noi, in un altro mondo
di ombre.
*In copertina: Cristiano Godano in un ritratto fotografico di Gabriella Vaghini;
nel servizio le fotografie sono di Nicola Zolin
L'articolo “Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp) con Cristiano
Godano, tra Nabokov, Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto il resto proviene
da Pangea.
Tag - Intervista
Se muoiono i poeti/ ma non muore la poesia, come scrive Aldo Palazzeschi
in Congedo, che cosa si può dire oggi della canzone d’autore? Che ne sarà della
canzone d’autore italiana? Quale sarà il suo destino? Cantautori del calibro di
De André, Jannacci, Gaber, Guccini, Fossati e via dicendo, tra i banchi di
scuola, chi li conosce e riconosce più? La premessa dell’amico e
collega Marcello Bramati nel libro L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere
i cantautori nella letteratura e in classe (con prefazione di Massimo Bubola)
pubblicato da pochi giorni per Mimesis è questa:
> “La canzone d’autore ha giocato un ruolo decisivo nell’espressione di ciò che
> è stato il Novecento, un secolo che ha avuto bisogno di nuovi linguaggi e che
> ha rivoluzionato gli schemi secolari precedenti fino a far emergere nuove
> forme d’arte e nuove parole per raccontare le tragedie immani e il progresso
> esponenziale”, ma “qui sta il punto: la cultura del Novecento non può
> affidarsi alla nicchia di colti appassionati e alla buona volontà individuale,
> perché la trasmissione dei saperi e del patrimonio culturale è un fatto
> sociale e un atto politico che riguarda una generazione intera”.
Insomma, la proposta di Bramati è chiarissima e altrettanto seria: inseriamo i
cantautori nell’ultimo miglio della letteratura italiana. Si intervenga anche
sulle famigerate Indicazioni ministeriali, ferme all’altro ieri, ovvero il
2010:
> “è necessario dare maggiore luce al Novecento, specie al quarto periodo,
> quello in cui hanno scritto poeti straordinari come Mario Luzi, ancora
> esclusi de facto dallo studio scolastico, e tutti i cantautori”.
Basta una lezione di prova per capire fino a che punto il cantautorato sia
sull’orlo dell’oblio: provare per credere. La tesi è suggestiva e importante e
ha un suo appello:
> “provare a portare la musica cantautorale a scuola in modo tale che rientri
> nell’istruzione dei cittadini di domani e risulti un’azione di tasso culturale
> elevato e non un alleggerimento, un’ora di ricreazione, una bizza di un
> docente appassionato che si concede il lusso di buttare via un’ora per qualche
> canzone”.
L’amore per la letteratura lo richiede, il docente è chiamato a lasciarne il
segno: “La letteratura lascia traccia del suo passaggio nell’anima,
nell’immaginazione, nel linguaggio e nel lessico di chi la incontra”. Perché non
potrebbe essere così con una canzone “d’autore”? Del resto – ci ricorda il
cantautore Massimo Bubola nella bellissima Prefazione dal taglio storico poetico
– la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che “si sono sempre date la
mano”.
L’interrogativo non è nuovo, già Montale nel discorso pronunciato per la
consegna del Premio Nobel per la letteratura – correva il dicembre 1975, mezzo
secolo fa – denunciava:
> “uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla
> quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi”.
Era lo stesso Eugenio Montale che, in un articolo sul “Corriere della Sera”, il
21 giugno 1964, a proposito dei “poeti moderni” raccontava che questi scrivevano
“seguendo un metronomo interiore”. Ora, al di là della annosa questione della
clamorosa assenza della musica e della storia della musica come materia alle
superiori nel nostro paese, si pone un’ulteriore questione: i cantautori
italiani sono poeti? Bramati riconosce che si tratta di “una tesi tutta da
dimostrare e che conta diversi acerrimi nemici”. Tutti ricordiamo quando,
suscitando un vespaio di polemiche, nel 2016, il Nobel per la letteratura venne
assegnato a Bob Dylan. Tra gli altri anche Alessandro Baricco fu molto critico,
invitando a non confondere letteratura e canzone. Sciogliamo un po’ di nodi con
l’autore.
Marcello Bramati, da dove cominciamo? C’è il “canone dei cantautori italiani”
pubblicato recentemente da Paolo Talanca (Carabba editore) che indica un
sentiero, ma come facciamo a forzare la mano e a far entrare in classe i
cantautori?
“Mi dispiace che si usi questa metafora, perché portare i cantautori in classe è
compiere un atto di giustizia. Ciononostante, è proprio così, perché le
indicazioni per i programmi della scuola superiore non ne fanno cenno, le
antologie inseriscono qualche inserto di quelli che non si fila nessuno, a parte
l’appassionato di turno. Di conseguenza, se si vuole portare la canzone d’autore
in classe, serve operare un’incisione nel programma e prevedere un fuoripista,
un’uscita consapevole dal tracciato ufficiale. Eppure, come diceva De
Gregori, la storia siamo noi, nessuno si senta escluso, e quella storia, che
passa anche dalle note e dalle parole dei nostri cantautori, deve poter trovare
posto tra i banchi. Serve coraggio e non basta la passione, servono una visione
educativa più ampia e la volontà di dire: questa non è un’ora persa, è un’ora
ritrovata. Il cantautorato è letteratura vissuta, poesia popolare se volessimo
cogliere la curvatura di alcune ballate sia per linguistica – si pensi ad alcune
scelte semantiche di De Gregori o al dialetto di De André – che per il sociale –
in questo caso, il pensiero vada subito Jannacci e a Gaber, fino alla Canzone
popolare di Ivano Fossati, manifesto di un modo di far canzone d’autore. Ma la
canzone d’autore è ancora di più, molto di più: il labor limae sui suoni e sulla
parola carica di significato ne fa un prodotto letterario, quindi pur dovendo
forzare la mano per portarla in aula, non si forza la serratura della
letteratura nell’inserirla nel suo alveo, anzi si colma una lacuna”.
Non sarebbe più facile pensare alla musica come una materia alle scuole
superiori?
“Sarebbe naturale. Perché la musica è un linguaggio che pervade la vita
ordinaria, è passione, passatempo, svago, studio per i pensieri oggi dei ragazzi
sui banchi e sempre in quelli dell’essere umano. ‘Anche se voi vi credete
assolti, siete lo stesso coinvolti’, cantava De André. Escludere
sistematicamente la musica dagli studi superiori è una responsabilità che porta
alla mercificazione e allo svilimento: la musica non è ricreazione, è
riflessione. Non è solo ritmo, è senso. Una materia musicale seria alle
superiori colmerebbe un vuoto antico. E magari lì, tra un rigo e l’altro, ci
sarebbe spazio per Bob Dylan e per Brunori Sas, che con ironia e dolore
canta ‘per chi non ha voglia d’abbaiare o di ringhiare/ canzoni tanto per
cantare’ che facciano dire: Ma guarda, lo potevo scrivere anche io – e invece
no, non potevi. E questo è il potere dell’arte, renderci umani e renderci
pensanti, ed è qui che sta la responsabilità della scuola, che insegni il bello
e il discernimento tra il bello-artistico e ciò che così arte non è”.
Come mai non c’è mai spazio per le cantautrici?
“Perché spesso si guarda solo dove la luce è già accesa, e negli ultimi
sessant’anni – questo è l’arco temporale della canzone d’autore italiana – nella
musica e ovunque gli uomini hanno avuto più possibilità delle donne, quindi
hanno spiccato. Ma la verità è che le cantautrici ci sono, eccome. E brillano.
Una breve galleria di autrici – e voci – straordinarie potrebbe includere Grazia
Di Michele, che ha raccontato l’identità femminile con un’intensità rara, Teresa
De Sio, voce del sud e della resistenza culturale, Nada, irregolare e viscerale,
Cristina Donà, delicata e potente insieme, Giovanna Marini, storica e voce delle
lotte sociali. C’è poi una nuova generazione che probabilmente ha maggiori
possibilità e, con la distanza storica necessaria, potrà essere valutata con la
lente dell’arte della parola in musica: in questo caso il pensiero va a Levante,
che canta l’inquietudine dell’oggi con parole da romanzo, e poi a Carmen
Consoli, con la sua prosa affilata e lirica insieme. Nella mia disamina
individuo quattro autori da inserire nel programma di letteratura – almeno uno,
a scelta – tra De André, Guccini, Battiato e De Gregori, ma a questi possono
affiancarsi molti inserti personali e prove individuali. Cito Bubola, autore
della prefazione, Niccolò Fabi, penso a Samuele Bersani, e così alle cantautrici
appena citate. La letteratura non è solo Dante, Leopardi e Manzoni, ma c’è posto
anche per Gozzano e Deledda: lo stesso vale per la canzone d’autore. In questo
spazio, ben venga l’inserimento di autrici e autori, in piena parità di valori e
dignità. Tutte loro meritano lo stesso palco, la stessa cattedra, la stessa
dignità. Come diceva De André, ‘si sa che la gente dà buoni consigli, se non può
più dare cattivo esempio’. È ora di dare spazio, di ascoltare davvero”.
A scuola, i tuoi studenti come reagiscono alle lezioni sui cantautori italiani?
“Nel corso dei cinque anni di superiori, ho sempre inserito la musica d’autore
in punta di piedi: una citazione, un rimando, un esercizio, un ascolto per casa,
un lavoro su un brano stampato – e magari non ascoltato – sempre inserendo in un
discorso più ampio l’opera in questione. Un esempio è La storia di De Gregori,
proposta in prima insieme ad alcuni testi tratti da Erodoto, Tucidide, Manzoni.
C’è sempre stato interesse, come accade quando una lezione decolla e diventa
interessante: qualcuno ha ricordato di avere in casa questo o quell’album (come
avviene per i libri), qualcuno di conoscere un nome, un titolo, una melodia, una
storia. Proprio come avviene con tutto il materiale buono che si porta in
classe, senza dare alla canzone un potere di affascinare più potente di
altro. Solo in quinta presento interamente l’autore De Gregori e, a quel punto,
giocando a carte scoperte, vengono garantiti ascolto e interesse ben sapendo di
essere in un sentiero inesplorato ma che riserva pietre preziose scintillanti.
Penso a Mondo politico, traduzione della dylaniana Political World, un esercizio
di traduzione e interpretazione che si fa scuola di pensiero e di lingua”.
È ancora possibile la poesia?
“Sì. Perché la poesia, come diceva Montale nel suo discorso per il Nobel, ‘è
ancora un atto di fede nella parola, anche quando la parola è consapevole del
proprio fallimento’. In un mondo che vende tutto, anche l’inutile, la poesia
resta un gesto di resistenza. È un seme che non sempre attecchisce, ma che va
lanciato lo stesso. Perché ‘dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i
fior’, cantava De André. La poesia è linguaggio carico al massimo grado di
significato, è un patto generazionale che assegna al fruitore quella dignità di
cui gli studenti hanno bisogno, è esercizio di sintesi, di ricerca e di
attenzione così raro e così necessario. Ecco, è ancora possibile perché è ancora
necessaria. Anche se spesso non si chiama più col suo nome e molto, che poesia
non è, viene contrabbandato per esserlo”.
Ha ancora senso insegnarla a scuola?
“Ha più senso che mai. In un tempo che corre veloce, che urla e dimentica,
insegnare poesia è un atto controcorrente. È dire: fermiamoci. Guardiamo.
Sentiamo. Andiamo in profondità. Cogliamo la sfumatura. Cerchiamo il silenzio.
Insegnare poesia è insegnare compassione, meraviglia, dubbio. Ci sono poesie che
sono come un grido (Dante definisce proprio così la sua Commedia in Paradiso
XVII), ci sono canzoni che sono ‘come sberle in faccia per costringerti a
pensare’ (come canta Brunori): insegnare poesia significa dare strumenti per
vivere meglio e sentire di più. E se una cosa bella non è più ordinaria, tocca
alla scuola trasmetterla per garantire spazio, risonanza, vita. Questo è il
compito più nobile della scuola. Non l’unico, non il più pratico, ma certamente
il più alto. Dalla cetra di Omero alla chitarra dei cantautori, il passo non è
poi così lungo: entrambi hanno intonato storie che attraversano i secoli,
entrambi hanno usato la musica per dare forma alla memoria, alla sofferenza,
all’epica quotidiana dell’umanità. Omero cantava di eroi e dei, ma lo faceva con
il ritmo della voce e del respiro, affidando alla musica la sua poesia, la sua
forza, la sua durata. È in quella scia che si muove ancora oggi la canzone
d’autore. Massimo Bubola, nella sua visione limpida e poetica, ci ricorda nella
prefazione al mio libro che
> “la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che si sono sempre date la mano
> come due muse, due sorelle che si tengono per mano e scendono nel mondo per
> avvolgerlo di bellezza, per cantarlo e consolarlo”.
In questa immagine c’è tutto: la continuità tra le parole dei classici e le voci
dei cantautori, tra il verso epico e la ballata, tra l’Iliade e La guerra di
Piero. Letteratura e musica, dunque, non sono mondi separati, ma fili
intrecciati nello stesso tessuto dell’anima. La scuola, la cultura, noi tutti
abbiamo il compito di custodire questo tessuto. Perché se è vero che i poeti
possono morire, come scriveva Palazzeschi, è altrettanto vero che la poesia – in
ogni sua forma, anche quella cantata – resta. E resta per cantare ancora”.
Linda Terziroli
L'articolo Tra l’Iliade e De André. Portiamo i cantautori a scuola. Dialogo con
Marcello Bramati proviene da Pangea.