Nel 1988 Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi pubblicarono, per Marietti,
un’antologia di Scrittrici mistiche italiane. Il libro, straordinario, finito
fuori dai radar editoriali da tempo –nello schema generale, è riproposto
in Mistiche, Magog, 2025, a cura di Alessandro Deho’ –, testimonia una sorta di
contro canone della nostra letteratura. Le “mistiche” contemplate da Pozzi e
Leonardi – non tutte contemplative, dacché si contempla, come scriveva Cristina
Campo, “preparando torte, lavando le stoviglie, prendendosi cura degli altri”;
dalle notissime, Angela da Foligno, Caterina da Siena, Veronica Giuliani, alle
purissime ignote, Osanna Andreasi, Maria Celeste Crostarosa, Angela Gavazzi
– sono state spesso vessate, marginalizzate, processate. Del cristianesimo,
propongono la via eccezionale, degli eccessi; la via oscura.
Tra queste, alcune sono state madri e mogli, altre prostitute (Caterina
Vannini); Carlo Emilio Gadda preferiva Maria Gaetana Agnesi, “matematichessa e
filosofa”, donna d’alto ingegno – insegnò matematica all’Università di Bologna,
nel 1750 – che si diede alle opere di carità e alla teologia senza appartenenza
ad alcun ordine. Di queste donne, scrittrici per estro e per necessità, sono
proprie l’ossimoro e la tautologia, “figure linguistiche di frontiera”, che
sfidano “l’ineffabile”. Ossimoriche e tautologiche, piuttosto, sono le “Otto
mistiche laiche del Novecento” riferite da Lucetta Scaraffia in Dio non è
così (Bompiani, 2025), donne “di frontiera”, “ineffabili”, protagoniste di un
> “tipo di esperienza mistica di natura spontanea, oserei dire selvaggia… non
> nella gabbia di schemi consolidati e accettati, ma con una libertà nuova”
> (Scaraffia).
Donne di rottura, donne dirompenti.
Alle biografie più attese – Simone Weil, Chiara Lubich, Romana Guarnieri –,
redatte con mano partecipe, a tratti impetuosa, seguono profili spiazzanti:
quello di Banine, ad esempio, l’audace scrittrice di origine azera che
scandalizzò i salotti di Parigi, amante-amica di Henry de Montherlant e di André
Malraux, baccante supplice di Ernst Jünger (si legga: Banine, Incontri con Ernst
Jünger, De Piante-Terra Insubre, 2021), che nel folgorante diario, Ho scelto
l’oppio (Massimo, 1965; riprodotto in parte dalle edizioni Magog, 2022),
racconta la catabasi nella conversione (fino al desiderio di sedurre il proprio
confessore). Il libro è aperto dal profilo di Catherine Pozzi, poetessa di
vitrea sapienza, amata da Paul Valéry – che, in sostanza, non la capì –, amica
di Rilke, pari, per vertigine, secondo Michel de Certeau, alla grande mistica
Hadewijch. “Essere donne, essere in un certo senso sempre irregolari, dà a tutte
una ampiezza di vedute che la porta a scelte innovative”, scrive la Scaraffia:
l’abbiamo contattata. Non credo sia un caso la citazione, in esergo, di
Benedetto XVI: “Querere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui”. Era il
settembre del 2008, il santo padre parlava a Parigi, al Collège des Bernardins.
> “Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come
> non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della
> ragione”.
Disse questo, tra l’altro.
Circoscriviamo il termine. Cosa intende per “mistica”?
Per mistica intendo passione per l’assoluto, ricerca di raggiungere un contatto
personale con l’assoluto.
Quando parla di mistica “selvaggia” mi ricorda Paul Claudel che aveva coniato, a
proposito di Rimbaud, la formula “mistico allo stato selvaggio”. Come dobbiamo
dunque intendere la mistica “femminile”?
Mistica selvaggia perché è esperienza vissuta al di fuori dei codici imposti
dalla religione, che ha cercato di controllare l’esperienza mistica e di
certificarla distinguendola in buona e cattiva, cioè demoniaca. Queste otto
donne non erano alla ricerca di una codificazione da parte religiosa
istituzionale, sia perché non erano religiose professe sia perché se lo potevano
permettere: nel ’900 non correvano più il pericolo di venire punite come
eretiche. Una libertà dalla religione istituzionale che si configura anche come
libertà dal controllo maschile. Per questo penso che fossero tutte, più o meno
consapevolmente, femministe: del resto lo prova la loro vita.
Proseguendo e variando la domanda precedente: la mistica esprime il proprio
misticismo attraverso il linguaggio, oppure nell’agire nel tempo? Insomma, qual
è il carisma del misticismo?
Esistono diversi tipi di misticismo, anche se quello più noto è quello
certificato dal linguaggio, cioè dal racconto diretto delle esperienze mistiche.
Queste donne, quasi tutte fini intellettuali, hanno raccontato la loro
esperienza per scritto, in modi diversi fra di loro, e con modalità diverse da
quelle tradizionalmente attribuite alla narrazione dell’esperienza mistica.
Proprio per questo svolge un ruolo importante anche la loro vita che, in tutti i
casi, dimostra la possibilità di sperimentare un rapporto intenso con l’assoluto
all’interno di vite normali, segnate da una professione, spesso una famiglia e
comunque anche rapporti intensi e perfino trasgressivi con uomini. In questo si
misura tutta la loro libertà.
Lei è Lucetta Scaraffia
Mistica, di solito, si lega a un pensare e a un vivere eterodosso. È davvero
così? Perché?
In realtà, nella storia del cristianesimo, mistica si lega a una vita super
ortodossa, rinchiusa al mondo, dedicata a una ascesi totale. Il controllo
esercitato sulle mistiche imponeva loro di provare la verità del rapporto con il
divino attraverso una vita di rinunce. Lo stile di vita eterodosso, legato a
una mistica che possiamo definire “selvaggia”, nasce dalla particolare posizione
morale in cui si trova a vivere chi sperimenta queste esperienze, al di sopra
del bene e del male.
Le mistiche sono un punto permanente di contraddizione. La loro, mi pare, è la
purezza nell’impurità. In questo, sono autenticamente ‘cristiane’. Mi sbaglio?
Eppure, come penetra il ‘religioso’, la danza dell’invisibile, nella biografia
delle donne di cui scrive?
Certo le loro biografie sono ricche di contraddizioni. Il religioso penetra come
ricerca di qualcosa di più, di un amore assoluto del quale provano una sete
inesauribile, quasi dolorosa.
La mistica e la Storia. Come si colloca l’esperienza, singolarissima, delle
‘sue’ donne nelle temperie del secolo, del mondo, del mondano?
Le mie donne sono completamente immerse nel mondano, nella storia del loro
tempo, fino alla fine. L’esperienza mistica non le pone fuori dal mondo, ma
suggerisce loro una lettura diversa del mondo in cui vivono e in cui continuano
a vivere. Una lettura che comunicano agli altri, attraverso poesie, diari,
saggi, lettere, assolutamente originali.
Quale, tra le figure che ha scelto, l’ha sorpresa per l’audacia, per la
‘sconvenienza’?
Direi Banine, la musulmana atea che nei suoi libri autobiografici racconta con
ironia di avere fatto quello che noi oggi chiamiamo la escort, che non rinnega
niente della sua vita avventurosa e difficile, e che sa far crescere la sua sete
di conoscenza intellettuale in sete di conoscenza mistica e raccontarla.
Mi pare, a bracciate, che la mistica italiana più mistica di tutte, per
anomalia, sia Cristina Campo. Lei non l’ha rubricata, non l’ha detta. Come mai?
Certo che ho letto Cristina Campo, che amo moltissimo. Ma più che una mistica mi
è sembrata una cacciatrice di misticismo, che sa riconoscere a raccontare, e
soprattutto far scoprire e amare. Ma non mi è mai sembrata una mistica lei
stessa, se pure una donna di straordinaria sensibilità.
Ho anche trascurato Etty Hillesum, che certo era una mistica della stessa
famiglia delle mie otto mistiche, ma sulla quale si è già detto e scritto tanto.
Ugualmente non ho inserito Maria Zambrano, che considero mistica, perché non
sono riuscita a trovare documentazione esauriente sulla sua vita.
Le chiedo un giudizio sul pontificato di Francesco. Che ruolo hanno avuto le
‘mistiche’, diciamo così, nel suo governo?
Papa Francesco non è mai stato interessato alle parole delle donne, neppure se
mistiche.
Spero che questo papa sia equilibrato e prudente, che ristabilisca pace e
armonia in una chiesa lacerata. Non ho speranze per il ruolo delle donne: nessun
gruppo di potere ha mai ceduto il suo potere spontaneamente. Solo le religiose
possono combattere e ottenere dei risultati veramente significativi, cosa che
fino ad ora non è avvenuta.
*In copertina: una immagine da “Persona”, film di Ingmar Bergman del 1966
L'articolo “Passione per l’assoluto”. Mistiche, cioè: donne allo stato
selvaggio. Dialogo con Lucetta Scaraffia proviene da Pangea.
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Di solito, indossa ampi cappelli: il sigaro e la camicia larga conferiscono al
profilo un ardore à la Indiana Jones; l’entusiasmo, a vertigine, un certo
titanismo negli occhi, lo rendono, piuttosto, un soggetto degno di Friedrich, il
protagonista di un romanzo inglese dei primi del Novecento, di ampi porti in
luoghi esotici, arricchito da esoterici vagabondi. Di solito, alle spalle
di Guido Mina di Sospiro appaiono paesaggi suggestivi: liane amazzoniche, templi
minoici, canyon. Nato in Argentina da famiglia di alto lignaggio, studi a
Milano, vita negli Stati Uniti, una volta mi ha scritto dal Giappone – o dalla
Patagonia, non ricordo. Ha una casa a Todi, a cui approda, di tanto in tanto. Ha
praticato come musicista – tra l’altro, con l’ungherese Miklós Rózsa, tre volte
Oscar “alla migliore colonna sonora” – e come cineasta – Heroes and Villains,
cercatelo in rete, è stato realizzato con un gruppo di amici nel 1978 –; ha
scritto tanto. La sua vita furibonda nella California degli anni Ottanta rimanda
ai romanzi di Bret Easton Ellis: Guido non lo ha letto, e con rabbiosa
schiettezza mi dice di preferire Borges. Lo vedrei bene come allevatore di
centauri.
Guido Mina di Sospiro, uomo in direzione contraria all’editoria dominante, ha
scritto tanto, è stato tradotto ovunque. Il suo libro di maggior successo,
forse, è The Metaphysics Of Ping-Pong: uscito nel 2013 nel mondo inglese, è
stato recepito da Ponte alle Grazie tre anni dopo; lo stesso editore, nel 2017,
ha pubblicato Sottovento e sopravvento, una specie di “romanzo filosofico
d’azione” (così Maurizio Ferraris), che sovverte il candore del ‘genere’. Da
allora – Rizzoli, tra 2002 e 2003, ha pubblicato L’albero e Il fiume –
dell’autore, in Italia, si sono perse le tracce. Incessante è tuttavia la sua
attività letteraria negli altri mondi; scrive, tra l’altro, sulla “New English
Review”.
Quest’anno le reticenze – Mina di Sospiro è ostile al mainstream narrativo che
va per la maggiore – si sono dissigillate: Bietti ha tradotto Il libro proibito,
un noir teosofico scritto dall’autore insieme Joscelyn Godwin, studioso di
occultismo, esoterista, autore, tra l’altro, di testi su Robert Fludd, Fabre
d’Olivet, René Guenon e Julius Evola. Quest’anno, Lindau ha invece
pubblicato Terrore e musica, libro in cui, in sostanza, Mina di Sospiro parla
della sua Milano dilaniata dagli Anni di Piombo, tra i Talking Heads (in
appendice, l’autore impila una “lista di compositori, composizioni, musicisti,
gruppi, brani e dischi a cui si fa riferimento nel testo”, tutta da ascoltare) e
le Brigate Rosse. “Questo libro tratta della città in cui sono cresciuto,
Milano, nella quale rischiavo la vita quotidianamente pur senza mai volerlo. Né
intendevo, in quel luogo e in quel periodo… intorno a me tutto era diventato
improvvisamente così strano, era come se io vivessi in un altro mondo, da
straniero nella propria città”, confessa l’autore. L’attacco del libro parte in
contropiede – con David Byrne in sottofondo:
> “È la settimana di orientamento per le matricole straniere alla University of
> Southern California, o USC, a Los Angeles, verso la fine di agosto del 1980.
> Mi viene assegnata una stanza in un dormitorio da condividere con un compagno
> di studi internazionale, un palestinese di centocinquanta chili il cui padre è
> «non potente come il presidente Carter,ma quasi». Più tardi, lo stesso giorno,
> aggiunge che come membro dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della
> Palestina, «ho ucciso tre ebrei». Oddio, penso, il mio compagno di stanza è un
> assassino!”.
Stenio Solinas, che ha scritto di Terrore e musica su “il Giornale”, sintetizza
il ‘clima’ dell’epoca con parole statuarie: “La gran parte dei rivoluzionari
ventenni dell’epoca, dieci anni dopo li avresti ritrovati nei giornali borghesi
che avrebbero voluto bruciare, nelle aziende paterne che avrebbero voluto
bruciare, nelle multinazionali, negli uffici pubblici, dietro quelle cattedre
scolastiche e universitarie che avrebbero voluto bruciare. Tutti
pompieri”. Detto tutto.
Quanto a me, di Guido Mina di Sospiro piace il moto sciamanico, l’ansia del
viaggiatore, il suo essere estraneo – anzi, australe – al mondano. Così, l’ho
cercato. Pare che questa intervista si sia svolta tra Todi e Villa O’Higgins, in
Cile; ma forse è sempre un altro mondo quello a cui tendiamo.
Lui è Guido Mina di Sospiro
Parto da “Terrore e musica”, che è poi un libro autobiografico. A un certo punto
parli del mitico Miklós Rózsa. Ecco, che ruolo ha avuto la musica nella tua
scrittura, nella tua vita?
Un ruolo enorme che ora, però, non c’è più (surfeit). Miklós Rózsa fu uno dei
miei mentori. Quando ero diciassettenne e lui settantenne avevo la beata
incoscienza di mostrargli le mie composizioni, che fra l’altro non gli
dispiacevano. Discutevamo di musica e musicisti, armonia e composizione per ore.
Mi cambiò la vita: fu lui stesso a dirmi della University of Southern
California, dove aveva insegnato composizione succedendo a Schönberg, che era
andato alla UCLA, e dove c’era una famosa scuola di cinematografia. Fu così che
scelsi di lasciare l’Italia incasinatissima e insanguinatissima di allora e, nel
1980, cominciare a frequentare la USC (non fu affatto facile, con esami di
ammissione e complicazioni a non finire, ma ci riuscii).
Nel libro esprimi il tuo giudizio sugli “Anni di Piombo”. Riassumilo per chi ci
legge.
La vulgata che ci è tanto assiduamente propinata, e cioè che la eversione era
per metà di estrema destra e per metà di estrema sinistra, non corrisponde alla
realtà. Ma mi fermo qui. Preferirei che il lettore, leggendo il mio libro che va
dal 1974 al 1980, si rendesse conto, anno per anno, mese per mese, settimana per
settimana, di che cos’erano le grandi città italiane di allora, specialmente
Milano, in cui vivevo.
Non mi pare che parli del “terrorismo nero”. Come mai?
Ne parlo, invece, mettendo nel loro contesto le “stragi di stato” e la
“strategia della tensione”, inizialmente ispirate da gruppi eversivi quali
Ordine Nuovo, ma in seguito adottate da stay-away-governments, dall’Operazione
Gladius, dalla CIA, dalla Masad, dai vari servizi segreti italiani (spesso in
conflitto fra loro), dalla P2, e così via. Ma nelle strade la sopraffazione e le
intimidazioni, la violenza cronica, quotidiana e sempre in crescendo, erano
rosse. Le Brigate Rosse, solo per limitarmi a loro, hanno compiuto 14.000 atti
di violenza nei primi dieci anni di attività, dal 1970 al 1980, quasi 4 al
giorno. Nessuna organizzazione clandestina di estrema destra si avvicina nemmeno
lontanamente a tale media da mattanza.
Come nasce “Il libro proibito” e qual è il suo nucleo incandescente, il cuore
esoterico? Insomma, come dobbiamo leggerlo?
Anni fa c’era la moda del romanzo cosiddetto “esoterico”, che in certi casi
diventava molto essoterico, con vendite di milioni di copie. Joscelyn Godwin –
una delle menti più geniali al mondo, autore, traduttore ed editor di oltre
quaranta libri – ed io pensammo che, come scherzo o jocus severus, avremmo
potuto scrivere un romanzo veramente esoterico. Nel senso che quelli in voga
allora partivano invariabilmente da un mistero “magico” che però poi veniva
risolto dal solito ispettore con i soliti mezzi razionali. Noi invece, avendo la
formazione esoterica necessaria, che nessuno di tali scrittori ha, ci
ripromettemmo di partire da un mistero magico e risolverlo… con la magia, nel
mentre prendendo in giro il classico ispettore. L’approccio ha funzionato: a
oggi, oltre all’originale inglese, sono state pubblicate dieci edizioni
straniere.
Le ideologie saranno pure defunte, non certo le idee di mondo: qual è la tua?
Intendo: che senso ha vivere, cosa c’è dopo questa vita?
Dovresti darmi un milione di euro per ciascuna risposta, ammesso che io le
azzecchi. Cominciamo dallo stato di cose di questo mondo occidentale
despiritualizzato: oltre un secolo fa Wittgenstein ha dichiarato senza ombra di
dubbio che la metafisica era morta, e da allora la filosofia s’è tramutata in
sofismi. Pertanto se un povero cristo in buona fede si pone domande quali le due
che mi hai posto tu, non troverà risposta nella filosofia dell’ultimo secolo,
che si è persa in stupidaggini, Sprachspiele e logorrea. Se per “idea di mondo”
intendi, come credo, Weltanschauung, la mia si rifà all’opera di Alfred North
Whitehead, il quale, mentre Wittgenstein e poi la Scuola di Vienna davano per
morta e sepolta la metafisica, scrisse uno dei libri di metafisica più
importanti di sempre: Process and Reality. A mio avviso, l’unica ragione per cui
la riflessione metafisica rimane necessaria, forse più che mai, è che la nostra
coscienza moderna ha perso contatto con la propria esistenza cosmica e quindi
necessita di una giustificazione intellettuale. Prima che Omero mettesse la
penna sulla pergamena e parodiasse gli dei, l’anima umana non sperimentava
alcuna separazione tra il Logos del mondo (significato) e la sua esistenza
(fattualità), e quindi non aveva bisogno di credenze religiose. La divinità
viveva e respirava in mezzo alle creature della terra e del cielo. Lo shintoismo
dice lo stesso, incidentalmente.
La cosmologia panteistica di Whitehead intende correggere la tradizionale
visione religiosa di Dio come sovrano e onnipotente. La sua cosmologia dotata di
un’anima intende correggere la visione filosofica moderna secondo cui l’uomo è
separabile dalla natura, o la mente separabile dalla materia. Il potere, per
Whitehead, diventa persuasivo poiché estetico, piuttosto che coercitivo poiché
meccanico. Dio non arriva dall’aldilà per progettare il mondo a suo piacimento,
né lo fa la coscienza umana. Per Whitehead la “concrescenza” è il nome del
processo in cui “l’universo delle molte cose acquisisce un’unità individuale in
una determinata relegazione di ogni elemento dei molti alla sua subordinazione
nella costituzione del nuovo ‘uno’”. La concrescenza, in altre parole, è
semplicemente il processo di diventare “concreto”, nel senso di pienamente
attuale come occasione reale compiuta. La concrescenza è l’atto del divenire di
entità reali. Dal latino “concrescere”, crescere insieme, è l’atto produttivo,
l’atto del divenire di un atto produttivo, l’atto del divenire di un essere che
è l’insieme. Nella concrescenza, il nuovo essere passa dai suoi componenti nella
loro diversità disgiuntiva ideale agli stessi componenti nella loro
realizzazione. La metafisica di Whitehead, nota anche come filosofia del
processo, definisce la realtà come una rete dinamica di eventi interconnessi o
“occasioni reali” (actual occasions) piuttosto che di sostanze statiche. Mette
in risalto il divenire rispetto all’essere, il cambiamento e il processo
rispetto alla permanenza e le relazioni rispetto alle entità isolate; capovolge
il mito della caverna di Platone. Questa visione considera tutta l’esperienza,
compresa la realtà soggettiva e oggettiva, come unificata all’interno di un
unico cosmo interconnesso.
Chi di voi cercasse di leggere Whitehead senza capirci nulla si troverebbe in
buona compagnia e sarebbe sulla via maestra: l’universo, infatti, non è un
manuale d’istruzioni.
Mi domandi inoltre: cosa c’è dopo questa vita? Ho letto e studiato innumerevoli
testi esoterici di tante tradizioni molto distanti tra loro nello spazio e nel
tempo, e ne ho discusso con tanti pensatori, nessuno dei quali appartiene alla
mainstream. In nuce: oltre cinquant’anni fa David Conway, un magus gallese,
diede alle stampe Magic: An Occult Primer. Maxine Sanders ne scrive come segue:
“Al giorno d’oggi ci sono innumerevoli libri sulla magia. Questo è diverso.
Diverso come quando è apparso per la prima volta nel 1972. Ciò che lo rende
diverso è che spiega al lettore – esperto o principiante, scettico o credente –
che cos’è la Magia, perché la Magia funziona e, soprattutto, come si può
lavorare con la Magia. Pochi libri fanno tutte e tre le cose, certamente non con
tanto stile, erudizione e umorismo.” L’ultimo capitolo s’intitola: Death and the
Meaning of Life (La morte e il significato della vita), e spiega
dettagliatamente che cosa succede all’anima quando si stacca dal corpo che l’ha
ospitata. Confesso di avere smesso di leggere tale capitolo verso la fine perché
mi sembrava fin troppo veritiero, e a me non va che le cose finiscano in quel
modo. Inoltre, esorto i lettori che leggessero Magic: An Occult Primer a NON
cimentarsi nelle arti magiche; non conosco nessun magus che, praticandole, non
abbia subito contraccolpi o ripercussioni, anche molto pesanti, cioè la propria
morte, o quella di un caro. Leggere, sì, e con deferenza; praticare, altamente
sconsigliato.
Che cosa tiene insieme il tuo interesse per i manoscritti alchemici, la musica
colta, il cinema, il “clima” degli anni Settanta italiani?
Sono patologicamente curioso, non mi fido affatto del canone e delle vulgate che
ci propinano e sono allergico al pensiero mainstream. La curiosità non è
necessariamente un dono, però, e spesso invidio i nostri gatti, quattro, uno più
contento e pigro dell’altro. E sin da piccino sono stato abituato all’alta
cultura. Casa nostra era frequentata da personaggi di alto livello, direttori
d’orchestra, cantanti lirici, musicisti, scrittori, poeti, pittori, registi e
così via. In campagna da mio nonno apparivano spesso Mario Soldati e Renzo
Pasolini, entrambi intenti a baciare l’anello. Lo ricordo perché, pur piccino,
mi sembravano comicamente ossequianti. Quindi ho sempre avuto accesso al meglio
nel campo delle arti, e non solo. Più tardi la profonda amicizia con Joscelyn
Godwin (con il quale ho scritto due romanzi), Rupert Sheldrake, Christopher
Sinclair-Stevenson, Gillian Prance e diversi altri pensatori inglesi mi ha
ulteriormente ampliato gli orizzonti.
Negli ultimi vent’anni ho (ri)scoperto la letteratura spagnola e
ispano-americana e leggo principalmente in quella lingua. Gli anni Settanta in
Italia erano sconvolgentemente violenti, ma qua e là, soprattutto nella musica,
anche molto creativi. Secondo Andrea Kerbaker, con il quale fondai il
giornalino La nuova scapigliatura milanese al liceo Leonardo a Milano mi sembra
nel 1977, fra la violenza e la creatività di quegli anni c’è un nesso; io, non
saprei.
Perché non ci siamo riconciliati con gli “Anni di Piombo”? Perché in Italia
parliamo ancora di “fascismo” e di “resistenza” in toni che provocano divisione
più che comprensione?
Perché, e te lo dico con candore, gli Anni di Piombo sono stati il terzo
tentativo nel XX secolo in Italia di imporre il comunismo con la lotta armata:
dopo il Bienno Rosso del 1919-20; dopo la Resistenza, che resistenza non era
bensì guerra civile, del 1943-49 (vedi gli scritti di Claudio Pavone); infine
gli Anni di Piombo. È sempre la stessa matrice. Ad esempio, le P38 che nel 1975
apparvero d’improvviso nelle mani dei militanti di ultra sinistra (“Poliziotto
fai fagotto/ è arrivata la P38!”) altro non erano che le Walther P38, le pistole
d’ordinanza dell’esercito tedesco, sottratte e nascoste dai partigiani che,
trent’anni dopo, le consegnavano ai figli con l’esortazione di “finire la guerra
contro il fascismo”. Ma il fascismo era morto e sepolto, non c’era più, e i
neofascisti erano un po’ come i tartari nel romanzo di Buzzati (che scrisse
nell’Africa Orientale, dov’era amico di mio padre: ne discutevano di sera). Ce
n’erano davvero pochi (alcuni dei quali mortiferi), e quei pochi non si facevano
certo vedere. Essendo la storiografia in Italia saldamente nelle mani della
sinistra, la vera storia del ventesimo secolo non è mai stata raccontata, né
tanto meno assimilata.
Cosa sono stati per te – cosa sono – gli Stati Uniti?
Meriterebbe una risposta fiume, essendoci approdato nel 1980. In nuce, negli
States ho fatto cinema, suonato in un gruppo, trovato moglie alla fine del
Sunset Boulevard in un contesto squisitamente romanzesco, mi sono laureato, ho
fatto il corrispondente per riviste europee di musica e cinema come membro della
Hollywood Foreign Press, fatto figli e messo su famiglia, vissuto in California,
Florida, Virginia, Maryland, conosciuto tutti e più di tutti e fatto amicizia
con grandi menti, scritto libri, libri e poi ancora libri, girato in lungo e in
largo, fatto e perso amici. Una vita. Gli USA mi sono sempre piaciuti per il
loro pragmatismo yankee; ora non li riconosco più perché quasi metà della
popolazione si è lasciata sedurre e indottrinare da un marxismo/globalismo
postmoderno che può portare solo alla fine dell’impero, e che, a parte essere
distruttivo, è, come gli si conviene, riduttivo, roba da duri di comprendonio,
vedi la suprema modestia di Marcuse, quindi intellettualmente tutt’altro che
stimolante, anzi, la morte cerebrale. Degli USA a tutt’oggi mi piacciono gli
spazi; sono appassionato di fuoristrada, e spesso vado nel South-West,
soprattutto a Moab, nello Utah, a cimentarmi nel rock-crawling, disciplina che
consiste nel superare a passo d’uomo ostacoli apparentemente insuperabili con lo
sfondo di una natura selvaggia e meravigliosa. In quanto a cultura, con qualche
eccezione (americani old money, MAI accademici, che sono marxisti e banalissimi)
preferisco frequentare pensatori europei o ispano-americani che risiedono in
America. Gli americani tipici sono bravi a inventare marchingegni straordinari e
a fare soldi. Ma a nessuno dei miliardari della tech interessa l’arte. I
Vanderbilt, Morgan, Rockfeller, Carnagie sono stati rimpiazzati dai Gates,
Bezos, Zuckemberg, Musk, ai quali arte e letteratura interessa meno di zero.
C’è poi un altro Paese che ha avuto un’enorme influenza su di me, specialmente
come scrittore: l’Inghilterra. Ma ne parlerò un’altra volta.
Quali sono i tuoi “maestri” di scrittura, i tuoi lari? In “Terrore e musica”, a
tratti, ho visto l’ombra di Bret Easton Ellis… Insomma, cosa ti piace leggere?
Mai letto Bret Easton Ellis. Casomai c’è l’influenza di George MacDonald Fraser
e della sua serie con Flashman come protagonista. Sono diciassette romanzi che
ho letto e riletto, e i primi libri che ho avuto la necessità di duplicare:
i diciassette tomi nelle casa in America, gli stessi diciassette tomi in quella
in Italia. Figurati che quando abbiamo avuto Rupert Sheldrake ospite da noi,
l’ho convinto a leggere Flash for Freedom!
I maestri di scrittura? Le influenze ormai sono infinite, e spesso insolite,
come ti puoi immaginare. Per esempio nei seguenti versi dell’umile canzonettista
Alvaro Carrillo, tratti dalla sua canzone Sabor a mí trovo più (disarmante,
cruda) poesia che nell’opera omnia di Pablo Neruda:
> “No pretendo ser tu dueño
> No soy nada, yo no tengo vanidad
> De mi vida doy lo bueno
> Soy tan pobre, ¿qué otra cosa puedo dar?”
Non frequento più librerie tradizionali da anni, ma spesso quelle che vendono
libri usati, e ce ne sono molte di più nel mondo anglofono. Entri senza sapere
che cosa stai cercando ed esci, quando la cerca va a buon fine, con una o due o
più gemme la cui esistenza ignoravi fino a poco prima. Mi divertono tutti i
libri della Adventure Unlimited Press, capitanata da quel mattoide di David
Hatcher Childress. Ciascuno di voi lettori dovrebbe leggere almeno un libro di
Graham Hancock, il quale fra l’altro ha inventato un nuovo genere: la narrative
non-fiction, che sembra un ossimoro, ma non lo è. Cominciate da Impronte degli
dei. Alla ricerca dell’inizio e della fine. Non posso non citare almeno qualche
autore di lingua spagnola al di là di Cervantes, Lope de Vega, Leopoldo Lugones,
César Vallejo, Xul Solar e Jorge Luis Borges: mi piacciono molto José Javier
Esparza e Pío Moa. Ce ne sono così tanti altri che l’intervista diverrebbe una
lista, il che non è di grande intrattenimento.
E ora… cosa scrivi? Cosa vorresti scrivere?
Ho appena terminato A Drive Down the Carretera Austral in Chilean Patagonia. Ho
guidato, cioè, fra andata, divagazioni e parziale ritorno, per 2600 chilometri,
da Puerto Montt a Villa O’Higgins, tutti esclusivamente in Cile e per la maggior
parte su sterrato. Le Ande bloccano le nuvole che vengono dal Pacifico, cosicché
la Patagonia cilena è una verdissima foresta pluviale temperata, mentre quella
argentina, un deserto. La Carretera Austral è stata costruita per volere di
Pinochet per poter mobilitare l’esercito contro le incursioni argentine, ma è
diventata un viatico per la natura più bella al mondo, fra vulcani, ghiacciai,
foreste zeppe di maestosi alberi a noi sconosciuti, laghi, fiumi, cascate,
fiordi, isole e isolotti. Il libro l’ho scritto di getto; vado a giorni a Londra
a parlarne con il mio agente letterario. Speriamo che per una volta esca entro
breve. Di solito gli editori, spesso duri di comprendonio, ci mettono anni ad
arrivarci…
*In copertina: David Byrne indossa “The Big Suite”; Stop Making Sense esce nel
1984
L'articolo “Sono patologicamente curioso”. Da Gladio alla Patagonia,
dall’occulto ai Talking Heads: dialogo con Guido Mina di Sospiro proviene da
Pangea.
Poi – giorni dopo – sono, per lo più, due occhi verdi, verbosi, per sempre
fanciulli, occhi da bimbo con la cerbottana. Occhi d’erba. Cristiano Godano, per
lo più, è lì, negli occhi: occhi che scalpitano. Occhi con le unghie. Occhi tra
l’altalena e la fame, tra azzurro e azzardo.
Siamo ancora qui, mi dirà, dopo. Beve Red Bull. Ha ordinato una quantità di
piatti. Mangia poco. Sono di una lentezza esasperante, dice. Ride. Poi, ancora.
Siamo ancora qui, dice. Dice dei Marlene Kuntz. Cita i Verdena. Parliamo di
Gianni Maroccolo e di Ferretti, dei CSI e del Consorzio Produttori Indipendenti.
Tenacia nell’occhio destro, malinconia in quello sinistro. Cristiano ha occhi da
Alessandro.
Catartica esce nel 1994 – dovevi essere nella brutale periferia torinese, in
quegli anni anodini, ad ascoltarlo. Cesare Pavese ha intravisto, in un celebre
saggio, il Middle West in Piemonte, ha tentato un gemellaggio tra le Langhe e
l’Ohio, mitica terra narrata da Sherwood Anderson. Sono cresciuto a Orbassano,
gattopardesco ghetto degli operai della Fiat: quel luogo, nei neri e nubiformi
anni Novanta, pareva paragonabile, semmai, agli slums scozzesi di Trainspotting;
pensavo alle brughiere di Emily Brontë, a tratti, per uno slancio di
sentimentalismo esistenziale. Per salvarmi, rubavo Dylan Thomas e Julio Cortázar
nelle librerie di Torino (a Orbassano non esistevano); il mio amico Jonathan
suonava Eric Clapton, Mark Knopfler e Jeff Beck. Ascoltavamo,
annegando, Nuotando nell’aria:
> “Intanto
> l’aria intorno è più nebbia che altro…
> Mi piacerebbe sai, sentirti piangere
> anche una lacrima, per pochi attimi”.
Imperava la droga – Roberto Baggio, imperiale, negli Usa – il podio del Festival
di Sanremo diceva la piagnona disumanità italica: Aleandro Baldi, Giorgio
Faletti, Laura Pausini – in maggio, si insediava il Governo Berlusconi I.
Intorno a Orbassano: chilometri di terre infeconde – il marrone addosso come un
bastone, il marrone in faccia. In fondo, a Sfinge, le montagne, bianche,
inaccesse – cupa mascella di Dio, pari alle nostre montagne interiori.
*
Più tardi suonerà Osja, amore mio, il pezzo dedicato a Osip Mandel’štam, il
grande poeta russo straziato da Stalin, morto di stenti nei Gulag sovietici,
poco dopo il Natale del 1938. La canzone trae spunto dall’ultima, memorabile
lettera di Nadežda al marito – una lettera rimasticata dagli spettri, che Osip
non leggerà mai. Osja, amore mio esce nel 2013, l’album dei Marlene Kuntz
s’intitola Nella tua luce. “Se mi senti dimmi dove sei…”. Amo le memorie di
Nadežda, bellissime e tremende: c’era quel libro, L’epoca e i lupi, ora so che
l’hanno ristampato come Speranza contro speranza, mi dice Godano. Poi parliamo
di Iosif Brodskij. Fondamenta degli Incurabili. Come se fosse un abbecedario
minimo – Godano indossa gli occhiali da sole come fossero un elmo. All’inizio,
però, era Oblomov.
Incupito, Cristiano Godano costretto ad ascoltare le prediche di Brullo
*
Sono a letto, scusami, non si addice alla nostra conversazione: ora mi alzo. Mi
dice Godano, giorni fa – giorni che potremmo chiamare Alpi, giorni in rampicata.
Come Oblomov, faccio io.
Insieme a Roberta Rocelli, donna di indocile lucidità, che alterna la tenerezza
al cazzotto, abbiamo deciso di invitare Cristiano Godano a suonare al Festival
Biblico e a parlare del “Salterio dei Poeti”. Così, gli telefono. Che mi dici di
Dio? Andavo a Messa da bambino – potrei dirmi ateo, preferisco agnostico: non è
nel mio orizzonte, fa lui. E i poeti? Non li leggo. Non è vero, lo incalzo.
In Poeti – brano installato in Bianco sporco, album dei Marlene del 2005 – citi
Guido Gozzano, “il gran poeta”: Un mio gioco di sillabe ti illuse, da L’onesto
rifiuto, gran bella poesia. È vero…, fa lui, intendevo dire che non sono un buon
lettore di poesia. Più tardi si attarderà su Montale, “è sempre disponibile a
farsi leggere e rileggere”; poi va a Borges, “una sua poesia mi ha ispirato”.
Comincia così un dialogo in ascesa. Come corda, piccozza e artigli usiamo
WhatsApp. Facciamo un esperimento, gli dico: ti faccio una domanda al giorno.
Sondiamo gli insondati, gli indicibili. Con rapace generosità – sbandato tra un
concerto e l’altro – Godano ci sta.
*
Parto dal campo base. Ci accomuna l’amore per Nick Cave e Vladimir Nabokov. Il
primo è semplice. Mentre io andavo in delirio per No More Shall We Part –
ipnotico brano di apertura, As I Sat Sadly by Her Side, mandato a ripetizione in
una casa-catafalco a Milano – i Marlene avevano pubblicato da poco Che cosa
vedi. Più tardi, sul palco, Godano sradicherà da quel disco il pezzo-Houdini,
quello che scatena i cuori ammanettati degli astanti, La canzone che scrivo per
te. Manca Skin, non ho il physique. “Di Nick Cave amo tutto. I miei tre dischi
preferiti? Forse The Good Son, The Boatman’s Call, Kicking Against the Pricks”.
Poi c’è Nabokov. Ovunque. Cosa c’entri Nabokov con Nick Cave, a parte l’ecumene
di N e di K, lo faccio dire a lui, copio-incollo da Il suono della rabbia (il
Saggiatore, 2024):
> “Due dei miei eroi di riferimento nel campo artistico, Nick Cave e Vladimir
> Nabokov, un cantante e uno scrittore, hanno vissuto una vita dedita in maniera
> spontaneamente totalizzante all’arte. Immuni a qualsiasi ingerenza del sociale
> nei loro lavori artistici, mi hanno sempre dato la sensazione, influente e
> ispiratrice, di una esistenza eccitante nella ben nota (e da molti
> disprezzata) torre d’avorio dell’artista”.
Godano cita Nabokov come un amuleto. Entrambi siamo affascinati dall’uomo;
quando gli parlo di Intransigenze, raccolta nabokoviana di interviste rette dal
carisma della crudeltà (in Italia: Adelphi, 1994; l’anno di Catartica…), Godano
va in brodo, cita a memoria alcuni giudizi del sommo, “l’asinina Morte a
Venezia di Mann… le pannocchiesche cronache di Faulkner”. Ride. L’austerità
dell’arte incline a tirannica ascesi. Lo scrittore: al contempo demone e
crocefisso all’asse del proprio mondo. Godano preferisce La vera vita di
Sebastian Knight; parliamo di Fuoco pallido; quando scopre che ho scritto un
romanzo, Nabokov, su Nabokov, mi piglia per matto.
Credo che a Godano piaccia distruggere le maschere. Eleva la maschera a idolo,
poi la abolisce, ne fa abominio. Si leva la maschera e la offre come trogolo al
pubblico. Condanna di chi vive sul palco, perpetuo pasto dei fan, costretto a
essere sigillo di memorie altrui, che non gli appartengono, di cui è ignaro.
Nell’ultimo disco, Stammi accanto, un lotto di testi – Lode all’istante, Cerco
il nulla, Vacuità – costituisce una specie di sentiero dello spirito, rasenta
una poetica dell’esistere.
Vuol farmi credere che “nel Cristiano solista c’è meno frattura – o zero proprio
– fra l’io narrante e il sottoscritto”. Fosse così, l’artista morirebbe a ogni
pezzo. Spaccare lo specchio, esercitarsi coi vetri finché il sangue non è che
una variante del cielo.
*
Un giorno lo scambio si infuoca. Gli piace Cioran, lo stringo sulla morte,
sull’aldilà.
> “Adoro il black humour di Cioran: la penso come lui sul senso della vita, che
> per me non c’è. Dunque, detesto profondamente la morte che considero
> tremendamente ingiusta. Non ho alcun rapporto ‘foscoliano’ particolare con i
> morti: un cimitero mi dice poco in merito al dialogo con loro, nonostante
> camminarvi dentro mi consegni una fantastica pace. Una volta ho fatto footing
> in un cimitero: inverno, otto e trenta del mattino, tentavo di trovare una
> routine salvifica dagli stati ansiogeni che mi assillavano. Sforzo vano:
> detesto correre”.
…ma ti rendi conto la noia di essere eterni?
“Oh, no, siamo in totale disaccordo. Penso che si tenda a parlare di noia
dell’eternità perché la si immagina in connessione con il mortificante
accadimento della senescenza, ma se si potesse essere eterni senza invecchiare
sfido chiunque a ritrovarsi a un certo punto annoiati della vita…”
…eppure la bellezza esiste perché sfiorisce e gli uomini si amano, fino a
morirne, proprio perché muoiono… altrimenti, crepino nel crepitio eterno.
“Farei a meno dell’amore (ah, l’amore, il mio mistero per eccellenza: l’unica
crepa nella mia apparentemente radicale convinzione che tutto sia illusione e
che i vari nostri valori – bellezza inclusa – non siano altro che nostre
inevitabili costruzioni) se in cambio avessi l’eternità”.
Ad ogni modo, hai un figlio. Per lui, sei tu il senso. Al suo cospetto, la vita
torna vita, non più tenue insensatezza.
“Sono il senso per mio figlio perché la vita (e l’evoluzione) ci ha tirato
questo brutto scherzo: a tutti gli esseri viventi la condanna a cercare di
vivere a tutti i costi, affannandoci costantemente e costringendoci a legarci ai
più prossimi (genitori in primis) per non soccombere, e a noi esseri umani, in
più, la sfiga della coscienza (siamo costretti a essere coscienti) che ci porta
e riflettere e speculare e inventare illusioni. (Sono così, ahinoi, soverchiato
dal raziocinio)”.
…ma l’arte è mania, mantica, insorgenza dell’irrazionale. La ragione, il logos,
è la quintessenza dell’illusione. Se non esistesse la morte (il pensiero della
morte, dunque l’amore che ci lega a questo ferito e fetido mondo e non ci fa
suicidi), non avrebbe peso né presa l’arte. Un figlio non è generato dal caos,
ma dal fato: un dono più che una condanna, da preservare, come il fuoco e il suo
fuco. Che si spegnerà è ovvio: intanto, scalda, è luce. Si vive per dare la vita
a un altro (anche se l’altro la rifiuta). Da gettati.
“Ahimè, per me la vita è condanna. Questione di tempra. ‘Si vive per dare la
vita a un alto’ è un altro brutto tiro della vita e dell’evoluzione, questa
insensatezza rivolta in avanti (anche se il tempo, come dicono, non esiste).
Vedi che è la cazzo di morte (violenta, ingiusta) che definisce tutto? È la sua
protervia che ci costringe a ogni tipo di sotterfugi, arte inclusa (che fra
tutte le illusioni è l’unica con qualche potenziale, illusorio anch’esso,
salvifico)”.
Se è grazie alla morte che ho potuto leggere Trakl e Rilke, vedere Bellini e
ascoltare… Godano e Nick Cave, beh, sono felice di morire. Il sotterfugio è il
vero gioco da illusionisti. Amo questa terra grave di morte, ma non così tanto.
Levarsi di torno senza tema di memoria, di lacrime, di arpie pettegole sarebbe
saggio. Sparire più che morire. La morte fa da sprone – la vita, mai nostra, sia
restituita. Il resto, chissà… troppo chiasso fanno i pensatori, i poeti
impastano l’impensato.
“Io amo la vita, ma solo nel senso che è mia con tutto il corredo di sentimenti
emozioni affetti che a lei mi lega tenacemente. Odio la morte, che temo
ardentemente. Per me ci si può con tranquillità chiedere se fosse meglio non
nascere, e propendo più per il sì, con qualche circostanziata remora”.
*
Un giorno gli dico che è lui il grande illusionista.
I cantautori scrivono pezzi che inchiodano chi li ascolta a quel particolare
ricordo, frainteso, acido d’anni: una rosa che si rivela iena, che ti si rivolta
addosso. Schiavizzano, e sono schiavi. Mi risponde poco dopo:
> “Credo di poter dire che alla fin fine i miei scopi artistici sono
> principalmente estetici. Nell’ambito della scrittura questo vuol dire che
> gioisco in particolare di una qualche forma di eleganza connessa all’idea
> dello stile, come se avesse un piccolo vantaggio sul significato”.
La forma è il significato (scarceriamo le parole dalla condanna di significare
qualcosa, lasciamole essere falchi, ungulati, a unghiate); la chiarezza:
idolatria da geometri, da vetusti cardinali del vocabolario. Su questo siamo
(quasi) d’accordo.
Più tardi costringo Godano al ‘sacro’; si smarca: “non avendo fede e non
riuscendo a immaginare credibile l’esistenza di una deità che ci abbia a cuore
non penso di nutrire una qualche riverenza altrettanto credibile nei confronti
del sacro. Sacri al limite, per me, possono essere alcuni nostri valori (nostri
in quanto creati da noi esseri umani), come la compassione”. Parliamo
dell’anima, ma so che è fare Arlecchino con il fumo. “Ragionerei più in termini
di coscienza”, fa lui, e fiancheggia altre vie, l’arsura del no, “ammetto di non
essere particolarmente attratto o consolato dall’idea che la nostra ‘energetica
coscienza’ confluisca in un gigantesco ricettacolo universale… anche ’sti
cazzi”. Potrebbe essere il motto di una nuova formula teologica.
*
Più che altro, va tenuta sull’ambone questa nostra vita da sfracellati.
Forse “Cristiano Godano”, votato alla musica, obbligato a concelebrare sul
palco, non ha avuto lo spazio per poter essere Cristiano Godano. Da qui gli
occhi: perpetuamente famelici. Felici.
Ogni parola, con le sue botole, i botoli, le trappole, semina disorientamenti.
Poi è il concerto, nel giardino del palazzo vescovile di Vicenza, tra fantesche
gelsomini. Il canto annienta ogni concetto e tutto torna come è, per sempre
primo, rupestre. La vita, allora, è questa immemore caccia di comete felidi,
questa luce tra le mani, i volti come stelle filanti.
Quando mi chiama – Davide, Davide – siamo già all’Ade di noi, in un altro mondo
di ombre.
*In copertina: Cristiano Godano in un ritratto fotografico di Gabriella Vaghini;
nel servizio le fotografie sono di Nicola Zolin
L'articolo “Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp) con Cristiano
Godano, tra Nabokov, Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto il resto proviene
da Pangea.
Se muoiono i poeti/ ma non muore la poesia, come scrive Aldo Palazzeschi
in Congedo, che cosa si può dire oggi della canzone d’autore? Che ne sarà della
canzone d’autore italiana? Quale sarà il suo destino? Cantautori del calibro di
De André, Jannacci, Gaber, Guccini, Fossati e via dicendo, tra i banchi di
scuola, chi li conosce e riconosce più? La premessa dell’amico e
collega Marcello Bramati nel libro L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere
i cantautori nella letteratura e in classe (con prefazione di Massimo Bubola)
pubblicato da pochi giorni per Mimesis è questa:
> “La canzone d’autore ha giocato un ruolo decisivo nell’espressione di ciò che
> è stato il Novecento, un secolo che ha avuto bisogno di nuovi linguaggi e che
> ha rivoluzionato gli schemi secolari precedenti fino a far emergere nuove
> forme d’arte e nuove parole per raccontare le tragedie immani e il progresso
> esponenziale”, ma “qui sta il punto: la cultura del Novecento non può
> affidarsi alla nicchia di colti appassionati e alla buona volontà individuale,
> perché la trasmissione dei saperi e del patrimonio culturale è un fatto
> sociale e un atto politico che riguarda una generazione intera”.
Insomma, la proposta di Bramati è chiarissima e altrettanto seria: inseriamo i
cantautori nell’ultimo miglio della letteratura italiana. Si intervenga anche
sulle famigerate Indicazioni ministeriali, ferme all’altro ieri, ovvero il
2010:
> “è necessario dare maggiore luce al Novecento, specie al quarto periodo,
> quello in cui hanno scritto poeti straordinari come Mario Luzi, ancora
> esclusi de facto dallo studio scolastico, e tutti i cantautori”.
Basta una lezione di prova per capire fino a che punto il cantautorato sia
sull’orlo dell’oblio: provare per credere. La tesi è suggestiva e importante e
ha un suo appello:
> “provare a portare la musica cantautorale a scuola in modo tale che rientri
> nell’istruzione dei cittadini di domani e risulti un’azione di tasso culturale
> elevato e non un alleggerimento, un’ora di ricreazione, una bizza di un
> docente appassionato che si concede il lusso di buttare via un’ora per qualche
> canzone”.
L’amore per la letteratura lo richiede, il docente è chiamato a lasciarne il
segno: “La letteratura lascia traccia del suo passaggio nell’anima,
nell’immaginazione, nel linguaggio e nel lessico di chi la incontra”. Perché non
potrebbe essere così con una canzone “d’autore”? Del resto – ci ricorda il
cantautore Massimo Bubola nella bellissima Prefazione dal taglio storico poetico
– la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che “si sono sempre date la
mano”.
L’interrogativo non è nuovo, già Montale nel discorso pronunciato per la
consegna del Premio Nobel per la letteratura – correva il dicembre 1975, mezzo
secolo fa – denunciava:
> “uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla
> quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi”.
Era lo stesso Eugenio Montale che, in un articolo sul “Corriere della Sera”, il
21 giugno 1964, a proposito dei “poeti moderni” raccontava che questi scrivevano
“seguendo un metronomo interiore”. Ora, al di là della annosa questione della
clamorosa assenza della musica e della storia della musica come materia alle
superiori nel nostro paese, si pone un’ulteriore questione: i cantautori
italiani sono poeti? Bramati riconosce che si tratta di “una tesi tutta da
dimostrare e che conta diversi acerrimi nemici”. Tutti ricordiamo quando,
suscitando un vespaio di polemiche, nel 2016, il Nobel per la letteratura venne
assegnato a Bob Dylan. Tra gli altri anche Alessandro Baricco fu molto critico,
invitando a non confondere letteratura e canzone. Sciogliamo un po’ di nodi con
l’autore.
Marcello Bramati, da dove cominciamo? C’è il “canone dei cantautori italiani”
pubblicato recentemente da Paolo Talanca (Carabba editore) che indica un
sentiero, ma come facciamo a forzare la mano e a far entrare in classe i
cantautori?
“Mi dispiace che si usi questa metafora, perché portare i cantautori in classe è
compiere un atto di giustizia. Ciononostante, è proprio così, perché le
indicazioni per i programmi della scuola superiore non ne fanno cenno, le
antologie inseriscono qualche inserto di quelli che non si fila nessuno, a parte
l’appassionato di turno. Di conseguenza, se si vuole portare la canzone d’autore
in classe, serve operare un’incisione nel programma e prevedere un fuoripista,
un’uscita consapevole dal tracciato ufficiale. Eppure, come diceva De
Gregori, la storia siamo noi, nessuno si senta escluso, e quella storia, che
passa anche dalle note e dalle parole dei nostri cantautori, deve poter trovare
posto tra i banchi. Serve coraggio e non basta la passione, servono una visione
educativa più ampia e la volontà di dire: questa non è un’ora persa, è un’ora
ritrovata. Il cantautorato è letteratura vissuta, poesia popolare se volessimo
cogliere la curvatura di alcune ballate sia per linguistica – si pensi ad alcune
scelte semantiche di De Gregori o al dialetto di De André – che per il sociale –
in questo caso, il pensiero vada subito Jannacci e a Gaber, fino alla Canzone
popolare di Ivano Fossati, manifesto di un modo di far canzone d’autore. Ma la
canzone d’autore è ancora di più, molto di più: il labor limae sui suoni e sulla
parola carica di significato ne fa un prodotto letterario, quindi pur dovendo
forzare la mano per portarla in aula, non si forza la serratura della
letteratura nell’inserirla nel suo alveo, anzi si colma una lacuna”.
Non sarebbe più facile pensare alla musica come una materia alle scuole
superiori?
“Sarebbe naturale. Perché la musica è un linguaggio che pervade la vita
ordinaria, è passione, passatempo, svago, studio per i pensieri oggi dei ragazzi
sui banchi e sempre in quelli dell’essere umano. ‘Anche se voi vi credete
assolti, siete lo stesso coinvolti’, cantava De André. Escludere
sistematicamente la musica dagli studi superiori è una responsabilità che porta
alla mercificazione e allo svilimento: la musica non è ricreazione, è
riflessione. Non è solo ritmo, è senso. Una materia musicale seria alle
superiori colmerebbe un vuoto antico. E magari lì, tra un rigo e l’altro, ci
sarebbe spazio per Bob Dylan e per Brunori Sas, che con ironia e dolore
canta ‘per chi non ha voglia d’abbaiare o di ringhiare/ canzoni tanto per
cantare’ che facciano dire: Ma guarda, lo potevo scrivere anche io – e invece
no, non potevi. E questo è il potere dell’arte, renderci umani e renderci
pensanti, ed è qui che sta la responsabilità della scuola, che insegni il bello
e il discernimento tra il bello-artistico e ciò che così arte non è”.
Come mai non c’è mai spazio per le cantautrici?
“Perché spesso si guarda solo dove la luce è già accesa, e negli ultimi
sessant’anni – questo è l’arco temporale della canzone d’autore italiana – nella
musica e ovunque gli uomini hanno avuto più possibilità delle donne, quindi
hanno spiccato. Ma la verità è che le cantautrici ci sono, eccome. E brillano.
Una breve galleria di autrici – e voci – straordinarie potrebbe includere Grazia
Di Michele, che ha raccontato l’identità femminile con un’intensità rara, Teresa
De Sio, voce del sud e della resistenza culturale, Nada, irregolare e viscerale,
Cristina Donà, delicata e potente insieme, Giovanna Marini, storica e voce delle
lotte sociali. C’è poi una nuova generazione che probabilmente ha maggiori
possibilità e, con la distanza storica necessaria, potrà essere valutata con la
lente dell’arte della parola in musica: in questo caso il pensiero va a Levante,
che canta l’inquietudine dell’oggi con parole da romanzo, e poi a Carmen
Consoli, con la sua prosa affilata e lirica insieme. Nella mia disamina
individuo quattro autori da inserire nel programma di letteratura – almeno uno,
a scelta – tra De André, Guccini, Battiato e De Gregori, ma a questi possono
affiancarsi molti inserti personali e prove individuali. Cito Bubola, autore
della prefazione, Niccolò Fabi, penso a Samuele Bersani, e così alle cantautrici
appena citate. La letteratura non è solo Dante, Leopardi e Manzoni, ma c’è posto
anche per Gozzano e Deledda: lo stesso vale per la canzone d’autore. In questo
spazio, ben venga l’inserimento di autrici e autori, in piena parità di valori e
dignità. Tutte loro meritano lo stesso palco, la stessa cattedra, la stessa
dignità. Come diceva De André, ‘si sa che la gente dà buoni consigli, se non può
più dare cattivo esempio’. È ora di dare spazio, di ascoltare davvero”.
A scuola, i tuoi studenti come reagiscono alle lezioni sui cantautori italiani?
“Nel corso dei cinque anni di superiori, ho sempre inserito la musica d’autore
in punta di piedi: una citazione, un rimando, un esercizio, un ascolto per casa,
un lavoro su un brano stampato – e magari non ascoltato – sempre inserendo in un
discorso più ampio l’opera in questione. Un esempio è La storia di De Gregori,
proposta in prima insieme ad alcuni testi tratti da Erodoto, Tucidide, Manzoni.
C’è sempre stato interesse, come accade quando una lezione decolla e diventa
interessante: qualcuno ha ricordato di avere in casa questo o quell’album (come
avviene per i libri), qualcuno di conoscere un nome, un titolo, una melodia, una
storia. Proprio come avviene con tutto il materiale buono che si porta in
classe, senza dare alla canzone un potere di affascinare più potente di
altro. Solo in quinta presento interamente l’autore De Gregori e, a quel punto,
giocando a carte scoperte, vengono garantiti ascolto e interesse ben sapendo di
essere in un sentiero inesplorato ma che riserva pietre preziose scintillanti.
Penso a Mondo politico, traduzione della dylaniana Political World, un esercizio
di traduzione e interpretazione che si fa scuola di pensiero e di lingua”.
È ancora possibile la poesia?
“Sì. Perché la poesia, come diceva Montale nel suo discorso per il Nobel, ‘è
ancora un atto di fede nella parola, anche quando la parola è consapevole del
proprio fallimento’. In un mondo che vende tutto, anche l’inutile, la poesia
resta un gesto di resistenza. È un seme che non sempre attecchisce, ma che va
lanciato lo stesso. Perché ‘dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i
fior’, cantava De André. La poesia è linguaggio carico al massimo grado di
significato, è un patto generazionale che assegna al fruitore quella dignità di
cui gli studenti hanno bisogno, è esercizio di sintesi, di ricerca e di
attenzione così raro e così necessario. Ecco, è ancora possibile perché è ancora
necessaria. Anche se spesso non si chiama più col suo nome e molto, che poesia
non è, viene contrabbandato per esserlo”.
Ha ancora senso insegnarla a scuola?
“Ha più senso che mai. In un tempo che corre veloce, che urla e dimentica,
insegnare poesia è un atto controcorrente. È dire: fermiamoci. Guardiamo.
Sentiamo. Andiamo in profondità. Cogliamo la sfumatura. Cerchiamo il silenzio.
Insegnare poesia è insegnare compassione, meraviglia, dubbio. Ci sono poesie che
sono come un grido (Dante definisce proprio così la sua Commedia in Paradiso
XVII), ci sono canzoni che sono ‘come sberle in faccia per costringerti a
pensare’ (come canta Brunori): insegnare poesia significa dare strumenti per
vivere meglio e sentire di più. E se una cosa bella non è più ordinaria, tocca
alla scuola trasmetterla per garantire spazio, risonanza, vita. Questo è il
compito più nobile della scuola. Non l’unico, non il più pratico, ma certamente
il più alto. Dalla cetra di Omero alla chitarra dei cantautori, il passo non è
poi così lungo: entrambi hanno intonato storie che attraversano i secoli,
entrambi hanno usato la musica per dare forma alla memoria, alla sofferenza,
all’epica quotidiana dell’umanità. Omero cantava di eroi e dei, ma lo faceva con
il ritmo della voce e del respiro, affidando alla musica la sua poesia, la sua
forza, la sua durata. È in quella scia che si muove ancora oggi la canzone
d’autore. Massimo Bubola, nella sua visione limpida e poetica, ci ricorda nella
prefazione al mio libro che
> “la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che si sono sempre date la mano
> come due muse, due sorelle che si tengono per mano e scendono nel mondo per
> avvolgerlo di bellezza, per cantarlo e consolarlo”.
In questa immagine c’è tutto: la continuità tra le parole dei classici e le voci
dei cantautori, tra il verso epico e la ballata, tra l’Iliade e La guerra di
Piero. Letteratura e musica, dunque, non sono mondi separati, ma fili
intrecciati nello stesso tessuto dell’anima. La scuola, la cultura, noi tutti
abbiamo il compito di custodire questo tessuto. Perché se è vero che i poeti
possono morire, come scriveva Palazzeschi, è altrettanto vero che la poesia – in
ogni sua forma, anche quella cantata – resta. E resta per cantare ancora”.
Linda Terziroli
L'articolo Tra l’Iliade e De André. Portiamo i cantautori a scuola. Dialogo con
Marcello Bramati proviene da Pangea.