Tag - Intervista

“Passione per l’assoluto”. Mistiche, cioè: donne allo stato selvaggio. Dialogo con Lucetta Scaraffia
Nel 1988 Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi pubblicarono, per Marietti, un’antologia di Scrittrici mistiche italiane. Il libro, straordinario, finito fuori dai radar editoriali da tempo –nello schema generale, è riproposto in Mistiche, Magog, 2025, a cura di Alessandro Deho’ –, testimonia una sorta di contro canone della nostra letteratura. Le “mistiche” contemplate da Pozzi e Leonardi – non tutte contemplative, dacché si contempla, come scriveva Cristina Campo, “preparando torte, lavando le stoviglie, prendendosi cura degli altri”; dalle notissime, Angela da Foligno, Caterina da Siena, Veronica Giuliani, alle purissime ignote, Osanna Andreasi, Maria Celeste Crostarosa, Angela Gavazzi – sono state spesso vessate, marginalizzate, processate. Del cristianesimo, propongono la via eccezionale, degli eccessi; la via oscura.  Tra queste, alcune sono state madri e mogli, altre prostitute (Caterina Vannini); Carlo Emilio Gadda preferiva Maria Gaetana Agnesi, “matematichessa e filosofa”, donna d’alto ingegno – insegnò matematica all’Università di Bologna, nel 1750 – che si diede alle opere di carità e alla teologia senza appartenenza ad alcun ordine. Di queste donne, scrittrici per estro e per necessità, sono proprie l’ossimoro e la tautologia, “figure linguistiche di frontiera”, che sfidano “l’ineffabile”. Ossimoriche e tautologiche, piuttosto, sono le “Otto mistiche laiche del Novecento” riferite da Lucetta Scaraffia in Dio non è così (Bompiani, 2025), donne “di frontiera”, “ineffabili”, protagoniste di un  > “tipo di esperienza mistica di natura spontanea, oserei dire selvaggia… non > nella gabbia di schemi consolidati e accettati, ma con una libertà nuova” > (Scaraffia).  Donne di rottura, donne dirompenti.  Alle biografie più attese – Simone Weil, Chiara Lubich, Romana Guarnieri –, redatte con mano partecipe, a tratti impetuosa, seguono profili spiazzanti: quello di Banine, ad esempio, l’audace scrittrice di origine azera che scandalizzò i salotti di Parigi, amante-amica di Henry de Montherlant e di André Malraux, baccante supplice di Ernst Jünger (si legga: Banine, Incontri con Ernst Jünger, De Piante-Terra Insubre, 2021), che nel folgorante diario, Ho scelto l’oppio (Massimo, 1965; riprodotto in parte dalle edizioni Magog, 2022), racconta la catabasi nella conversione (fino al desiderio di sedurre il proprio confessore). Il libro è aperto dal profilo di Catherine Pozzi, poetessa di vitrea sapienza, amata da Paul Valéry – che, in sostanza, non la capì –, amica di Rilke, pari, per vertigine, secondo Michel de Certeau, alla grande mistica Hadewijch. “Essere donne, essere in un certo senso sempre irregolari, dà a tutte una ampiezza di vedute che la porta a scelte innovative”, scrive la Scaraffia: l’abbiamo contattata. Non credo sia un caso la citazione, in esergo, di Benedetto XVI: “Querere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui”. Era il settembre del 2008, il santo padre parlava a Parigi, al Collège des Bernardins.  > “Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come > non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della > ragione”.  Disse questo, tra l’altro.  Circoscriviamo il termine. Cosa intende per “mistica”?  Per mistica intendo passione per l’assoluto, ricerca di raggiungere un contatto personale con l’assoluto. Quando parla di mistica “selvaggia” mi ricorda Paul Claudel che aveva coniato, a proposito di Rimbaud, la formula “mistico allo stato selvaggio”. Come dobbiamo dunque intendere la mistica “femminile”?  Mistica selvaggia perché è esperienza vissuta al di fuori dei codici imposti dalla religione, che ha cercato di controllare l’esperienza mistica e di certificarla distinguendola in buona e cattiva, cioè demoniaca. Queste otto donne non erano alla ricerca di una codificazione da parte religiosa istituzionale, sia perché non erano religiose professe sia perché se lo potevano permettere: nel ’900 non correvano più il pericolo di venire punite come eretiche. Una libertà dalla religione istituzionale che si configura anche come libertà dal controllo maschile. Per questo penso che fossero tutte, più o meno consapevolmente, femministe: del resto lo prova la loro vita. Proseguendo e variando la domanda precedente: la mistica esprime il proprio misticismo attraverso il linguaggio, oppure nell’agire nel tempo? Insomma, qual è il carisma del misticismo? Esistono diversi tipi di misticismo, anche se quello più noto è quello certificato dal linguaggio, cioè dal racconto diretto delle esperienze mistiche. Queste donne, quasi tutte fini intellettuali, hanno raccontato la loro esperienza per scritto, in modi diversi fra di loro, e con modalità diverse da quelle tradizionalmente attribuite alla narrazione dell’esperienza mistica. Proprio per questo svolge un ruolo importante anche la loro vita che, in tutti i casi, dimostra la possibilità di sperimentare un rapporto intenso con l’assoluto all’interno di vite normali, segnate da una professione, spesso una famiglia e comunque anche rapporti intensi e perfino trasgressivi con uomini. In questo si misura tutta la loro libertà. Lei è Lucetta Scaraffia Mistica, di solito, si lega a un pensare e a un vivere eterodosso. È davvero così? Perché? In realtà, nella storia del cristianesimo, mistica si lega a una vita super ortodossa, rinchiusa al mondo, dedicata a una ascesi totale. Il controllo esercitato sulle mistiche imponeva loro di provare la verità del rapporto con il divino attraverso una vita di rinunce. Lo stile di vita eterodosso, legato a una mistica che possiamo definire “selvaggia”, nasce dalla particolare posizione morale in cui si trova a vivere chi sperimenta queste esperienze, al di sopra del bene e del male. Le mistiche sono un punto permanente di contraddizione. La loro, mi pare, è la purezza nell’impurità. In questo, sono autenticamente ‘cristiane’. Mi sbaglio? Eppure, come penetra il ‘religioso’, la danza dell’invisibile, nella biografia delle donne di cui scrive? Certo le loro biografie sono ricche di contraddizioni. Il religioso penetra come ricerca di qualcosa di più, di un amore assoluto del quale provano una sete inesauribile, quasi dolorosa. La mistica e la Storia. Come si colloca l’esperienza, singolarissima, delle ‘sue’ donne nelle temperie del secolo, del mondo, del mondano?  Le mie donne sono completamente immerse nel mondano, nella storia del loro tempo, fino alla fine. L’esperienza mistica non le pone fuori dal mondo, ma suggerisce loro una lettura diversa del mondo in cui vivono e in cui continuano a vivere. Una lettura che comunicano agli altri, attraverso poesie, diari, saggi, lettere, assolutamente originali. Quale, tra le figure che ha scelto, l’ha sorpresa per l’audacia, per la ‘sconvenienza’? Direi Banine, la musulmana atea che nei suoi libri autobiografici racconta con ironia di avere fatto quello che noi oggi chiamiamo la escort, che non rinnega niente della sua vita avventurosa e difficile, e che sa far crescere la sua sete di conoscenza intellettuale in sete di conoscenza mistica e raccontarla. Mi pare, a bracciate, che la mistica italiana più mistica di tutte, per anomalia, sia Cristina Campo. Lei non l’ha rubricata, non l’ha detta. Come mai? Certo che ho letto Cristina Campo, che amo moltissimo. Ma più che una mistica mi è sembrata una cacciatrice di misticismo, che sa riconoscere a raccontare, e soprattutto far scoprire e amare. Ma non mi è mai sembrata una mistica lei stessa, se pure una donna di straordinaria sensibilità. Ho anche trascurato Etty Hillesum, che certo era una mistica della stessa famiglia delle mie otto mistiche, ma sulla quale si è già detto e scritto tanto. Ugualmente non ho inserito Maria Zambrano, che considero mistica, perché non sono riuscita a trovare documentazione esauriente sulla sua vita. Le chiedo un giudizio sul pontificato di Francesco. Che ruolo hanno avuto le ‘mistiche’, diciamo così, nel suo governo?  Papa Francesco non è mai stato interessato alle parole delle donne, neppure se mistiche. Spero che questo papa sia equilibrato e prudente, che ristabilisca pace e armonia in una chiesa lacerata. Non ho speranze per il ruolo delle donne: nessun gruppo di potere ha mai ceduto il suo potere spontaneamente. Solo le religiose possono combattere e ottenere dei risultati veramente significativi, cosa che fino ad ora non è avvenuta. *In copertina: una immagine da “Persona”, film di Ingmar Bergman del 1966 L'articolo “Passione per l’assoluto”. Mistiche, cioè: donne allo stato selvaggio. Dialogo con Lucetta Scaraffia proviene da Pangea.
June 23, 2025 / Pangea
“Sono patologicamente curioso”. Da Gladio alla Patagonia, dall’occulto ai Talking Heads: dialogo con Guido Mina di Sospiro
Di solito, indossa ampi cappelli: il sigaro e la camicia larga conferiscono al profilo un ardore à la Indiana Jones; l’entusiasmo, a vertigine, un certo titanismo negli occhi, lo rendono, piuttosto, un soggetto degno di Friedrich, il protagonista di un romanzo inglese dei primi del Novecento, di ampi porti in luoghi esotici, arricchito da esoterici vagabondi. Di solito, alle spalle di Guido Mina di Sospiro appaiono paesaggi suggestivi: liane amazzoniche, templi minoici, canyon. Nato in Argentina da famiglia di alto lignaggio, studi a Milano, vita negli Stati Uniti, una volta mi ha scritto dal Giappone – o dalla Patagonia, non ricordo. Ha una casa a Todi, a cui approda, di tanto in tanto. Ha praticato come musicista – tra l’altro, con l’ungherese Miklós Rózsa, tre volte Oscar “alla migliore colonna sonora” – e come cineasta – Heroes and Villains, cercatelo in rete, è stato realizzato con un gruppo di amici nel 1978 –; ha scritto tanto. La sua vita furibonda nella California degli anni Ottanta rimanda ai romanzi di Bret Easton Ellis: Guido non lo ha letto, e con rabbiosa schiettezza mi dice di preferire Borges. Lo vedrei bene come allevatore di centauri.  Guido Mina di Sospiro, uomo in direzione contraria all’editoria dominante, ha scritto tanto, è stato tradotto ovunque. Il suo libro di maggior successo, forse, è The Metaphysics Of Ping-Pong: uscito nel 2013 nel mondo inglese, è stato recepito da Ponte alle Grazie tre anni dopo; lo stesso editore, nel 2017, ha pubblicato Sottovento e sopravvento, una specie di “romanzo filosofico d’azione” (così Maurizio Ferraris), che sovverte il candore del ‘genere’. Da allora – Rizzoli, tra 2002 e 2003, ha pubblicato L’albero e Il fiume – dell’autore, in Italia, si sono perse le tracce. Incessante è tuttavia la sua attività letteraria negli altri mondi; scrive, tra l’altro, sulla “New English Review”.  Quest’anno le reticenze – Mina di Sospiro è ostile al mainstream narrativo che va per la maggiore – si sono dissigillate: Bietti ha tradotto Il libro proibito, un noir teosofico scritto dall’autore insieme Joscelyn Godwin, studioso di occultismo, esoterista, autore, tra l’altro, di testi su Robert Fludd, Fabre d’Olivet, René Guenon e Julius Evola. Quest’anno, Lindau ha invece pubblicato Terrore e musica, libro in cui, in sostanza, Mina di Sospiro parla della sua Milano dilaniata dagli Anni di Piombo, tra i Talking Heads (in appendice, l’autore impila una “lista di compositori, composizioni, musicisti, gruppi, brani e dischi a cui si fa riferimento nel testo”, tutta da ascoltare) e le Brigate Rosse. “Questo libro tratta della città in cui sono cresciuto, Milano, nella quale rischiavo la vita quotidianamente pur senza mai volerlo. Né intendevo, in quel luogo e in quel periodo… intorno a me tutto era diventato improvvisamente così strano, era come se io vivessi in un altro mondo, da straniero nella propria città”, confessa l’autore. L’attacco del libro parte in contropiede – con David Byrne in sottofondo: > “È la settimana di orientamento per le matricole straniere alla University of > Southern California, o USC, a Los Angeles, verso la fine di agosto del 1980. > Mi viene assegnata una stanza in un dormitorio da condividere con un compagno > di studi internazionale, un palestinese di centocinquanta chili il cui padre è > «non potente come il presidente Carter,ma quasi». Più tardi, lo stesso giorno, > aggiunge che come membro dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della > Palestina, «ho ucciso tre ebrei». Oddio, penso, il mio compagno di stanza è un > assassino!”.  Stenio Solinas, che ha scritto di Terrore e musica su “il Giornale”, sintetizza il ‘clima’ dell’epoca con parole statuarie: “La gran parte dei rivoluzionari ventenni dell’epoca, dieci anni dopo li avresti ritrovati nei giornali borghesi che avrebbero voluto bruciare, nelle aziende paterne che avrebbero voluto bruciare, nelle multinazionali, negli uffici pubblici, dietro quelle cattedre scolastiche e universitarie che avrebbero voluto bruciare. Tutti pompieri”. Detto tutto.  Quanto a me, di Guido Mina di Sospiro piace il moto sciamanico, l’ansia del viaggiatore, il suo essere estraneo – anzi, australe – al mondano. Così, l’ho cercato. Pare che questa intervista si sia svolta tra Todi e Villa O’Higgins, in Cile; ma forse è sempre un altro mondo quello a cui tendiamo.  Lui è Guido Mina di Sospiro Parto da “Terrore e musica”, che è poi un libro autobiografico. A un certo punto parli del mitico Miklós Rózsa. Ecco, che ruolo ha avuto la musica nella tua scrittura, nella tua vita?  Un ruolo enorme che ora, però, non c’è più (surfeit). Miklós Rózsa fu uno dei miei mentori. Quando ero diciassettenne e lui settantenne avevo la beata incoscienza di mostrargli le mie composizioni, che fra l’altro non gli dispiacevano. Discutevamo di musica e musicisti, armonia e composizione per ore. Mi cambiò la vita: fu lui stesso a dirmi della University of Southern California, dove aveva insegnato composizione succedendo a Schönberg, che era andato alla UCLA, e dove c’era una famosa scuola di cinematografia. Fu così che scelsi di lasciare l’Italia incasinatissima e insanguinatissima di allora e, nel 1980, cominciare a frequentare la USC (non fu affatto facile, con esami di ammissione e complicazioni a non finire, ma ci riuscii). Nel libro esprimi il tuo giudizio sugli “Anni di Piombo”. Riassumilo per chi ci legge.  La vulgata che ci è tanto assiduamente propinata, e cioè che la eversione era per metà di estrema destra e per metà di estrema sinistra, non corrisponde alla realtà. Ma mi fermo qui. Preferirei che il lettore, leggendo il mio libro che va dal 1974 al 1980, si rendesse conto, anno per anno, mese per mese, settimana per settimana, di che cos’erano le grandi città italiane di allora, specialmente Milano, in cui vivevo. Non mi pare che parli del “terrorismo nero”. Come mai? Ne parlo, invece, mettendo nel loro contesto le “stragi di stato” e la “strategia della tensione”, inizialmente ispirate da gruppi eversivi quali Ordine Nuovo, ma in seguito adottate da stay-away-governments, dall’Operazione Gladius, dalla CIA, dalla Masad, dai vari servizi segreti italiani (spesso in conflitto fra loro), dalla P2, e così via. Ma nelle strade la sopraffazione e le intimidazioni, la violenza cronica, quotidiana e sempre in crescendo, erano rosse. Le Brigate Rosse, solo per limitarmi a loro, hanno compiuto 14.000 atti di violenza nei primi dieci anni di attività, dal 1970 al 1980, quasi 4 al giorno. Nessuna organizzazione clandestina di estrema destra si avvicina nemmeno lontanamente a tale media da mattanza.  Come nasce “Il libro proibito” e qual è il suo nucleo incandescente, il cuore esoterico? Insomma, come dobbiamo leggerlo? Anni fa c’era la moda del romanzo cosiddetto “esoterico”, che in certi casi diventava molto essoterico, con vendite di milioni di copie. Joscelyn Godwin – una delle menti più geniali al mondo, autore, traduttore ed editor di oltre quaranta libri – ed io pensammo che, come scherzo o jocus severus, avremmo potuto scrivere un romanzo veramente esoterico. Nel senso che quelli in voga allora partivano invariabilmente da un mistero “magico” che però poi veniva risolto dal solito ispettore con i soliti mezzi razionali. Noi invece, avendo la formazione esoterica necessaria, che nessuno di tali scrittori ha, ci ripromettemmo di partire da un mistero magico e risolverlo… con la magia, nel mentre prendendo in giro il classico ispettore. L’approccio ha funzionato: a oggi, oltre all’originale inglese, sono state pubblicate dieci edizioni straniere. Le ideologie saranno pure defunte, non certo le idee di mondo: qual è la tua? Intendo: che senso ha vivere, cosa c’è dopo questa vita? Dovresti darmi un milione di euro per ciascuna risposta, ammesso che io le azzecchi. Cominciamo dallo stato di cose di questo mondo occidentale despiritualizzato: oltre un secolo fa Wittgenstein ha dichiarato senza ombra di dubbio che la metafisica era morta, e da allora la filosofia s’è tramutata in sofismi. Pertanto se un povero cristo in buona fede si pone domande quali le due che mi hai posto tu, non troverà risposta nella filosofia dell’ultimo secolo, che si è persa in stupidaggini, Sprachspiele e logorrea. Se per “idea di mondo” intendi, come credo, Weltanschauung, la mia si rifà all’opera di Alfred North Whitehead, il quale, mentre Wittgenstein e poi la Scuola di Vienna davano per morta e sepolta la metafisica, scrisse uno dei libri di metafisica più importanti di sempre: Process and Reality. A mio avviso, l’unica ragione per cui la riflessione metafisica rimane necessaria, forse più che mai, è che la nostra coscienza moderna ha perso contatto con la propria esistenza cosmica e quindi necessita di una giustificazione intellettuale. Prima che Omero mettesse la penna sulla pergamena e parodiasse gli dei, l’anima umana non sperimentava alcuna separazione tra il Logos del mondo (significato) e la sua esistenza (fattualità), e quindi non aveva bisogno di credenze religiose. La divinità viveva e respirava in mezzo alle creature della terra e del cielo. Lo shintoismo dice lo stesso, incidentalmente. La cosmologia panteistica di Whitehead intende correggere la tradizionale visione religiosa di Dio come sovrano e onnipotente. La sua cosmologia dotata di un’anima intende correggere la visione filosofica moderna secondo cui l’uomo è separabile dalla natura, o la mente separabile dalla materia. Il potere, per Whitehead, diventa persuasivo poiché estetico, piuttosto che coercitivo poiché meccanico. Dio non arriva dall’aldilà per progettare il mondo a suo piacimento, né lo fa la coscienza umana. Per Whitehead la “concrescenza” è il nome del processo in cui “l’universo delle molte cose acquisisce un’unità individuale in una determinata relegazione di ogni elemento dei molti alla sua subordinazione nella costituzione del nuovo ‘uno’”. La concrescenza, in altre parole, è semplicemente il processo di diventare “concreto”, nel senso di pienamente attuale come occasione reale compiuta. La concrescenza è l’atto del divenire di entità reali. Dal latino “concrescere”, crescere insieme, è l’atto produttivo, l’atto del divenire di un atto produttivo, l’atto del divenire di un essere che è l’insieme. Nella concrescenza, il nuovo essere passa dai suoi componenti nella loro diversità disgiuntiva ideale agli stessi componenti nella loro realizzazione. La metafisica di Whitehead, nota anche come filosofia del processo, definisce la realtà come una rete dinamica di eventi interconnessi o “occasioni reali” (actual occasions) piuttosto che di sostanze statiche. Mette in risalto il divenire rispetto all’essere, il cambiamento e il processo rispetto alla permanenza e le relazioni rispetto alle entità isolate; capovolge il mito della caverna di Platone. Questa visione considera tutta l’esperienza, compresa la realtà soggettiva e oggettiva, come unificata all’interno di un unico cosmo interconnesso. Chi di voi cercasse di leggere Whitehead senza capirci nulla si troverebbe in buona compagnia e sarebbe sulla via maestra: l’universo, infatti, non è un manuale d’istruzioni. Mi domandi inoltre: cosa c’è dopo questa vita? Ho letto e studiato innumerevoli testi esoterici di tante tradizioni molto distanti tra loro nello spazio e nel tempo, e ne ho discusso con tanti pensatori, nessuno dei quali appartiene alla mainstream. In nuce: oltre cinquant’anni fa David Conway, un magus gallese, diede alle stampe Magic: An Occult Primer. Maxine Sanders ne scrive come segue: “Al giorno d’oggi ci sono innumerevoli libri sulla magia. Questo è diverso. Diverso come quando è apparso per la prima volta nel 1972. Ciò che lo rende diverso è che spiega al lettore – esperto o principiante, scettico o credente – che cos’è la Magia, perché la Magia funziona e, soprattutto, come si può lavorare con la Magia. Pochi libri fanno tutte e tre le cose, certamente non con tanto stile, erudizione e umorismo.” L’ultimo capitolo s’intitola: Death and the Meaning of Life (La morte e il significato della vita), e spiega dettagliatamente che cosa succede all’anima quando si stacca dal corpo che l’ha ospitata. Confesso di avere smesso di leggere tale capitolo verso la fine perché mi sembrava fin troppo veritiero, e a me non va che le cose finiscano in quel modo. Inoltre, esorto i lettori che leggessero Magic: An Occult Primer a NON cimentarsi nelle arti magiche; non conosco nessun magus che, praticandole, non abbia subito contraccolpi o ripercussioni, anche molto pesanti, cioè la propria morte, o quella di un caro. Leggere, sì, e con deferenza; praticare, altamente sconsigliato. Che cosa tiene insieme il tuo interesse per i manoscritti alchemici, la musica colta, il cinema, il “clima” degli anni Settanta italiani? Sono patologicamente curioso, non mi fido affatto del canone e delle vulgate che ci propinano e sono allergico al pensiero mainstream. La curiosità non è necessariamente un dono, però, e spesso invidio i nostri gatti, quattro, uno più contento e pigro dell’altro. E sin da piccino sono stato abituato all’alta cultura. Casa nostra era frequentata da personaggi di alto livello, direttori d’orchestra, cantanti lirici, musicisti, scrittori, poeti, pittori, registi e così via. In campagna da mio nonno apparivano spesso Mario Soldati e Renzo Pasolini, entrambi intenti a baciare l’anello. Lo ricordo perché, pur piccino, mi sembravano comicamente ossequianti. Quindi ho sempre avuto accesso al meglio nel campo delle arti, e non solo. Più tardi la profonda amicizia con Joscelyn Godwin (con il quale ho scritto due romanzi), Rupert Sheldrake, Christopher Sinclair-Stevenson, Gillian Prance e diversi altri pensatori inglesi mi ha ulteriormente ampliato gli orizzonti.  Negli ultimi vent’anni ho (ri)scoperto la letteratura spagnola e ispano-americana e leggo principalmente in quella lingua. Gli anni Settanta in Italia erano sconvolgentemente violenti, ma qua e là, soprattutto nella musica, anche molto creativi. Secondo Andrea Kerbaker, con il quale fondai il giornalino La nuova scapigliatura milanese al liceo Leonardo a Milano mi sembra nel 1977, fra la violenza e la creatività di quegli anni c’è un nesso; io, non saprei. Perché non ci siamo riconciliati con gli “Anni di Piombo”? Perché in Italia parliamo ancora di “fascismo” e di “resistenza” in toni che provocano divisione più che comprensione? Perché, e te lo dico con candore, gli Anni di Piombo sono stati il terzo tentativo nel XX secolo in Italia di imporre il comunismo con la lotta armata: dopo il Bienno Rosso del 1919-20; dopo la Resistenza, che resistenza non era bensì guerra civile, del 1943-49 (vedi gli scritti di Claudio Pavone); infine gli Anni di Piombo. È sempre la stessa matrice. Ad esempio, le P38 che nel 1975 apparvero d’improvviso nelle mani dei militanti di ultra sinistra (“Poliziotto fai fagotto/ è arrivata la P38!”) altro non erano che le Walther P38, le pistole d’ordinanza dell’esercito tedesco, sottratte e nascoste dai partigiani che, trent’anni dopo, le consegnavano ai figli con l’esortazione di “finire la guerra contro il fascismo”. Ma il fascismo era morto e sepolto, non c’era più, e i neofascisti erano un po’ come i tartari nel romanzo di Buzzati (che scrisse nell’Africa Orientale, dov’era amico di mio padre: ne discutevano di sera). Ce n’erano davvero pochi (alcuni dei quali mortiferi), e quei pochi non si facevano certo vedere. Essendo la storiografia in Italia saldamente nelle mani della sinistra, la vera storia del ventesimo secolo non è mai stata raccontata, né tanto meno assimilata. Cosa sono stati per te – cosa sono – gli Stati Uniti?  Meriterebbe una risposta fiume, essendoci approdato nel 1980. In nuce, negli States ho fatto cinema, suonato in un gruppo, trovato moglie alla fine del Sunset Boulevard in un contesto squisitamente romanzesco, mi sono laureato, ho fatto il corrispondente per riviste europee di musica e cinema come membro della Hollywood Foreign Press, fatto figli e messo su famiglia, vissuto in California, Florida, Virginia, Maryland, conosciuto tutti e più di tutti e fatto amicizia con grandi menti, scritto libri, libri e poi ancora libri, girato in lungo e in largo, fatto e perso amici. Una vita. Gli USA mi sono sempre piaciuti per il loro pragmatismo yankee; ora non li riconosco più perché quasi metà della popolazione si è lasciata sedurre e indottrinare da un marxismo/globalismo postmoderno che può portare solo alla fine dell’impero, e che, a parte essere distruttivo, è, come gli si conviene, riduttivo, roba da duri di comprendonio, vedi la suprema modestia di Marcuse, quindi intellettualmente tutt’altro che stimolante, anzi, la morte cerebrale. Degli USA a tutt’oggi mi piacciono gli spazi; sono appassionato di fuoristrada, e spesso vado nel South-West, soprattutto a Moab, nello Utah, a cimentarmi nel rock-crawling, disciplina che consiste nel superare a passo d’uomo ostacoli apparentemente insuperabili con lo sfondo di una natura selvaggia e meravigliosa. In quanto a cultura, con qualche eccezione (americani old money, MAI accademici, che sono marxisti e banalissimi) preferisco frequentare pensatori europei o ispano-americani che risiedono in America. Gli americani tipici sono bravi a inventare marchingegni straordinari e a fare soldi. Ma a nessuno dei miliardari della tech interessa l’arte. I Vanderbilt, Morgan, Rockfeller, Carnagie sono stati rimpiazzati dai Gates, Bezos, Zuckemberg, Musk, ai quali arte e letteratura interessa meno di zero.  C’è poi un altro Paese che ha avuto un’enorme influenza su di me, specialmente come scrittore: l’Inghilterra. Ma ne parlerò un’altra volta. Quali sono i tuoi “maestri” di scrittura, i tuoi lari? In “Terrore e musica”, a tratti, ho visto l’ombra di Bret Easton Ellis… Insomma, cosa ti piace leggere? Mai letto Bret Easton Ellis. Casomai c’è l’influenza di George MacDonald Fraser e della sua serie con Flashman come protagonista. Sono diciassette romanzi che ho letto e riletto, e i primi libri che ho avuto la necessità di duplicare: i diciassette tomi nelle casa in America, gli stessi diciassette tomi in quella in Italia. Figurati che quando abbiamo avuto Rupert Sheldrake ospite da noi, l’ho convinto a leggere Flash for Freedom! I maestri di scrittura? Le influenze ormai sono infinite, e spesso insolite, come ti puoi immaginare. Per esempio nei seguenti versi dell’umile canzonettista Alvaro Carrillo, tratti dalla sua canzone Sabor a mí trovo più (disarmante, cruda) poesia che nell’opera omnia di Pablo Neruda:  > “No pretendo ser tu dueño > No soy nada, yo no tengo vanidad > De mi vida doy lo bueno > Soy tan pobre, ¿qué otra cosa puedo dar?” Non frequento più librerie tradizionali da anni, ma spesso quelle che vendono libri usati, e ce ne sono molte di più nel mondo anglofono. Entri senza sapere che cosa stai cercando ed esci, quando la cerca va a buon fine, con una o due o più gemme la cui esistenza ignoravi fino a poco prima. Mi divertono tutti i libri della Adventure Unlimited Press, capitanata da quel mattoide di David Hatcher Childress. Ciascuno di voi lettori dovrebbe leggere almeno un libro di Graham Hancock, il quale fra l’altro ha inventato un nuovo genere: la narrative non-fiction, che sembra un ossimoro, ma non lo è. Cominciate da Impronte degli dei. Alla ricerca dell’inizio e della fine. Non posso non citare almeno qualche autore di lingua spagnola al di là di Cervantes, Lope de Vega, Leopoldo Lugones, César Vallejo, Xul Solar e Jorge Luis Borges: mi piacciono molto José Javier Esparza e Pío Moa. Ce ne sono così tanti altri che l’intervista diverrebbe una lista, il che non è di grande intrattenimento. E ora… cosa scrivi? Cosa vorresti scrivere?  Ho appena terminato A Drive Down the Carretera Austral in Chilean Patagonia. Ho guidato, cioè, fra andata, divagazioni e parziale ritorno, per 2600 chilometri, da Puerto Montt a Villa O’Higgins, tutti esclusivamente in Cile e per la maggior parte su sterrato. Le Ande bloccano le nuvole che vengono dal Pacifico, cosicché la Patagonia cilena è una verdissima foresta pluviale temperata, mentre quella argentina, un deserto. La Carretera Austral è stata costruita per volere di Pinochet per poter mobilitare l’esercito contro le incursioni argentine, ma è diventata un viatico per la natura più bella al mondo, fra vulcani, ghiacciai, foreste zeppe di maestosi alberi a noi sconosciuti, laghi, fiumi, cascate, fiordi, isole e isolotti. Il libro l’ho scritto di getto; vado a giorni a Londra a parlarne con il mio agente letterario. Speriamo che per una volta esca entro breve. Di solito gli editori, spesso duri di comprendonio, ci mettono anni ad arrivarci… *In copertina: David Byrne indossa “The Big Suite”; Stop Making Sense esce nel 1984 L'articolo “Sono patologicamente curioso”. Da Gladio alla Patagonia, dall’occulto ai Talking Heads: dialogo con Guido Mina di Sospiro  proviene da Pangea.
June 10, 2025 / Pangea
“Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp) con Cristiano Godano, tra Nabokov, Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto il resto
Poi – giorni dopo – sono, per lo più, due occhi verdi, verbosi, per sempre fanciulli, occhi da bimbo con la cerbottana. Occhi d’erba. Cristiano Godano, per lo più, è lì, negli occhi: occhi che scalpitano. Occhi con le unghie. Occhi tra l’altalena e la fame, tra azzurro e azzardo.  Siamo ancora qui, mi dirà, dopo. Beve Red Bull. Ha ordinato una quantità di piatti. Mangia poco. Sono di una lentezza esasperante, dice. Ride. Poi, ancora. Siamo ancora qui, dice. Dice dei Marlene Kuntz. Cita i Verdena. Parliamo di Gianni Maroccolo e di Ferretti, dei CSI e del Consorzio Produttori Indipendenti. Tenacia nell’occhio destro, malinconia in quello sinistro. Cristiano ha occhi da Alessandro. Catartica esce nel 1994 – dovevi essere nella brutale periferia torinese, in quegli anni anodini, ad ascoltarlo. Cesare Pavese ha intravisto, in un celebre saggio, il Middle West in Piemonte, ha tentato un gemellaggio tra le Langhe e l’Ohio, mitica terra narrata da Sherwood Anderson. Sono cresciuto a Orbassano, gattopardesco ghetto degli operai della Fiat: quel luogo, nei neri e nubiformi anni Novanta, pareva paragonabile, semmai, agli slums scozzesi di Trainspotting; pensavo alle brughiere di Emily Brontë, a tratti, per uno slancio di sentimentalismo esistenziale. Per salvarmi, rubavo Dylan Thomas e Julio Cortázar nelle librerie di Torino (a Orbassano non esistevano); il mio amico Jonathan suonava Eric Clapton, Mark Knopfler e Jeff Beck. Ascoltavamo, annegando, Nuotando nell’aria: > “Intanto > l’aria intorno è più nebbia che altro… > Mi piacerebbe sai, sentirti piangere > anche una lacrima, per pochi attimi”. Imperava la droga – Roberto Baggio, imperiale, negli Usa – il podio del Festival di Sanremo diceva la piagnona disumanità italica: Aleandro Baldi, Giorgio Faletti, Laura Pausini – in maggio, si insediava il Governo Berlusconi I.  Intorno a Orbassano: chilometri di terre infeconde – il marrone addosso come un bastone, il marrone in faccia. In fondo, a Sfinge, le montagne, bianche, inaccesse – cupa mascella di Dio, pari alle nostre montagne interiori.  * Più tardi suonerà Osja, amore mio, il pezzo dedicato a Osip Mandel’štam, il grande poeta russo straziato da Stalin, morto di stenti nei Gulag sovietici, poco dopo il Natale del 1938. La canzone trae spunto dall’ultima, memorabile lettera di Nadežda al marito – una lettera rimasticata dagli spettri, che Osip non leggerà mai. Osja, amore mio esce nel 2013, l’album dei Marlene Kuntz s’intitola Nella tua luce. “Se mi senti dimmi dove sei…”. Amo le memorie di Nadežda, bellissime e tremende: c’era quel libro, L’epoca e i lupi, ora so che l’hanno ristampato come Speranza contro speranza, mi dice Godano. Poi parliamo di Iosif Brodskij. Fondamenta degli Incurabili.  Come se fosse un abbecedario minimo – Godano indossa gli occhiali da sole come fossero un elmo. All’inizio, però, era Oblomov. Incupito, Cristiano Godano costretto ad ascoltare le prediche di Brullo * Sono a letto, scusami, non si addice alla nostra conversazione: ora mi alzo. Mi dice Godano, giorni fa – giorni che potremmo chiamare Alpi, giorni in rampicata. Come Oblomov, faccio io.  Insieme a Roberta Rocelli, donna di indocile lucidità, che alterna la tenerezza al cazzotto, abbiamo deciso di invitare Cristiano Godano a suonare al Festival Biblico e a parlare del “Salterio dei Poeti”. Così, gli telefono. Che mi dici di Dio? Andavo a Messa da bambino – potrei dirmi ateo, preferisco agnostico: non è nel mio orizzonte, fa lui. E i poeti? Non li leggo. Non è vero, lo incalzo. In Poeti – brano installato in Bianco sporco, album dei Marlene del 2005 – citi Guido Gozzano, “il gran poeta”: Un mio gioco di sillabe ti illuse, da L’onesto rifiuto, gran bella poesia. È vero…, fa lui, intendevo dire che non sono un buon lettore di poesia. Più tardi si attarderà su Montale, “è sempre disponibile a farsi leggere e rileggere”; poi va a Borges, “una sua poesia mi ha ispirato”.  Comincia così un dialogo in ascesa. Come corda, piccozza e artigli usiamo WhatsApp. Facciamo un esperimento, gli dico: ti faccio una domanda al giorno. Sondiamo gli insondati, gli indicibili. Con rapace generosità – sbandato tra un concerto e l’altro – Godano ci sta.  * Parto dal campo base. Ci accomuna l’amore per Nick Cave e Vladimir Nabokov. Il primo è semplice. Mentre io andavo in delirio per No More Shall We Part – ipnotico brano di apertura, As I Sat Sadly by Her Side, mandato a ripetizione in una casa-catafalco a Milano – i Marlene avevano pubblicato da poco Che cosa vedi. Più tardi, sul palco, Godano sradicherà da quel disco il pezzo-Houdini, quello che scatena i cuori ammanettati degli astanti, La canzone che scrivo per te. Manca Skin, non ho il physique. “Di Nick Cave amo tutto. I miei tre dischi preferiti? Forse The Good Son, The Boatman’s Call, Kicking Against the Pricks”.  Poi c’è Nabokov. Ovunque. Cosa c’entri Nabokov con Nick Cave, a parte l’ecumene di N e di K, lo faccio dire a lui, copio-incollo da Il suono della rabbia (il Saggiatore, 2024): > “Due dei miei eroi di riferimento nel campo artistico, Nick Cave e Vladimir > Nabokov, un cantante e uno scrittore, hanno vissuto una vita dedita in maniera > spontaneamente totalizzante all’arte. Immuni a qualsiasi ingerenza del sociale > nei loro lavori artistici, mi hanno sempre dato la sensazione, influente e > ispiratrice, di una esistenza eccitante nella ben nota (e da molti > disprezzata) torre d’avorio dell’artista”.  Godano cita Nabokov come un amuleto. Entrambi siamo affascinati dall’uomo; quando gli parlo di Intransigenze, raccolta nabokoviana di interviste rette dal carisma della crudeltà (in Italia: Adelphi, 1994; l’anno di Catartica…), Godano va in brodo, cita a memoria alcuni giudizi del sommo, “l’asinina Morte a Venezia di Mann… le pannocchiesche cronache di Faulkner”. Ride. L’austerità dell’arte incline a tirannica ascesi. Lo scrittore: al contempo demone e crocefisso all’asse del proprio mondo. Godano preferisce La vera vita di Sebastian Knight; parliamo di Fuoco pallido; quando scopre che ho scritto un romanzo, Nabokov, su Nabokov, mi piglia per matto.  Credo che a Godano piaccia distruggere le maschere. Eleva la maschera a idolo, poi la abolisce, ne fa abominio. Si leva la maschera e la offre come trogolo al pubblico. Condanna di chi vive sul palco, perpetuo pasto dei fan, costretto a essere sigillo di memorie altrui, che non gli appartengono, di cui è ignaro. Nell’ultimo disco, Stammi accanto, un lotto di testi – Lode all’istante, Cerco il nulla, Vacuità – costituisce una specie di sentiero dello spirito, rasenta una poetica dell’esistere.  Vuol farmi credere che “nel Cristiano solista c’è meno frattura – o zero proprio – fra l’io narrante e il sottoscritto”. Fosse così, l’artista morirebbe a ogni pezzo. Spaccare lo specchio, esercitarsi coi vetri finché il sangue non è che una variante del cielo. * Un giorno lo scambio si infuoca. Gli piace Cioran, lo stringo sulla morte, sull’aldilà.  > “Adoro il black humour di Cioran: la penso come lui sul senso della vita, che > per me non c’è. Dunque, detesto profondamente la morte che considero > tremendamente ingiusta. Non ho alcun rapporto ‘foscoliano’ particolare con i > morti: un cimitero mi dice poco in merito al dialogo con loro, nonostante > camminarvi dentro mi consegni una fantastica pace. Una volta ho fatto footing > in un cimitero: inverno, otto e trenta del mattino, tentavo di trovare una > routine salvifica dagli stati ansiogeni che mi assillavano. Sforzo vano: > detesto correre”.  …ma ti rendi conto la noia di essere eterni? “Oh, no, siamo in totale disaccordo. Penso che si tenda a parlare di noia dell’eternità perché la si immagina in connessione con il mortificante accadimento della senescenza, ma se si potesse essere eterni senza invecchiare sfido chiunque a ritrovarsi a un certo punto annoiati della vita…” …eppure la bellezza esiste perché sfiorisce e gli uomini si amano, fino a morirne, proprio perché muoiono… altrimenti, crepino nel crepitio eterno. “Farei a meno dell’amore (ah, l’amore, il mio mistero per eccellenza: l’unica crepa nella mia apparentemente radicale convinzione che tutto sia illusione e che i vari nostri valori – bellezza inclusa – non siano altro che nostre inevitabili costruzioni) se in cambio avessi l’eternità”. Ad ogni modo, hai un figlio. Per lui, sei tu il senso. Al suo cospetto, la vita torna vita, non più tenue insensatezza.  “Sono il senso per mio figlio perché la vita (e l’evoluzione) ci ha tirato questo brutto scherzo: a tutti gli esseri viventi la condanna a cercare di vivere a tutti i costi, affannandoci costantemente e costringendoci a legarci ai più prossimi (genitori in primis) per non soccombere, e a noi esseri umani, in più, la sfiga della coscienza (siamo costretti a essere coscienti) che ci porta e riflettere e speculare e inventare illusioni. (Sono così, ahinoi, soverchiato dal raziocinio)”.  …ma l’arte è mania, mantica, insorgenza dell’irrazionale. La ragione, il logos, è la quintessenza dell’illusione. Se non esistesse la morte (il pensiero della morte, dunque l’amore che ci lega a questo ferito e fetido mondo e non ci fa suicidi), non avrebbe peso né presa l’arte. Un figlio non è generato dal caos, ma dal fato: un dono più che una condanna, da preservare, come il fuoco e il suo fuco. Che si spegnerà è ovvio: intanto, scalda, è luce. Si vive per dare la vita a un altro (anche se l’altro la rifiuta). Da gettati. “Ahimè, per me la vita è condanna. Questione di tempra. ‘Si vive per dare la vita a un alto’ è un altro brutto tiro della vita e dell’evoluzione, questa insensatezza rivolta in avanti (anche se il tempo, come dicono, non esiste). Vedi che è la cazzo di morte (violenta, ingiusta) che definisce tutto? È la sua protervia che ci costringe a ogni tipo di sotterfugi, arte inclusa (che fra tutte le illusioni è l’unica con qualche potenziale, illusorio anch’esso, salvifico)”.  Se è grazie alla morte che ho potuto leggere Trakl e Rilke, vedere Bellini e ascoltare… Godano e Nick Cave, beh, sono felice di morire. Il sotterfugio è il vero gioco da illusionisti. Amo questa terra grave di morte, ma non così tanto. Levarsi di torno senza tema di memoria, di lacrime, di arpie pettegole sarebbe saggio. Sparire più che morire. La morte fa da sprone – la vita, mai nostra, sia restituita. Il resto, chissà… troppo chiasso fanno i pensatori, i poeti impastano l’impensato. “Io amo la vita, ma solo nel senso che è mia con tutto il corredo di sentimenti emozioni affetti che a lei mi lega tenacemente. Odio la morte, che temo ardentemente. Per me ci si può con tranquillità chiedere se fosse meglio non nascere, e propendo più per il sì, con qualche circostanziata remora”. * Un giorno gli dico che è lui il grande illusionista.  I cantautori scrivono pezzi che inchiodano chi li ascolta a quel particolare ricordo, frainteso, acido d’anni: una rosa che si rivela iena, che ti si rivolta addosso. Schiavizzano, e sono schiavi. Mi risponde poco dopo:  > “Credo di poter dire che alla fin fine i miei scopi artistici sono > principalmente estetici. Nell’ambito della scrittura questo vuol dire che > gioisco in particolare di una qualche forma di eleganza connessa all’idea > dello stile, come se avesse un piccolo vantaggio sul significato”.  La forma è il significato (scarceriamo le parole dalla condanna di significare qualcosa, lasciamole essere falchi, ungulati, a unghiate); la chiarezza: idolatria da geometri, da vetusti cardinali del vocabolario. Su questo siamo (quasi) d’accordo. Più tardi costringo Godano al ‘sacro’; si smarca: “non avendo fede e non riuscendo a immaginare credibile l’esistenza di una deità che ci abbia a cuore non penso di nutrire una qualche riverenza altrettanto credibile nei confronti del sacro. Sacri al limite, per me, possono essere alcuni nostri valori (nostri in quanto creati da noi esseri umani), come la compassione”. Parliamo dell’anima, ma so che è fare Arlecchino con il fumo. “Ragionerei più in termini di coscienza”, fa lui, e fiancheggia altre vie, l’arsura del no, “ammetto di non essere particolarmente attratto o consolato dall’idea che la nostra ‘energetica coscienza’ confluisca in un gigantesco ricettacolo universale… anche ’sti cazzi”. Potrebbe essere il motto di una nuova formula teologica.  * Più che altro, va tenuta sull’ambone questa nostra vita da sfracellati. Forse “Cristiano Godano”, votato alla musica, obbligato a concelebrare sul palco, non ha avuto lo spazio per poter essere Cristiano Godano. Da qui gli occhi: perpetuamente famelici. Felici.  Ogni parola, con le sue botole, i botoli, le trappole, semina disorientamenti.   Poi è il concerto, nel giardino del palazzo vescovile di Vicenza, tra fantesche gelsomini. Il canto annienta ogni concetto e tutto torna come è, per sempre primo, rupestre. La vita, allora, è questa immemore caccia di comete felidi, questa luce tra le mani, i volti come stelle filanti.  Quando mi chiama – Davide, Davide – siamo già all’Ade di noi, in un altro mondo di ombre.  *In copertina: Cristiano Godano in un ritratto fotografico di Gabriella Vaghini; nel servizio le fotografie sono di Nicola Zolin L'articolo “Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp) con Cristiano Godano, tra Nabokov, Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto il resto proviene da Pangea.
June 5, 2025 / Pangea
Tra l’Iliade e De André. Portiamo i cantautori a scuola. Dialogo con Marcello Bramati
Se muoiono i poeti/ ma non muore la poesia, come scrive Aldo Palazzeschi in Congedo, che cosa si può dire oggi della canzone d’autore? Che ne sarà della canzone d’autore italiana? Quale sarà il suo destino? Cantautori del calibro di De André, Jannacci, Gaber, Guccini, Fossati e via dicendo, tra i banchi di scuola, chi li conosce e riconosce più? La premessa dell’amico e collega Marcello Bramati nel libro L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere i cantautori nella letteratura e in classe (con prefazione di Massimo Bubola) pubblicato da pochi giorni per Mimesis è questa:  > “La canzone d’autore ha giocato un ruolo decisivo nell’espressione di ciò che > è stato il Novecento, un secolo che ha avuto bisogno di nuovi linguaggi e che > ha rivoluzionato gli schemi secolari precedenti fino a far emergere nuove > forme d’arte e nuove parole per raccontare le tragedie immani e il progresso > esponenziale”, ma “qui sta il punto: la cultura del Novecento non può > affidarsi alla nicchia di colti appassionati e alla buona volontà individuale, > perché la trasmissione dei saperi e del patrimonio culturale è un fatto > sociale e un atto politico che riguarda una generazione intera”.  Insomma, la proposta di Bramati è chiarissima e altrettanto seria: inseriamo i cantautori nell’ultimo miglio della letteratura italiana. Si intervenga anche sulle famigerate Indicazioni ministeriali, ferme all’altro ieri, ovvero il 2010:  > “è necessario dare maggiore luce al Novecento, specie al quarto periodo, > quello in cui hanno scritto poeti straordinari come Mario Luzi, ancora > esclusi de facto dallo studio scolastico, e tutti i cantautori”.  Basta una lezione di prova per capire fino a che punto il cantautorato sia sull’orlo dell’oblio: provare per credere. La tesi è suggestiva e importante e ha un suo appello:  > “provare a portare la musica cantautorale a scuola in modo tale che rientri > nell’istruzione dei cittadini di domani e risulti un’azione di tasso culturale > elevato e non un alleggerimento, un’ora di ricreazione, una bizza di un > docente appassionato che si concede il lusso di buttare via un’ora per qualche > canzone”.  L’amore per la letteratura lo richiede, il docente è chiamato a lasciarne il segno: “La letteratura lascia traccia del suo passaggio nell’anima, nell’immaginazione, nel linguaggio e nel lessico di chi la incontra”. Perché non potrebbe essere così con una canzone “d’autore”? Del resto – ci ricorda il cantautore Massimo Bubola nella bellissima Prefazione dal taglio storico poetico – la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che “si sono sempre date la mano”. L’interrogativo non è nuovo, già Montale nel discorso pronunciato per la consegna del Premio Nobel per la letteratura – correva il dicembre 1975, mezzo secolo fa – denunciava:  > “uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla > quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi”.  Era lo stesso Eugenio Montale che, in un articolo sul “Corriere della Sera”, il 21 giugno 1964, a proposito dei “poeti moderni” raccontava che questi scrivevano “seguendo un metronomo interiore”. Ora, al di là della annosa questione della clamorosa assenza della musica e della storia della musica come materia alle superiori nel nostro paese, si pone un’ulteriore questione: i cantautori italiani sono poeti? Bramati riconosce che si tratta di “una tesi tutta da dimostrare e che conta diversi acerrimi nemici”. Tutti ricordiamo quando, suscitando un vespaio di polemiche, nel 2016, il Nobel per la letteratura venne assegnato a Bob Dylan. Tra gli altri anche Alessandro Baricco fu molto critico, invitando a non confondere letteratura e canzone. Sciogliamo un po’ di nodi con l’autore.  Marcello Bramati, da dove cominciamo? C’è il “canone dei cantautori italiani” pubblicato recentemente da Paolo Talanca (Carabba editore) che indica un sentiero, ma come facciamo a forzare la mano e a far entrare in classe i cantautori? “Mi dispiace che si usi questa metafora, perché portare i cantautori in classe è compiere un atto di giustizia. Ciononostante, è proprio così, perché le indicazioni per i programmi della scuola superiore non ne fanno cenno, le antologie inseriscono qualche inserto di quelli che non si fila nessuno, a parte l’appassionato di turno. Di conseguenza, se si vuole portare la canzone d’autore in classe, serve operare un’incisione nel programma e prevedere un fuoripista, un’uscita consapevole dal tracciato ufficiale. Eppure, come diceva De Gregori, la storia siamo noi, nessuno si senta escluso, e quella storia, che passa anche dalle note e dalle parole dei nostri cantautori, deve poter trovare posto tra i banchi. Serve coraggio e non basta la passione, servono una visione educativa più ampia e la volontà di dire: questa non è un’ora persa, è un’ora ritrovata. Il cantautorato è letteratura vissuta, poesia popolare se volessimo cogliere la curvatura di alcune ballate sia per linguistica – si pensi ad alcune scelte semantiche di De Gregori o al dialetto di De André – che per il sociale – in questo caso, il pensiero vada subito Jannacci e a Gaber, fino alla Canzone popolare di Ivano Fossati, manifesto di un modo di far canzone d’autore. Ma la canzone d’autore è ancora di più, molto di più: il labor limae sui suoni e sulla parola carica di significato ne fa un prodotto letterario, quindi pur dovendo forzare la mano per portarla in aula, non si forza la serratura della letteratura nell’inserirla nel suo alveo, anzi si colma una lacuna”. Non sarebbe più facile pensare alla musica come una materia alle scuole superiori? “Sarebbe naturale. Perché la musica è un linguaggio che pervade la vita ordinaria, è passione, passatempo, svago, studio per i pensieri oggi dei ragazzi sui banchi e sempre in quelli dell’essere umano. ‘Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti’, cantava De André. Escludere sistematicamente la musica dagli studi superiori è una responsabilità che porta alla mercificazione e allo svilimento: la musica non è ricreazione, è riflessione. Non è solo ritmo, è senso. Una materia musicale seria alle superiori colmerebbe un vuoto antico. E magari lì, tra un rigo e l’altro, ci sarebbe spazio per Bob Dylan e per Brunori Sas, che con ironia e dolore canta ‘per chi non ha voglia d’abbaiare o di ringhiare/ canzoni tanto per cantare’ che facciano dire: Ma guarda, lo potevo scrivere anche io – e invece no, non potevi. E questo è il potere dell’arte, renderci umani e renderci pensanti, ed è qui che sta la responsabilità della scuola, che insegni il bello e il discernimento tra il bello-artistico e ciò che così arte non è”. Come mai non c’è mai spazio per le cantautrici? “Perché spesso si guarda solo dove la luce è già accesa, e negli ultimi sessant’anni – questo è l’arco temporale della canzone d’autore italiana – nella musica e ovunque gli uomini hanno avuto più possibilità delle donne, quindi hanno spiccato. Ma la verità è che le cantautrici ci sono, eccome. E brillano. Una breve galleria di autrici – e voci – straordinarie potrebbe includere Grazia Di Michele, che ha raccontato l’identità femminile con un’intensità rara, Teresa De Sio, voce del sud e della resistenza culturale, Nada, irregolare e viscerale, Cristina Donà, delicata e potente insieme, Giovanna Marini, storica e voce delle lotte sociali. C’è poi una nuova generazione che probabilmente ha maggiori possibilità e, con la distanza storica necessaria, potrà essere valutata con la lente dell’arte della parola in musica: in questo caso il pensiero va a Levante, che canta l’inquietudine dell’oggi con parole da romanzo, e poi a Carmen Consoli, con la sua prosa affilata e lirica insieme. Nella mia disamina individuo quattro autori da inserire nel programma di letteratura – almeno uno, a scelta – tra De André, Guccini, Battiato e De Gregori, ma a questi possono affiancarsi molti inserti personali e prove individuali. Cito Bubola, autore della prefazione, Niccolò Fabi, penso a Samuele Bersani, e così alle cantautrici appena citate. La letteratura non è solo Dante, Leopardi e Manzoni, ma c’è posto anche per Gozzano e Deledda: lo stesso vale per la canzone d’autore. In questo spazio, ben venga l’inserimento di autrici e autori, in piena parità di valori e dignità. Tutte loro meritano lo stesso palco, la stessa cattedra, la stessa dignità. Come diceva De André, ‘si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio’. È ora di dare spazio, di ascoltare davvero”.  A scuola, i tuoi studenti come reagiscono alle lezioni sui cantautori italiani?  “Nel corso dei  cinque anni di superiori, ho sempre inserito la musica d’autore in punta di piedi: una citazione, un rimando, un esercizio, un ascolto per casa, un lavoro su un brano stampato – e magari non ascoltato – sempre inserendo in un discorso più ampio l’opera in questione. Un esempio è La storia di De Gregori, proposta in prima insieme ad alcuni testi tratti da Erodoto, Tucidide, Manzoni. C’è sempre stato interesse, come accade quando una lezione decolla e diventa interessante: qualcuno ha ricordato di avere in casa questo o quell’album (come avviene per i libri), qualcuno di conoscere un nome, un titolo, una melodia, una storia. Proprio come avviene con tutto il materiale buono che si porta in classe, senza dare alla canzone un potere di affascinare più potente di altro. Solo in quinta presento interamente l’autore De Gregori e, a quel punto, giocando a carte scoperte, vengono garantiti ascolto e interesse ben sapendo di essere in un sentiero inesplorato ma che riserva pietre preziose scintillanti. Penso a Mondo politico, traduzione della dylaniana Political World, un esercizio di traduzione e interpretazione che si fa scuola di pensiero e di lingua”. È ancora possibile la poesia? “Sì. Perché la poesia, come diceva Montale nel suo discorso per il Nobel, ‘è ancora un atto di fede nella parola, anche quando la parola è consapevole del proprio fallimento’. In un mondo che vende tutto, anche l’inutile, la poesia resta un gesto di resistenza. È un seme che non sempre attecchisce, ma che va lanciato lo stesso. Perché ‘dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior’, cantava De André. La poesia è linguaggio carico al massimo grado di significato, è un patto generazionale che assegna al fruitore quella dignità di cui gli studenti hanno bisogno, è esercizio di sintesi, di ricerca e di attenzione così raro e così necessario. Ecco, è ancora possibile perché è ancora necessaria. Anche se spesso non si chiama più col suo nome e molto, che poesia non è, viene contrabbandato per esserlo”. Ha ancora senso insegnarla a scuola? “Ha più senso che mai. In un tempo che corre veloce, che urla e dimentica, insegnare poesia è un atto controcorrente. È dire: fermiamoci. Guardiamo. Sentiamo. Andiamo in profondità. Cogliamo la sfumatura. Cerchiamo il silenzio. Insegnare poesia è insegnare compassione, meraviglia, dubbio. Ci sono poesie che sono come un grido (Dante definisce proprio così la sua Commedia in Paradiso XVII), ci sono canzoni che sono ‘come sberle in faccia per costringerti a pensare’ (come canta Brunori): insegnare poesia significa dare strumenti per vivere meglio e sentire di più. E se una cosa bella non è più ordinaria, tocca alla scuola trasmetterla per garantire spazio, risonanza, vita. Questo è il compito più nobile della scuola. Non l’unico, non il più pratico, ma certamente il più alto. Dalla cetra di Omero alla chitarra dei cantautori, il passo non è poi così lungo: entrambi hanno intonato storie che attraversano i secoli, entrambi hanno usato la musica per dare forma alla memoria, alla sofferenza, all’epica quotidiana dell’umanità. Omero cantava di eroi e dei, ma lo faceva con il ritmo della voce e del respiro, affidando alla musica la sua poesia, la sua forza, la sua durata. È in quella scia che si muove ancora oggi la canzone d’autore. Massimo Bubola, nella sua visione limpida e poetica, ci ricorda nella prefazione al mio libro che  > “la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che si sono sempre date la mano > come due muse, due sorelle che si tengono per mano e scendono nel mondo per > avvolgerlo di bellezza, per cantarlo e consolarlo”.  In questa immagine c’è tutto: la continuità tra le parole dei classici e le voci dei cantautori, tra il verso epico e la ballata, tra l’Iliade e La guerra di Piero. Letteratura e musica, dunque, non sono mondi separati, ma fili intrecciati nello stesso tessuto dell’anima. La scuola, la cultura, noi tutti abbiamo il compito di custodire questo tessuto. Perché se è vero che i poeti possono morire, come scriveva Palazzeschi, è altrettanto vero che la poesia – in ogni sua forma, anche quella cantata – resta. E resta per cantare ancora”. Linda Terziroli L'articolo Tra l’Iliade e De André. Portiamo i cantautori a scuola. Dialogo con Marcello Bramati proviene da Pangea.
June 4, 2025 / Pangea